mercoledì 30 aprile 2008

L'isteria esiste ancora, lo dimostra una 'foto' cerebrale

L’isteria è un termine obsoleto, maschilista, ormai caduto nel dimenticatoio. Così la pensano oggi la maggior parte degli psichiatri. Eppure c’è chi ha “fotografato” la malattia per la prima volta riportando in auge un morbo che in realtà è tutt’altro che sparito. Studiosi di Sydney hanno utilizzato strumenti diagnostici alla avanguardia – la Pet e la Spect – e hanno propriamente visto ciò che accade in un cervello devastato dalla malattia. Coinvolte sono le aree emozionali e quelle legate al coordinamento dei movimenti, a riprova della spiccata “fisicità” della patologia. Tutto da rifare quindi per gli psichiatri? Non proprio. In fin dei conti, spiegano i medici, il termine isteria non si usa più (è sparito da decenni dal Dsm, manuale che classifica le malattie psichiatriche) ma i malati di isteria (adesso non si chiamano più isterici ma con altri nomi più tecnici e specifici) ci sono ancora. E quel che è importante sottolineare è che il fenomeno non riguarda solo gli appartenenti al genere femminile: ci sono anche maschi, circa il 10 percento dei malati. Oggi in particolare il termine isteria è stato sostituito da “reazione dissociativa” e “reazione di conversione”. Nel primo caso il paziente malato non si riconosce più, può sviluppare una voce diversa dalla propria, e parlare altri idiomi. Nella altra variante si ha invece a che fare con persone che addirittura possono subire paralisi degli arti e soffrire di anoressia. In generale, dicono gli specialisti, la personalità isterica si contraddistingue per l’immaturità e l’infantilismo. Si tratta di soggetti che, anche da adulti, non raggiungono un’indipendenza affettiva, sono volubili e capricciosi, si esprimono con teatralità. Gli isterici hanno una certa difficoltà a valutare la realtà, pretendono l’immediato soddisfacimento dei loro bisogni, sono facilmente distraibili e impressionabili. Secondo alcuni scienziati gli attacchi di panico, oggi tanto diffusi, sarebbero la versione moderna della vecchia isteria. Anche qui infatti sono strettamente coinvolte emozioni e sintomi fisici. In particolare sono le emozioni vissute in modo abnorme a scatenare crisi “fisiche” come tachicardia, respirazione alterata, annebbiamento della vista, giramenti di testa, vertigini, sudorazione alterata, tutti sintomi che vengono accompagnati da una sensazione di ovattamento che non permette di essere lucidi nelle azioni e nei pensieri. La psicoterapia aiuta infine i pazienti isterici ad avere una visione meno distorta del mondo, ad osservare con maggiore attenzione gli eventi, a fissarli in memoria, a riconoscere le proprie emozioni e a controllarle. Sembrano essere utili le terapie di gruppo, dove gli isterici sono ammirati per la loro capacità ad esprimere le emozioni e riescono a conquistare le simpatie degli altri pazienti grazie alla loro naturale abilità di instaurare relazioni. In Italia gli isterici rappresentano all’incirca il 2,5 percento della popolazione.

Il Mediterraneo? Una discarica di veleni

Qual è lo stato di salute del Mediterraneo? Non buono. Ogni anno sono milioni le tonnellate di sostanze inquinanti che vengono scaricate nelle sue acque. Ora – grazie al Programma per il monitoraggio e la ricerca dell’inquinamento del Mediterraneo di Atene – è stato in particolare fatto il primo censimento e relativa catalogazione di tutti gli inquinanti scaricati in mare: questo lavoro consentirà di intervenire con maggior efficacia nelle azioni di depurazione e di far luce sui paesi che inquinano di più. “I dati che abbiamo raccolto sono quelli ufficiali fornitici direttamente dai governi dei paesi interessati e quindi sono inconfutabili. Tra questi sono anche elencati tutti gli interventi che ogni nazione si è impegnata a mettere in atto per la salvaguardia dell’ambiente – hanno ammesso i ricercatori. Ma vediamo i dati salienti emersi dalla ricerca. Secondo gli esperti a inquinare di più sono soprattutto le fabbriche metallurgiche, le concerie, le aziende di prodotti chimici organici e inorganici e quelle per il trattamento di generi alimentari. Le stime parlano di quattro milioni di tonnellate di sali, 0,2milioni tonnellate di azoto, 0,9milioni tonnellate di fosforo e 85mila tonnellate di metalli vari che ogni anno vengono scaricate in mare. Non solo. Ci sono anche da sommare 47 tonnellate l’anno di idrocarburi aromatici (sostanze legate alle mutazioni genetiche e quindi all’insorgenza di patologie come i tumori), 55 chilogrammi di diossine e furano e oltre 200mila tonnellate di composti organici volatili. E poi c’è il petrolio. Stando alle dichiarazioni fornite da Fouad Abousamra, tra i rappresentanti del Progetto, solo 2003 nel Mediterraneo sono finite 1,96 milioni di tonnellate di greggio provenienti da fonti a terra senza calcolare le quantità scaricate da petroliere. Ragguagli in merito all’inquinamento del Mediterraneo ci giungono dagli esperti dell’Unep (United Nations Environment Programme). Secondo l’ultimo rapporto dell’ente ogni anno vengono scaricate in mare 55 tonnellate di lindane - un pesticida il cui uso è vietato nell’Unione Europea dall’inizio degli anni Novanta. Il lindane è uno dei cosiddetti POP (Persistent Organic Pollutants o Inquinanti Organici Persistenti), un gruppo di pesticidi e sostanze chimiche industriali come i PCB, le diossine e il DDT estremamente tossici. Dal rapporto emerge infine che l’Italia è il paese che inquina di più per quanto riguarda metalli pesanti come piombo, cadmio, rame e zinco, essendo responsabile del 30 percento dei rilasci totali di queste sostanze trovate nel Mediterraneo. Ma preoccupa anche il mercurio. “Il Mediterraneo è interessato da fenomeni di inquinamento da mercurio comparabili (e spesso ben maggiori) a quelli riscontrati nelle acque atlantiche – hanno recentemente commentato gli studiosi del Cnr di Rende (CS). Secondo gli studiosi vengono rilasciati nell’aria circa 4.500 tonnellate annue di mercurio, di cui 2.250 derivanti da attività industriali e il resto da sorgenti naturali. Una volta in atmosfera, questo metallo si deposita sui corpi recettori terrestri e acquatici, determinando un notevole impatto sulla catena alimentare.

(Pubblicato su Libero il 12 novembre 06)

Timido o agitato, ecco lo sport per vostro figlio

Calcio o tennis? Atletica o pattinaggio? Judo o ginnastica artistica? Domande che spesso si pongono i genitori quando si tratta di scegliere un sport da far praticare al proprio figlio. E che generalmente trovano una risposta basata sulle preferenze del bambino o degli stessi genitori, per una disciplina piuttosto che per un’altra. Ma al di là dei gusti personali per compiere tale scelta può essere utilizzato anche un altro criterio, proposto dal pediatra Carlo Napolitano, autore del libro “Lo sport giusto per il tuo bambino” (edito da Sperling Paperback). Secondo lo studioso a ogni sport corrisponde un preciso carattere. E dunque per ogni bambino esiste una specifica disciplina sportiva, ideale per lui e non magari per il compagno di classe che gli siede al fianco, e con il quale verosimilmente condivide parecchi altri interessi. Ma vediamo alcuni esempi. Se abbiamo a che fare con un bimbo abituato a stare in mezzo alla gente e a confrontarsi con il prossimo la proposta di Napolitano è quella di fargli fare sport come il calcio e il basket: sono entrambe discipline di gruppo che necessariamente portano lo sportivo a “dialogare” direttamente con gli altri. Se il bimbo è presuntuoso avrà bisogno di sport in grado, diciamo, di metterlo in riga: in questi casi non c’è niente di meglio delle arti marziali, sport come judo e karate. Per il piccolo vanitoso (di solito la femmina lo è di più), vanno bene pattinaggio e sci nautico. Con riserva discipline tipo danza e nuoto sincronizzato: non si deve mettere la bimba nelle condizioni di elaborare l’idea malsana che magrezza (tipica di questi due sport) faccia rima con salute e bellezza. L’avventuroso è portato per natura a guardarsi intorno, per scoprire, per cercare. In questi casi è bene che il ragazzo faccia sport all’aria aperta, per esempio canoa, kajak, vela. Il bambino perfezionista avrebbe bisogno di lasciarsi andare un po’, ma anche di cimentarsi con discipline dove precisione e autocontrollo hanno grande importanza. In tal senso quindi sono consigliati sport come i tuffi ma anche come lo sconosciuto twirling: una specie di ginnastica acrobatica. C’è poi il bimbo che non sta fermo un attimo, un agitato per natura. A lui è consigliato per esempio il basket, l’hockey, discipline dove si corre come forsennati e dove le situazioni cambiano da un istante con l’altro. Per un bambino rissoso, a cui piace particolarmente fare a botte, ci vuole invece uno sport come il rugby, che permette di sfogare al meglio la voglia di contato fisico, ma anche e soprattutto di imparare il rispetto per l’avversario e la lealtà. Infine il baseball (che alterna movimenti veloci a lunghepause) e il ping-pong (che mette in movimento molti muscoli senza dar l’impressione di faticare) sono indicati per i bambini pigri, mentre per quelli timidi vanno bene il nuoto e l’atletica, gli sport individuali per eccellenza.

Compagnone: calcio, pallavolo, basket, sport di gruppo
Presuntuoso: arti marziali come judo e karate,
Vanitoso: pattinaggio su ghiaccio, nuoto sincronizzato
Perfezionista: tuffi, ginnastica acrobatica
Agitato: sport di gruppo come hockey e basket
Avventuroso: canoa, vela, sport all’aria aperta
Rissoso: rugby
Pigro: tennis da tavolo, baseball
Timido: equitazione, corsa, nuoto

(Pubblicato su Libero il 9 novembre 06)

L'anoressia corre in Rete e le vittime si moltiplicano

In Italia soffrono di problemi legati all’alimentazione circa 3 milioni di persone. E il loro numero è destinato ad aumentare. Ora in particolare per chi è colpito da malattie come l’anoressia o la bulimia c’è un nuovo pericolo: è il web. Proprio così: attraverso internet nascono siti dove le ragazze ammalate di anoressia si incontrano e si scambiano consigli. Sono siti illegali ai quali si accede con parole chiave sconosciute. Le forze dell’ordine mirano a scovarli e oscurarli, ma poi ne nascono altrettanti e così il fenomeno continua a mietere vittime. Per chi si sintonizza sui cosiddetti siti detti Pro Ana (Ana è la dea del cibo) il disgusto per il cibo è vissuto come una religione, come una filosofia di vita. Una filosofia che promuove il concetto di anoressia non come malattia, o come disordine del comportamento alimentare, ma come scelta attiva di un ideale di magrezza assoluta al quale ispirarsi. Su questi siti ci sono riportate frasi come “Ciò che mi nutre, mi distrugge”, fotografie raffiguranti anoressiche eccellenti, come certe attrici o indossatrici, esperienze di vita legate al soddisfacimento ricavato dall’interruzione del flusso mestruale, uno dei primi segni del male. Ancora. Vengono elencati i trucchi per nascondere la patologia a mamma e papà, i metodi per calcolare correttamente le calorie assunte e quelle consumate, viene raccomandata la necessità di fare esercizi fisici per almeno un paio d’ore al giorno. Specificatamente – si evince da Progetto Uomo, settimanale on line per educatori – si hanno due modi per dialogare segretamente con altri anoressici. Il primo si basa sull’utilizzo di blog internet (diari on-line) dove le persone che li hanno creati inseriscono, quasi giornalmente, il loro diario del disturbo alimentare e i loro obbiettivi. Il secondo è il più pericoloso: è il forum privato. Sono gruppi di discussione on-line che si autodefiniscono Pro-Ana, e che invitano ad entrare solo le persone che condividono una filosofia di magrezza assoluta. Secondo ABA, importante associazione che lotta contro l’anoressia, con sede sia a Milano che a Roma, è anche a causa di questi siti che le giovani anoressiche sono in crescita. Le più vulnerabili sono le ragazze tra i 15 e i 34 anni. In particolare l’età d’esordio del disturbo è di solito compresa tra i 12 e i 25 anni, con un doppio picco di maggiore frequenza a 14-18 anni. Negli ultimi tempi sono stati diagnosticati casi ad incidenza più tardiva, dopo i 20-30 anni. Il 5-10 percento delle anoressiche, muore per le molteplici complicazioni dovute all’eccessiva perdita di peso. Il male si insinua in maniera subdola, e spesso quando si corre ai ripari è troppo tardi. A fianco della perdita di peso si hanno anche l’alternanza di fasi euforiche a fasi depressive. Sballano i livelli di estrogeni nel sangue, aumenta la concentrazione degli ormoni della crescita, calano dopamina, serotonina e adrenalina. Non ultimo la ragazza che sceglie di diventare troppo magra rischia perfino di non avere figli. È di questi giorni la notizia diffusa dal giornale londinese Metro secondo la quale la top model Milla Jovovich – partner prima del chitarrista dei Red Hot Chili Peppers John Frusciante, poi del regista Luc Besson, e ora del regista Paul Anderson - vorrebbe un figlio, ma non può averlo perché è troppo magra: “Ho bisogno di mangiare un po’ di cibo gustoso – ha detto la modella -. Ma ora il mio corpo non mi consente di rimanere incinta: sa che non si troverebbe in una condizione adatta a sostenere una gravidanza”. Ma la vera icona dell’anoressia è soprattutto la famosa Kate Moss, alla ribalta delle cronache di questi tempi per la sua altalenante relazione sentimentale con Pete Dorothy, rockstar inglese. È con lei che il binomio modelle=anoressia si è imposto a partire dagli anni Novanta sul mercato della moda, influenzando le teenager di mezzo mondo. Infine, stando alle ricerche compiute dai principali enti che si occupano del problema anoressia, lo scandalo dei siti web inneggianti al rifiuto del cibo, nascono in America nel 2000. E da poco sono approdati anche in Europa e in particolare in Italia. “Riteniamo che sia necessario studiare con attenzione questo fenomeno, la cui scarsa conoscenza ne alimenta lo sviluppo – ammettono gli specialisti di ABA.

(Pubblicato su Libero l'8 novembre 06)

Cuore, reni, ossa: quanto costa l'uomo al pezzo

Oggi praticamente ogni organo può essere trapiantato, consentendo la sopravvivenza (anche di molti anni) di individui altrimenti spacciati. Ma con l’aumento dei trapianti si è avuta anche la necessità di quotare ogni organo, in base alle difficoltà di espianto e trapianto, e all’importanza che rivestono singolarmente in un corpo umano. E così adesso per ogni pezzettino del nostro corpo esistono tariffe e prezzi ben precisi. Vediamo i più importanti. Partiamo dai capelli. Un grammo di capelli costa 150 euro. E per rifare una chioma medio-lunga occorrono circa 200 grammi. Una vena o un’arteria costano circa mille euro. La cornea, l’organo in assoluto più trapiantato, costa 1150 euro. Frammenti di ossa hanno un prezzo di circa 2mila euro. La pelle costa da 3200 a 12 mila euro. Un rene 20.500 euro: è uno dei trapianti più eseguiti in Italia e nel mondo. Il midollo osseo ha tariffe molto varie: si va da 20.500 euro a 73 mila euro. Il fegato costa 53mila euro. Qui, in particolare, la probabilità di trovare donatori compatibili è quantomai scarsa: si parla di un rapporto uno a 40mila. Infine tra gli organi più “cari” abbiamo il polmone con un prezzo di 57.500 euro e il cuore che costa circa 70mila euro, mentre le valvole cardiache costano intorno a mille euro. Ma chi spende concretamente questi soldi? I cittadini italiani grazie al servizio pubblico possono accedere a un intervento di trapianto senza pagare nulla, mentre in molti altri Paesi, dove non sono disponibili le risorse per questo tipo di interventi, sono gli stessi pazienti a farsi carico dei costi del trapianto. Ma in questo modo spesso finiscono per l’alimentare il mercato nero degli organi. A questo proposito si sta facendo largo la proposta di Eli Friedman, specialista in malattie renali della State University di New York e Amy Friedman, esperta in trapianti della Yale University: rendere legale il commercio degli organi umani in quanto “è questo l’unico modo per soddisfare i bisogni di tanti pazienti”. I due medici suggeriscono pertanto di consentire la vendita di organi come i reni, anche perchè le campagne per aumentare le donazioni stanno fallendo e il mercato nero degli organi umani sta aumentando. Problemi che certamente non esistevano nel 1902 quando il chirurgo Alexis Carrel fece il primo tentativo per far vivere un cane con un rene proveniente da un altro animale. Poi arrivarono gli esperimenti sull’uomo. nel 1954 Harrison e Murray trapiantarono con successo un rene in un gemello omozigote. Nel 1963 furono eseguiti i primi trapianti di polmone e di fegato. E nel 1964 Hardy e Webb eseguirono il primo trapianto di cuore xenogenico scimmia-uomo. Kelly e Lillehei furono i pionieri del trapianto del pancreas e di lì a poco fu la volta dell’intestino. Mentre oggi, come abbiamo detto, si può trapiantare praticamente tutto.

(Pubblicato su Libero il 3 novembe 06)

Un ragno nel letto spaventa più della morte

Di cosa ha più paura l’uomo moderno? È la domanda che si sono posti degli scienziati inglesi. La riposta è: i ragni. Proprio così, i minuscoli aracnidi, nella stragrande maggioranza dei casi assolutamente innocui per l’uomo, sono la “cosa” che terrorizza di più. In particolare dallo studio affrontato dalla psicologa Donna Dawson emerge che i ragni fanno addirittura più paura della morte e del dentista. “La paura degli aracnidi è una della paure più remote e primarie, che risale all’età delle caverne – dice Dawson. Specificatamente si parla di aracnofobia per definire una forma di nevrosi che coinvolge molte persone, e riguarda appunto la totale avversione per i ragni (e in molti casi anche per gli insetti). A tu per tu con un ragno un malato di aracnofobia comincia a sudare freddo e nei casi peggiori può perfino svenire. E le altre paure? Eccole. Al secondo posto delle maggiori paure dell’uomo moderno spicca il terrorismo: in particolare a fare paura sono i kamikaze che agiscono all’improvviso e non danno possibilità di scampo. A seguire si registra la paura dei serpenti (ofidiofobia), e la acrofobia, ovvero il timore dell’altezza. Nel primo caso a terrorizzare di più è la pelle liscia e scivolosa dei rettili che al tatto risulta insopportabile e provoca una sorta di innata repulsione; nel secondo si temono soprattutto le vertigini, i capogiri, la nausea e talvolta addirittura gli attacchi di panico, derivanti dal vuoto percepito sotto i nostri piedi: l’acrofobia è spesso associata alla agorafobia vale a dire la paura degli spazi aperti. Al quinto posto c’è la poltrona del dentista: qui si è terrorizzati soprattutto dalla vista dei tanti strumenti maneggiati dall’odontoiatra. Al sesto posto ci sono le punture del medico (tripanofobia): le iniezioni insomma continuano a dare fastidio e ad essere tollerate pochissimo anche se gli aghi diventano sempre più sottili e le siringhe meno ingombranti. Infine, agli ultimi posti della classifica delle fobie dell’uomo moderno, risultano inaspettatamente la morte - il momento preciso del trapasso - la paura di parlare in pubblico, i debiti e i viaggi in aereo. Lo studio commissionato dalla compagnia Universal Picture UK su un campione di mille persone è servito inoltre a far sapere che altre paure come i fantasmi, la criminalità, la vecchiaia e il fallimento, fino a poco tempo fa tra i timori più diffusi, spaventano molto meno.

(Pubblicato su Libero il 2 novembre 06)

Dal falco al tasso: animali da record

Il Guinness dei primati non riguarda solo gli uomini, ma anche gli animali. Ci sono specie faunistiche che strabiliano per le loro performance, e con le quali l’uomo non può minimamente competere. Piccolissimi animali in grado di sollevare pesi enormi. Giganteschi animali pesanti tanto quanto una scavatrice Caterpillar. Saltatori nati, dormiglioni proverbiali, viaggiatori instancabili. Iniziamo con la velocità. Qual è l’animale terrestre più veloce del mondo? Il ghepardo, come probabilmente molti sanno. Questo mammifero non riesce a correre per molto tempo, ma quando è in volata arriva anche a sfiorare i 115 chilometri all’ora. E l’uomo? Al massimo arriva a 45 chilometri all’ora: a un simile traguardo è giunto Asafa Powell, nel corso delle Olimpiadi di Atene del 2005. Sempre in tema di velocità abbiamo il falco pellegrino per ciò che riguarda gli spostamenti aerei e il pesce vela per quelli in acqua. Il primo, in picchiata, raggiunge i 240 chilometri orari. Il secondo i 110 km/h. A velocità “supersoniche” viaggiano anche il rondone codaspinosa (170 chiloemtri orari) e certi insetti come la libellula appartenente al genere Anax (58 km/h). L’animale più grosso è invece la balenottera azzurra: 110 mila chilogrammi di peso. A seguire ci sono lo squalo balena (15mila chili) e tra gli animali di terra l’elefante di savana (quasi 8mila chili). Il più piccolo? Tra gli animali superiori abbiamo il colibrì maschio, lungo poco più di 5 centimetri, e una specie di pipistrello che vive solo in Tailandia, le cui misure non superano i 4 centimetri. Nel regno dell’infinitamente piccolo dominano invece gli insetti: per esempio un coleottero della famiglia Ptiliidae ostenta la lunghezza di 250 micron. Saranno anche piccoli gli insetti, tuttavia sono tra gli animali più forzuti in assoluto. Al confronto anche il migliore sollevatore di pesi umano impallidisce. C’è lo scarabeo rinoceronte del genere Dynastes che solleva 850 volte il proprio peso. C’è la comunissima formica che alza oggetti 50 volte più pesanti di sé. Il record mondiale di sollevamento pesi registrato nel 1998 dal sovietico Leonid Taranenko? Appena 266 chili, sì e no, il doppio del proprio peso. Ci sono poi animali i cui record non sono verosimilmente assimilabili a delle virtù, ma semmai a delle bizzarrie della natura probabilmente necessarie a qualche scopo evoluzionistico: il riferimento è per esempio all’animale più feroce, al più micidiale, al più lento. Nel primo caso figura il ratele o tasso del miele. Lungo 80 centimetri, vive in Sudafrica, e attacca chiunque gli capiti a tiro: uomini ed elefanti compresi. Al secondo risulta il serpente australiano taipan: un solo morso di questo rettile è sufficiente a uccidere 100 uomini. Al terzo fa la sua comparsa il famoso bradipo tridattilo: è uno sdentato del Nuovo Mondo che in un’ora non percorre più di 240 metri. Infine due parole sull’animale più brutto del mondo: si tratta del gatto Sphynx, un felino privo di pelo che è stato creato selezionando mutazioni genetiche.

(Pubblicato su Libero l'8 marzo 07)

L'effetto serra apre il Risiko dell'Artico

Lo scopo del famoso gioco chiamato Risiko è il raggiungimento di un obiettivo predefinito, segreto e diverso per ciascun giocatore, che può consistere nella conquista di un certo numero di stati, nella conquista di due o più continenti o nell’annientamento di un giocatore avversario. Ebbene, quello che si sta verificando al Polo Nord, tra stati veri e uomini in carne ed ossa, è più o meno la stessa cosa: protagonisti della vicenda Usa, Canada, Danimarca, Norvegia e Russia. L’effetto serra sta repentinamente sciogliendo i ghiacci dell’Artico, liberando di giorno in giorno sempre più spazi potenzialmente sfruttabili da attività commerciali come la pesca, il turismo, e soprattutto le estrazioni petrolifere. Ognuno di questi stati si sta dunque muovendo per cercare di rubare al “vicino” più terra possibile, o meglio, più acqua possibile. Di fatto fino a oggi l’Artico e suoi confini geografico-amministrativi non sono mai interessati ai potenziali contendenti: l’enorme banchisa non consentiva di trivellare vaste zone territoriali e tantomeno alle navi di spostarsi agevolmente. Ora però, con il surriscaldamento globale – dal 1975 a oggi la temperatura al Polo Nord è cresciuta di circa un grado – tutto viene visto in un’ottica diversa: la tratta marittima Tokyo-New York, per esempio, risulterebbe ridotta di 7mila chilometri; nuovi pozzi petroliferi potrebbero essere presi d’assalto: le stime dicono che il 25 percento di tutto il petrolio terrestre risiede nelle regioni artiche; i principali banchi di pesci, che una volta vivevano a sud del Polo Nord, adesso vengono a trovarsi in corrispondenza dei punti caldi della disputa per l’accaparramento di nuove terre, complicando ulteriormente le cose; la Groenlandia potrebbe ospitare sempre più abitanti: in questi mesi c’è chi si sta dando da fare per coltivare, dopo 500 anni, ortaggi come i broccoli e i cavoli. Canada e Usa si guardano in cagnesco per ciò che riguarda la tratta di mare compresa tra l’Alaska e la Baia di Baffin. Entrambi gli stati rivendicano la loro supremazia: in particolare gli statunitensi asseriscono che quel tratto di oceano artico è indispensabile alle proprie petroliere. Ostilità simili si stanno verificando anche tra Norvegia e Russia. Qui il problema sono le nuove sorgenti petrolifere che potrebbero venire alla luce. Inoltre i due paesi si fronteggiano anche per ciò che riguarda la supremazia sul mercato ittico. E in questo caso vengono coinvolte anche la Danimarca e l’Islanda. E allora che fare? In questo momento i problemi tra i vari paesi che si affacciano sull’Artico sono stati sottoposti alla Commissione Internazionale per le Piattaforme Continentali Sottomarine, creata sotto l’egida dell’Onu: purtroppo, però, di soluzioni concrete ancora non se ne vedono. Quello che si vede e che abbiamo sotto gli occhi tutti i giorni, è che effettivamente se andiamo avanti di questo passo tra meno di 50 anni il Polo Nord, almeno in estate, sarà navigabile in lungo e in largo, con tutte le conseguenze buone e cattive del caso. In particolare Pal Prestud, vicepresidente del comitato che ha prodotto l’ultimo rapporto scientifico sul cambiamento climatico globale, commissionato dall’Artic Council dice: “Il cambiamento climatico non è una questione che riguarda il futuro: ci riguarda adesso. L’Artico si sta riscaldando a un livello doppio della media globale”.


  • La calotta polare artica negli ultimi trent’anni si è ridotta quasi del 50 percento
  • Entro il 2100 si prevede un incremento delle temperature artiche di 5-7 gradi centigradi
  • 4 milioni le persone (eschimesi) rischiano di rimanere senza casa
  • Usa e Canada si fronteggiano per la tratta di mare compresa tra la Baia di Baffin e l’Alaska
  • Russia, Norvegia e Danimarca rivendicano le acque a nord del Mare di Barents
  • Secondo i climatologi tra 40 anni il Polo Nord sarà completamente navigabile
  • Il tragitto navale da New York a Tokyo si accorcerà di 7mila chilometri
  • Il tragitto Londra-Tokyo, oggi percorribile in 35 giorni e 11mila miglia marittime, domani sarà possibile affrontarlo in 22 giorni e 7 mila miglia marittime
  • A rischio di estinzione molti animali tra cui orsi polari, volpi artiche, foche e uccelli marini

(Pubblicato su Libero il 2 marzo 07)

Insultingly Stupid Movie Physics

Con l’avvento degli effetti speciali i registi cinematografici si sono sentiti liberi di dare sfogo a tutta la loro inventiva e immaginazione. Così facendo però non si sono resi conto di commettere molto spesso degli errori grossolani, per non dire madornali, dal punto di vista fisico. Se si fa caso infatti ai tanti film in circolazione chiunque può accorgersi che le leggi fisiche non vengono quasi mai rispettate, e che quindi la maggior parte dei lungometraggi non ha nulla a che vedere con la realtà. Dell’argomento si è recentemente interessato un ingegnere statunitense con il pallino per i film, Tom Rogers. Costui ha preso in considerazione una ventina di film e li ha analizzati uno a uno, individuando tutte le cialtronerie scientifiche in essi presenti. Il libro intitolato “Insultingly Stupid Movie Physics” è già diventato un cult. Facciamo degli esempi iniziando dal famoso “King Kong”, film girato per la prima volta nel 1933 e ripreso recentemente (2005) dal regista Peter Jackson. Secondo gli specialisti la forza e la resistenza del mastodontico gorilla non sono ammissibili. Un’anatomia come quella del primate presuppone infatti un apparato scheletrico assai fragile e debole, facilmente abbattibile da chiunque. Nel film “The day after tomorrow” di Roland Emmerich (2004) si verifica un fatto alquanto improbabile: si sciolgono repentinamente i ghiacci dell’Artide e con essi si ha uno sconvolgimento immediato delle correnti oceaniche. Tutto ciò è inverosimile, poiché nessun cataclisma naturale (salvo eruzioni e terremoti) può avvenire in modo così repentino. Il famoso uomo-ragno, “Spider-man”, girato da Sam Raimi nel 2002, prende vita dopo il morso di un aracnide geneticamente modificato, e qui entra in gioco il principio di Lavoisier, secondo il quale nulla si crea e nulla si distrugge: l’uomo ragno non potrebbe produrre di continuo ragnatele se non perdendo progressivamente il suo volume fisico. In “Independence day”, altro film di Emmerich (1996), esplode sopra i cieli di una città un’astronave aliena di 24 chilometri di diametro. Un fatto del genere però presuppone un’esplosione pari a quella di una bomba atomica, cosa non è contemplata nel lungometraggio. Infine citiamo l’apoteosi delle sciocchezze scientifiche in campo cinematografico: il riferimento è al film “The core”, realizzato nel 2003 da Jon Amiel. In questo film il nucleo terrestre smette di ruotare e di generare un campo magnetico; il fenomeno è però inaccettabile in quanto un evento del genere scatenerebbe immediatamente cataclismi naturali di immani proporzioni, non considerati nell'opera di Amiel. In ogni caso, nei lungometraggi, non sempre le baggianate scientifiche sono così evidenti. Tante volte si nascondono dietro a ciack apparentemente normali. La cosiddetta “conservazione della quantità di moto”, per esempio, viene quasi sempre ignorata; quando una persona spara infatti, quasi mai viene spinta nella direzione opposta a quella del proiettile, come invece dovrebbe accadere. Nelle scene rallentate (tipo certe cadute nel vuoto di macchine o persone), le urla dei personaggi non rallentano insieme ai fotogrammi; secondo i fisici invece dovrebbero abbassarsi di un’ottava. Nei film ambientati nello spazio vengono spesso commessi errori relativi all’illuminazione delle navicelle spaziali: nel cosmo non c’è aria e la luce non si rifrange e dunque è inammissibile supporre di vedere interamente un veicolo spaziale; di quest’ultimo dovrebbe essere visibile solo la parte baciata dal sole. Nei film mozzafiato, infine, è facile incontrare un assassino che si nasconde nel sedile posteriore di una automobile, per poi saltare fuori all’improvviso e colpire la vittima designata alle spalle. In realtà - se si considera che lo spazio tra il sedile anteriore e quello posteriore è di circa 100x30x45 centimetri, e che una persona in media è alta 1.70 metri - un evento del genere è quantomeno improbabile per non dire impossibile.

L'enciclopedia degli insetti nasce in un orto

In Inghilterra c’è un fotografo che ha trasformato la sua casa e il suo giardino in un orto botanico, un gigantesco laboratorio entomologico. Da qui molti scienziati di tutto il mondo prendono spunto per comprendere i tanti misteri che ancora circondano il mondo degli esapodi. Si chiama Kim Taylor, ha 73 anni, e abita a Londra. Grazie alle sue fotografie è stato possibile stimare la velocità di volo di molti insetti e il battito delle ali al secondo nelle varie specie entomologiche. La coccinella, per esempio, viaggia a 3 chilometri all’ora. I tafani e le libellule sfiorano i 30 chilometri all’ora. Il volo della coccinella è il più prevedibile di tutti: il coleottero raggiunge l’apice di uno stelo o di un fiore e poi spicca il volo. Bombi, api e moscerini, sono caratterizzati da una notevole frequenza del battito delle ali, e per questo riescono a rimanere quasi immobili in aria, come gli elicotteri. Le libellule è come se fossero dotate di un doppio motore. Sbattono le ali in media 25 volte in un secondo, ma riescono a compiere movimenti molto agili come nessun altro insetto. Tra gli insetti che librano più di tutti le ali in un secondo ci sono le zanzare: arrivano fino a 300 battiti al secondo, toccando i 4 chilometri all’ora di velocità. Le mosche si fermano a 200 battiti al secondo. Le farfalle sono gli insetti dal volo più leggiadro e muovono le ali 5-10 volte in un secondo. 1047 battiti al secondo è il record detenuto dai moscerini del genere Forcipomyia (Diptera Ceratopogonidae). Ma come è possibile arrivare a questi risultati con una semplice macchina fotografica? Ci vuole un misto di esperienza e tecnologia, ammette Taylor. Sono necessari degli appostamenti oculati, ed è indispensabile prevedere la direzione di volo di un certo insetto. Bisogna anche essere provvisti di una pellicola e un otturatore ad alta velocità. Macchine in grado di compiere scatti in 50 milionesimi di secondo, quando una fotocamera tradizionale impiega almeno un millesimo di secondo per raggiungere lo stesso scopo. Del lavoro di Taylor ne ha parlato anche la prestigiosa rivista scientifica Current Biology. In particolare il riferimento è a Michael Dickinson, massimo esperto di fisiologia e meccanica del volo degli insetti. Lo studioso ha recentemente contribuito a spiegare il mistero del volo del calabrone, un insetto che da un punto di vista fisico è troppo pesante per poter volare. Infine si è visto che il suo volo obbedisce alle leggi della “aerodinamica instabile”, condizioni che consentono di volare sfruttando particolari turbolenze create dall’aria. Da qui Dickinson intende sviluppare modelli meccanici che potrebbero essere impiegati anche in campo militare.

Velocità degli insetti

Odonati (libellule), 22-28 battiti al secondo. Velocità 25 chilometri all’ora.
Ortotteri (grilli), 15-20 battiti al secondo. Velocità, 16 chilometri all’ora.
Coleotteri (coccinella), 75-91 battiti al secondo. Velocità, 3 chilometri all’ora.
Coleotteri (maggiolino), 46 battiti al secondo. Velocità 3 chilometri all’ora.
Lepidotteri (papilio), 5 – 9 battiti al secondo. Velocità, 16,5 chilometri all’ora.
Lepidotteri (macroglossum), 72 – 85 battiti al secondo. Velocità 18 chilometri all’ora.
Ditteri (tafano), 96 battiti al secondo. Velocità, 31,8 chilometri all’ora.
Ditteri (mosca), 190-197 battiti al secondo. Velocità 6,4 chilometri all’ora.
Imenotteri (api), 190-250 battiti al secondo. Velocità, 22,4 chilometri all’ora.
Imenotteri (vespe), 110 battiti al secondo. Velocità, 20,1 chilometri all’ora.

(Pubblicato su Libero il 28 febbraio 07)

Jeans: 20mila km per arrivare in negozio

I jeans che indossiamo hanno alle spalle almeno 20mila chilometri di strada. Un viaggio standard parte dall’Afghanistan e, attraverso una serie di tappe intermedie che vanno dalla Cina alle Filippine, dalla Polonia alla Grecia, arriva in Svizzera per lo smistamento definitivo. C’è però un problema che nessuno ha mai considerato nella sua globalità: il viaggio dei jeans costa all’ambiente un grande sacrificio in termini di inquinamento. Secondo alcuni studiosi tedeschi infatti, i costi ambientali provocati dal trasporto delle merci (non solo dei jeans) in Europa, sono pari a 217 miliardi di euro. Dunque i jeans, tra i prodotti più gettonati del mondo, e tra quelli che hanno alle spalle i ‘pellegrinaggi’ più lunghi, sono tra i principali inquinanti indiretti dell’ambiente: sotto accusa soprattutto gas di scarico, ozono, e maree nere. Ma perché sono necessari viaggi così lunghi per far arrivare in un negozio un paio di jeans? Perché solo così è possibile mantenere i costi entro un certo limite. In Kazakistan viene raccolto il cotone a basso prezzo e in Cina le balle di cotone vengono trasformate in filo su macchine europee a prezzi contenuti. Nelle Filippine e in Polonia si procede alla tinta dei jeans sfruttando tinture color indaco fabbricate in Germania. Dall’Europa i jeans tornano poi alle Filippine dove il costo per assemblare i jeans (bottoni, fodera, rivetti metallici) è limitato. Infine dall’Oceania si passa in Grecia dove il prodotto viene lavato e liso con pietra pomice proveniente dalla vicina Turchia. A questo punto i giochi sono fatti: i pantaloni arrivano in Svizzera pronti per essere venduti ai principali grossisti. Certo, questo è solo uno dei tanti viaggi che si possono fare. Non tutti i jeans obbediscono a questo tragitto: c’è chi lavora in casa propria, ma è chiaro che, in questi casi, il costo dei pantaloni alla fine è molto più alto. In media i viaggi dei jeans vanno da 4800 chilometri a 27mila chilometri, dice l’economista svizzero Richard Gerster. Recentemente anche dei giornalisti di The Guardian hanno percorso il lungo cammino dei jeans. In particolare hanno calcolato che dalle materie prime e dai loro componenti vengono percorsi circa 65 mila chilometri in totale: praticamente una volta e mezza la circonferenza della Terra.

(Pubblicato su Libero il 26 febbraio 07)

Elefanti in acido: eureka!

Hanno somministrato a un elefante una dose di LSD 3mila volte più potente di quella destinata ai drogati, scoprendo che l’animale è “molto sensibile al noto allucinogeno”: il proboscidato è rimbalzato un paio di volte su se stesso come un forsennato dopodichè – un paio di minuti più tardi – è stramazzato al suolo senza vita. È questo uno fra i tanti esperimenti condotti nel corso degli anni da scienziati – a metà strada tra genialità e follia - e laboratori ultraspecializzati. Oggi, a raccontarci i più incredibili test scientifici avvenuti nel corso della storia è il signor Alex Boese, scrittore statunitense e autore di “Elephants on Acid And Other Bizarre Experiments”, argomento che è stato recentemente ripreso anche dalla autorevole rivista scientifica New Scientist. L’esperimento dell’elefante risale all’agosto 1962 ed è stato condotto da Warren Thomas, direttore del Lincolm Park Zoo in Oklahoma. Nel 1954 Vladimir Demikhov, chirurgo sovietico, apre la strada al trapianto di cuore e a tutte le altre forme di trapianto creando il primo cane a due teste. A un pastore tedesco innesta la testa di un cucciolo. L’animale campa appena sei giorni. In seguito Demikhov si ripete su altri 19 animali riuscendo in un caso a far vivere un cane a due teste per un mese. Siamo in piena guerra fredda e gli Usa non possono certo stare dietro alle iniziative dei russi. Ecco quindi farsi avanti Robert White, esperto che condusse nel 1970 il primo trapianto di testa di scimmia. L’operazione richiese diverse ore, ma andò a buon fine. Dopo solo 36 ore però la scimmia morì per complicazioni. White successivamente propose un trapianto di testa umana: si fece avanti un tetraplegico, Craig Vetovitz, ma l’idea non ebbe seguito per la mancanza di un corpo disponibile. Nel 1960 dieci soldati volavano spensierati a 5 mila piedi di quota quando, all’improvviso, il pilota annunciò loro che di lì a poco si sarebbero schiantati. A questo punto gli venne chiesto di compilare un formulario per l’assicurazione, nel quale esentavano l’esercito da qualunque responsabilità. L’esperimento venne condotto per capire se sotto stress è più facile commettere errori: naturalmente la risposta si rivelò affermativa. Agli anni Trenta risale invece l’esperimento di Clarence Yeuba. Costui volle capire se fosse possibile evitare di ridere quando si è sottoposti alla tortura cinese, ovvero al solletico. Sperimentò il test direttamente sulla moglie, scoprendo che ridere in simili occasioni è invitabile, e che quindi la risata è una risposta istintiva a chi ci stuzzica precise parti anatomiche. È possibile imparare nuove cose mentre si dorme? Questo bizzarro quesito è stato risolto da Lawrence LeShan nel 1942 su vari ragazzi sofferenti di onicofagia. Lo studioso è andato avanti per diverse notti a ripetergli – mentre dormivano - che le “unghie sono terribilmente amare”. Alla fine il 40 percento dei giovani ha smesso di mangiarsi le unghie. Sempre in tema di sonno nel 1960 è Ian Oswald, dell’università di Edimburgo, a stabilire che è possibile dormire in ogni situazione. A tre volontari (con ore di sonno arretrate) bloccò il movimento palpebrale con strisce di scotch e li sottopose a shock elettrici, musica alta e lampi improvvisi. In ultimo s’avvide che tutti i volontari incredibilmente prendevano sonno dopo circa 12 minuti. Stubbins Ffirth volle invece capire se la febbre gialla fosse davvero contagiosa. Per verificare ciò bevve lui stesso il vomito di pazienti colpiti dal morbo. L’autore dell’esperimento non si ammalò, ma non poté cantare vittoria poiché, di lì a poco, ci si rese conto che la malattia viene trasmessa da una zanzara e non da liquidi organici umani. Infine, negli anni Trenta, abbiamo il genio del professor Robert Cornish dell’Università di Berkeley. Lo scienziato tentò di riportare in vita alcuni cani morti, soprannominati, non a caso, Lazarus, facendoli sballottare su e giù su un’altalena, mentre somministrava loro una miscela di adrenalina e anti-coagulanti. Morale: alcuni animali tornarono alla vita e, seppure ciechi e con danni irreversibili al cervello, resistettero qualche mese.

(Pubblicato sul mensile Rolling Stone)

L'alfabeto del contatto fisico

Una carezza, una spallata, una stretta di mano. Sono tutti gesti che ogni giorno siamo abituati a compiere: c’è chi lo fa per affetto, chi per disappunto, chi per chiedere aiuto. In ogni caso dietro a ogni gesto, a ogni tocco, che pratichiamo magari senza pensarci, si cela un significato ben preciso: un espediente dell’evoluzione che serve a farci stare meglio, e a soddisfare meglio i nostri bisogni e le nostre necessità. Ma quali e quanti sono i gesti che compiamo ripetutamente e attraverso i quali comunichiamo qualcosa? Ce lo dice una studiosa dell’università Roma 3, Isabella Poggi, autrice del libro “Le parole del corpo”. In pratica lo si potrebbe definire il primo “tocconario” della storia, ovvero il primo vocabolario del contatto fisico. Vediamo allora alcuni di questi contatti, di questi gesti, tipici della razza umana, e il loro significato. Per esempio un ragazzo che si azzuffa con un altro ragazzo per gioco, cosa vuole dimostrare? Dimostra il suo affetto, la sua amicizia, ammettono gli studiosi. Così come una ragazza esprime la sua vicinanza affettiva a un’amica sfiorandole la collana o i capelli e sottolineando quanto siano belli. Ci sono gesti come prendersi per mano che servono ad allentare la tensione, a sentirsi più tranquilli e protetti. Uno studio condotto in Usa ha rivelato che quando una moglie stringe la mano al marito i centri nervosi legati alla paura si attivano meno e che non è la stessa cosa se la mano viene stretta da un amico o da uno sconosciuto. C’è poi la mano del collega che si poggia delicatamente sulla nostra schiena: in questo caso è perché ha probabilmente bisogno di un aiuto, o intende assegnarci un compito. Ancora: tra i gesti più utilizzati del vivere quotidiano ci sono anche la spallata o l’abbraccio pubblico. La spallata può avere due significati. Il primo riguarda la bonarietà di indicare a un amico qualcosa che ci ha colpiti, per esempio un individuo che ci sta facendo ridere. Il secondo si riferisce invece a un atteggiamento di sfida, dovuto magari a un battibecco: fenomeno che può poi degenerare portando a un altro gesto in negativo come la sberla, lo schiaffo. L’abbraccio pubblico dimostra sicuramente l’affetto provato per una certa persona, però può anche servire per comunicare a un potenziale rivale che l’individuo che riceve il nostro abbraccio è “proprietà privata”. Infine va sottolineato che uomo e donna hanno aree precise dove andare a parare, mentre è inammissibile pensare di testare a casaccio su un corpo altrui per sollecitare questa o quell’altra cosa. Specificando, ci ricorda Poggi, le donne hanno molte meno aree accessibili rispetto all’uomo. “Dalle nostre ricerche emerge che le ragazze vengono toccate più da familiari e amici anche su guance e capelli – ammette la studiosa -. Qualche contatto avviene sul collo e raramente su ginocchia e glutei (e ciò è consentito solo alle amiche per scherzo)”. Il corpo di un maschio invece può essere toccato con più disinvoltura: dall’ombelico in su ogni centimetro quadrato del corpo è potenzialmente violabile.

(Pubblicato su Libero il 24 febbraio 07)

I capelli? Sono cresciuti grazie al fuoco

Quanti capelli ci sono in media sulla testa di un uomo? Dipende. Dipende innanzitutto dal colore dei capelli. I biondi sono quelli che ne hanno in media più di tutti gli altri: circa 140 mila. A seguire ci sono i mori (105 mila), e i rossi (90 mila). Sono solo alcuni dei dati raccolti da studiosi americani per riuscire a rispondere una volta per tutte al seguente quesito: perché l’uomo è l’unica specie dotata di capelli? Due le ipotesi principali. La prima riguarda una mutazione del gene FGF5. Quest’ultimo codifica una proteina coinvolta nel processo che arresta lo sviluppo dei capelli. Ebbene gli scienziati Glenn Conroy e Arthur Neufeld, su un articolo apparso sulla rivista Evolutionary Anthropology, spiegano che questa mutazione nell’uomo moderno non è più attiva come lo era primitivamente. E dunque la sua minore azione sarebbe alla base di una crescita “illimitata” dei capelli. Altra possibilità: è quella concernente il gene Phi-hHaA. Questo gene, nell’uomo, è diverso da tutti gli altri presenti nei primati legati alla cheratina, principale costituente dei capelli. In pratica, dicono gli specialisti, il gene in esame, deve aver subito una mutazione circa 240mila anni fa, in contemporanea con la scoperta del fuoco. Questa piccola modifica dell’assetto genetico umano avrebbe portato alla perdita della peluria e all’acquisizione dei capelli. Giunti fin qui la domanda che ci si pone è un’altra: ma perché l’uomo ha perso la peluria a scapito dello sviluppo di folte chiome? Secondo gli esperti sono diversi i vantaggi derivanti da un ridimensionamento della peluria a favore dei capelli. In primo luogo i peli facilitano il contatto con i parassiti. In secondo luogo peggiorano la termoregolazione. Dunque non ci vuole molto a capire: con il fuoco non fu più necessario un folto pelo per mantenere il corpo al caldo, mentre si fece presto largo la necessità di tenere a debita distanza pidocchi e zecche, e di sudare adeguatamente per un buon equilibro idrosalino. Ma perché i capelli? I capelli divennero importanti per tutt’altri motivi: innanzitutto per facilitare l’accoppiamento. Dei capelli tenuti in un certo modo erano un simbolo di bellezza e quindi facilitavano gli incontri tra potenziali partner. Al contrario i capelli acconciati male e sporchi non venivano presi in considerazione. Secondo punto: pensiamo al valore che hanno avuto i capelli nella storia. Pensiamo per esempio alle parrucche settecentesche, ma anche agli esponenti di certi movimenti sociali del tardo Novecento, legati soprattutto alla musica: i rockabilly, i figli dei fiori degli anni Sessanta, i rappresentanti del movimento punk degli anni Settanta. Vediamo che in ognuno di questi casi la capigliatura ha permesso di comunicare al prossimo un certo livello sociale, un certo stile di vita, una certa filosofia. Anche in epoca primitiva fu la stessa cosa: i capelli ebbero la meglio sui peli perché consentirono di rendere noto all’altro, al nuovo venuto, alla nuova tribù, il proprio rango, il proprio ceto di appartenenza.

(Pubblicato su Libero il 21 febbraio 07)

Siamo un popolo di molestatori

Allarme stalking in Italia. Secondo l’Osservatorio Nazionale sullo Stalking un italiano su cinque è soggetto a molestie da parte di erotomani, corteggiatori folli, cascamorti pericolosi. Il dato è confermato anche dal Centro antipedinamento di Roma: solamente nella capitale si denuncia che il 21 percento della popolazione è vittima, almeno una volta nella vita, di stalking. Sono soprattutto le donne a rimetterci: nell’82 percento dei casi il fenomeno riguarda il gentil sesso. D’altra parte sono specialmente gli uomini ad attaccare le donne: ciò avviene nell’87 percento dei casi. Ma cosa significa esattamente essere vittima di azioni di stalking? “Si parla di stalking solo quando sono in evidenza una serie di comportamenti ripetuti ed intrusivi di sorveglianza, alla ricerca di un contatto e di comunicazione nei confronti di una vittima che risulta infastidita e/o preoccupata da tali attenzioni o comportamenti – ammettono gli esperti. Secondo gli scienziati le minacce corrono principalmente via web, tramite mail, o tramite telefono. In alternativa possono anche subentrare pedinamenti e provocazioni verbali, consegna di mazzi di fiori non graditi e sorveglianza sotto casa. Non sono espedienti da sottovalutare: soprattutto alla luce del fatto che, nel 10 percento dei casi, dietro a un omicidio, almeno in Italia, si cela lo spettro di una molestia perseguita per tanto, troppo tempo. Gli studiosi dicono che i cosiddetti ‘molestatori insistenti’ sono individui che soffrono di difficoltà relazionali: di solito sono malati di infantilismo cronico, hanno una visione distorta dei rapporti interpersonali. Eppure sono persone con un’intelligenza viva, sono degli ottimi manipolatori, calcolatori dal sangue freddo. Da qui nasce quindi la loro estrema abilità a perseguitare una vittima fino a farla cedere, a portarla sull’orlo dell’esasperazione. Per tale motivo oggi gli psicologi parlano di una vera e propria ‘sindrome del molestatore assillante’. Una patologia che colpisce un numero di donne sempre maggiore e che comprende manifestazioni psichiche che vanno dall’insonnia e dagli incubi, a vere e proprie crisi ansiogene riconducibili al disturbo post-traumatico da stress. In questi casi il male si è ormai radicato nella mente di una vittima dello stalking e pertanto per lei c’è solo un rimedio: la psicoterapia cognitivo-comportamentale associata, nei casi più gravi, alla somministrazione di farmaci. Il fenomeno dello stalking ha cominciato a destare un certo interesse per via di alcuni episodi avvenuti negli anni Ottanta a discapito di personaggi di spicco dello Star System. Individui soggetti all’azione sconsiderata di vari stalker furono per esempio le tenniste Martina Hingis e Serena Williams, inseguite in tutti i tornei internazionali dai propri persecutori. In particolare l’attrice Theresa Saldana venne pugnalata dal suo stalker a Los Angeles nel 1982, mentre Rebbecca Shaffer, anche lei un’attrice, finì assassinata nella sua metropoli dal suo persecutore nel 1989.

(Pubblicato su Libero il 14 febbraio 07)

Dall'Austria arriva la terapia del bacio

A San Valentino cosa regaliamo di bello al nostro lui o alla nostra lei? Di idee ce ne sarebbero a bizzeffe, tuttavia gli scienziati ci invitano a compiere un regalo apparentemente più scontato, ma sicuramente più conveniente (e salutare) di tutti gli altri: un bacio. Ebbene sì: regaliamo alla nostra dolce metà un semplice bacio, e facciamo che da questo bacio ne possano derivare molti altri. Sì, perché, se davvero vogliamo bene al nostro partner, dobbiamo sapere che baciandolo miglioriamo le sue condizioni di salute, e con le sue, le nostre. Parola di scienziati austriaci e giapponesi, i quali lanciano un monito: affidiamoci sempre più spesso alla bacioterapia, un modo non convenzionale per tenere il più lontano possibili malanni di ogni genere. Ma come è possibile che un semplice bacio possa davvero migliorare le nostre condizioni si salute? È possibilissimo, stando a un team di ricercatori dell’università di Vienna che ha reclutato un campione di individui invitandoli a baciarsi ripetutamente e appassionatamente. Alla fine dei test, dei vari amanti, sono stati valutati alcuni parametri fisiologici: battito cardiaco, pressione arteriosa, colesterolemia (quantità di grassi presenti nel sangue). Inaspettatamente si è visto che tutti questi parametri - notoriamente legati a patologie molto gravi come l’infarto, l’ictus, e le ischemie - subiscono un crollo: giù la pressione, giù il battito cardiaco medio successivo al bacio, perfino il livello di grassi nel sangue subisce un repentino abbassamento. Ma non è solo il sistema circolatorio a migliorare grazie a un bacio appassionato: è anche il sistema immunitario. Proprio così. Secondo gli scienziati austriaci lo scambio di batteri da una bocca all’altra serve a potenziare il sistema immunitario di entrambi i partner: il nostro organismo disabituato a determinati parassiti, si rafforza, viene stimolato, e infine riesce a contrastare molte più forme di microrganismi patogeni. A dar man forte agli studi condotti dagli austriaci ci sono anche i giapponesi dell’università di Tokyo. In questo caso dalle ricerche emerge che baciare fa molto bene a chi soffre di allergie e addirittura a chi lotta contro i chili di troppo. Nel primo caso il riferimento è ancora una volta a un rafforzamento del sistema immunitario, che in questo caso non reagisce più accanitamente contro un determinato allergene, nel secondo al movimento di 34 muscoli facciali che porta alla liberazione di 6,4 calorie al minuto. In ultima analisi va comunque sottolineato che per la donna baciare è molto più facile rispetto all’uomo. “Le donne danno molta importanza ai baci, mentre gli uomini potrebbero farne benissimo a meno – ha rivelato Ingelore Ebberfeld, studiosa e sessuologa di Brema autrice di una ricerca sul bacio. In un’inchiesta condotta su un campione di 514 persone di età tra i 16 e i 91 anni, a dire di baciare volentieri è stato il 56 percento delle donne rispetto al 44 percento degli uomini. Durante l’atto sessuale le differenze però si rivelano molto meno accentuate: il 9,7 percento delle donne e il 10,7 percento degli uomini ha ammesso infatti di non baciare durante il coito. E pensare che gli scienziati di una volta credevano che ogni osculo amoroso accorciasse la vita di 17 secondi. Inoltre si credeva facilitasse malattie come l’influenza e la perdita di denti. Da qui il suggerimento di un certo dottor Rogers, dell’università australiana d’Adelaide: “Lasciamo perdere i baci canonici: facciamo come gli eschimesi, che per scambiarsi effusioni si limitano a strofinarsi i nasi”.

Dimmi come baci e ti dirò chi sei:

Bacio alla francese: poco scrupoloso, incondizionato.
Bacio sbilanciato verso destra: emotivo, sentimentale.
Bacio inclinato verso sinistra: timido, distaccato.
Bacio lento: sensuale, eccentrico.
Bacio pubblico: esibizionista, privo di pudore.
Bacio a occhi aperti: ansioso, iperattivo.
Bacio a occhi chiusi: romantico, sognatore.
Bacio parlato: poco istintivo, rigido.
(Pubblicato su Libero l'11 febbraio 07)

Matematico: l'arbritro è innocente

Poveri, poveri arbitri di calcio sempre sotto inchiesta perché non vedono questo, perché non vedono quello, perché favoriscono una squadra anziché l’altra, perché danno un rigore che non c’era, eccetera, eccetera. Ma ora c’è la scienza a schierarsi dalla loro parte: è fisiologicamente impossibile essere in grado di stabilire un fuorigioco, così come è umanamente impossibile sanzionare in eguale misura i giocatori dell’una e dell’altra squadra. Perché? Perché la natura umana non prevede la capacità di seguire contemporaneamente lo spostamento di quattro oggetti in movimento, perché la psiche umana non può essere insensibile a migliaia di tifosi che inneggiano alla propria squadra. Ma andiamo con ordine. Ecco per prime le conclusioni di un team di ricercatori inglesi dell’università di Bath: è matematicamente provato che un arbitro favorisce di più la squadra più forte di quella più debole, o la squadra che gioca in casa rispetto a quella in trasferta. I dati a riguardo parlano chiaro. Peter Dawson, a capo dello studio, ha analizzato 2660 partite della Premier League dal 1996 al 2003. È emerso che il numero di ammonizioni, di espulsioni e di rigori contro, è nettamente maggiore nelle squadre meno blasonate o in quelle che giocano fuori casa. “Le decisioni prese da un arbitro finiscono così per influenzare il risultato di una partita e per ostacolare il cammino in classifica di una certa squadra – ha ammesso Dawson. Ma perché un arbitro, pur non volendo, non ce la fa proprio a essere imparziale? Ci risponde Thomas Dohmen, dell’università tedesca di Bonn. Analogamente a Dawson, Dohmen ha passato in rassegna quasi 4 mila partite avvenute in Germania dal 1992 al 2003. Sorprendenti le sue conclusioni. Lo scienziato ha visto che negli stadi privi di pista di atletica, e quindi con il pubblico molto vicino, quando la squadra casalinga è sotto di un gol, il tempo di recupero è in media più lungo di un minuto, rispetto alle partite che avvengono in un campo circondato dall’area destinata alle gare di corsa. In questo caso entrano in gioco fattori psicologici e comportamentali con i quali ogni essere umano deve fare i conti. Volenti o nolenti diventa praticamente impossibile riuscire a rimanere impassibili innanzi alle grida di tifosi scatenati: se così non fosse l’uomo, nel corso della sua evoluzione, non avrebbe sviluppato l’abilità di salvaguardare la propria esistenza scappando da un potenziale pericolo. “Probabilmente l’arbitro è soggetto alla grande pressione dei tifosi, e non riesce più a essere completamente obiettivo – ha ammesso Dohmen. Infine c’è il tema del fuorigioco. In questo caso facciamo prima a calarci direttamente nei panni di un arbitro. Dunque: c’è da seguire la posizione della palla, quella dell’attaccante con la palla, quella dell’attaccante senza palla, e quella del difensore. Abbiamo ben quattro soggetti davanti a noi in movimento, e nell’arco di pochissimi secondi dobbiamo essere i grado di dire chi si muove per primo e soprattutto di quanto uno devia la sua traiettoria rispetto all’altro. Ebbene: è questa un’impresa pressoché impossibile da portare a compimento da qualunque essere umano. Ce lo spiega un articolo pubblicato sulla rivista inglese British Medical Journal. Gli esperti dicono che non è possibile stabilire correttamente un fuorigioco per tre motivi: perché siamo dotati di un campo visivo limitato (massimo 120 gradi), perché al cervello occorrono almeno 160 millisecondi per elaborare correttamente delle immagini in movimento, perché la cosiddetta “distorsione prospettica” finisce per dettare al cervello una posizione che non corrisponde alla realtà. Da tutto ciò ricaviamo che forse non è sempre colpa di un arbitro quando sbaglia, ma della natura umana. Per tale motivo in molti accarezzano da sempre l’idea di avere un domani in campo delle speciali telecamere o dei robot, in grado di arrivare là dove l’uomo non può fisiologicamente arrivare.

(Pubblicato su Libero l'8 febbraio 07)

L'intero sistema solare si surriscalda

La Terra ha la febbre. La Terra è giunta al punto di non ritorno. La Terra entro pochi anni non avrà più ghiacciai e i deserti regneranno sovrani. E quest’anno, il 2007, come se non bastasse, sarà l’anno più caldo nella storia recente dell’uomo: più caldo perfino del 1998 e del 2005 (rispettivamente l’anno più caldo mai registrato e il secondo mai registrato). Ma siamo proprio sicuri che sia davvero tutta colpa nostra? Delle nostre fabbriche fumose? Dei tubi di scappamento delle nostre autovetture? Degli spray che usiamo la mattina come deodoranti? Il dubbio c’è e rimane, e ora a rafforzarlo c’è un nuovo studio condotto in America da esperti del California Institute of Technology di Pasadena e del Mit di Boston: l’effetto serra, a quanto pare, sta interessando l’intero sistema solare, e non solo la Terra. Da qui quindi appare ovvio che l’uomo potrebbe non avere alcuna responsabilità riguardo al surriscaldamento del globo. Ma cosa hanno scoperto di preciso gli scienziati Usa? Essi hanno visto che su Tritone, satellite di Nettuno, dal 1979 a oggi c’è stato un incremento medio delle temperature di 7 gradi: più di quanto sia avvenuto sulla Terra. Ancora: Plutone è il pianeta più distante del sistema solare. Ebbene, anche qui si sono avute delle anomalie climatiche. Si è partiti costatando che attualmente la pressione atmosferica sulla superficie del piccolo pianeta è triplicata rispetto ai primi anni Ottanta, e si è arrivati a verificare che, parallelamente, le temperature hanno subito una spinta verso l’alto di circa 2 gradi. Qualcosa di simile sta accadendo anche su Marte e sui vicini giganti gassosi. Su Giove e Saturno stanno avendo luogo fenomeni atmosferici assolutamente inusuali. Gli astronomi hanno scoperto tempeste di inaudita potenza: un po’ come accade sulla Terra, dove negli ultimi anni si sono avuti uragani frequenti e violenti come non mai. Su Giove è comparsa una nuova macchia: sintomo di un’attività atmosferica in costante mutazione. Su Saturno, a fianco di un incremento medio delle temperature di 2 gradi, è stato fotografato un uragano largo 8 mila chilometri, con venti che soffiano a 550 chilometri all’ora. Allora se l’uomo non c’entra in tutto questo (o c’entra solo in parte, almeno per ciò che riguarda il nostro pianeta) cos’è che sta provocando la febbre all’intero sistema solare? La risposa è: il sole. Gli scienziati non hanno dubbi. Da un po’ di tempo a questa parte la nostra stella si sarebbe attivata di più: in pratica il vento solare si è fatto più potente e da ciò deriverebbe il surriscaldamento di questo piccolo angolino di via Lattea. Del resto qualcosa del genere si è verificato (al contrario), anche nel corso della Peg, la Piccola età glaciale. Siamo nei secoli a cavallo tra il ‘400 e l’800: in questo periodo le temperature calarono bruscamente, e ciò di certo non fu per colpa di qualche biasimevole azione dell’uomo, ma semplicemente per una minore attività del sole.

(Pubblicato su Libero il 4 febbraio 07)

Animali preferiti: la simpatia batte la bellezza

C’è un sito web inglese che riporta, in rigorosa successione, gli animali preferiti dall’uomo, siano essi rappresentanti della classe tassonomica dei mammiferi, degli uccelli o perfino degli insetti. Tra i mammiferi, per esempio, l’animale preferito, è il cane. Tra gli uccelli l’aquila. Tra gli insetti la farfalla. Fin qui tutto bene. Ma poi, proseguendo nella graduatoria delle specie faunistiche più amate dall’uomo si scopre una cosa interessante: che non è la bellezza (o meglio non è solo la bellezza) a guidare la scelta di un animale, bensì qualche altro parametro che probabilmente ci sfugge. Se così non fosse non potremmo altrimenti spiegarci come mai, al terzo posto della classifica inglese, tra gli animali preferiti risulti il rinoceronte, un bruttino per antonomasia, mentre agli ultimi posti figuri un bellissimo animale come la gazzella. Così come non riusciremmo a capire per quale imperscrutabile mistero una libellula possa surclassare il battito d’ali di una coccinella, o un banale e pacchiano piccione, sopraffare l’eleganza e l’austerità di un albatross. Ora però uno studio condotto da scienziati americani ci aiuta a capire il perché di tutto ciò: spesso preferiamo un animale brutto a uno bello, semplicemente perché il primo ci è più simpatico, perché ha dei colori più sgargianti, addirittura perché ci ricorda le espressioni infantili di qualche nostro caro. Un risultato che potrebbe avere interessanti ripercussioni nell’ambito della salvaguardia delle specie più a rischio: avendo infatti l’uomo un potere assoluto sugli animali e la natura, questi può inavvertitamente contrastare la sopravvivenza di esemplari che gli piacciano poco, per facilitare quella di altri giudicati più degni del nostro affetto. Il biologo David Stokes dell’università di Washington ha concentrato i suoi sforzi sui pinguini, simpatici animali che abitano le estreme terre del sud. 17 le specie prese in esame da Stokes. Tra le più importanti ricordiamo: il pinguino Imperatore che raggiunge il metro di altezza, e si riproduce Antartide; il pinguino reale, molto simile all’Imperatore, ma di taglia nettamente più piccola; il pinguino di Adelia, riconoscibile per il caratteristico becco accorciato, e capace di digiunare per sei settimane; il pinguino di papua, il più veloce di tutti a nuotare; i pinguini crestati, che arrivano addirittura a nidificare sulle coste della Nuova Zelanda. Il lavoro, pubblicato sull’edizione online del giornale Human Ecology, mostra in cima alla classifica dei pinguini preferiti dall’uomo i pinguini Imperatore (i famosi protagonisti del film “La marcia dei pinguini”) e i loro cugini i pinguini reali. A seguire ci sono i pinguini crestati. In fondo alla graduatoria risultano a sorpresa i pinguini di Adelia, la specie probabilmente più familiare e conosciuta dall’uomo. Da qui la domanda che pare ovvia: come si fa a preferire un pinguino Imperatore a un pinguino Adelia? Ecco la risposta. Secondo i ricercatori i pinguini Imperatore piacciono di più non perché sono più belli degli altri, ma semplicemente perché sono contraddistinti da colori più vivi, vivaci, appariscenti. In particolare questi ultimi, rispetto ai pinguini di Adelia, presentano delle sfumature cromatiche molto più calde sul collo e sulla testa: colori che vanno dal rosso al giallo intenso e che evidentemente riescono a influenzare il parere critico dell’uomo, più del nero cupo del capo di un pinguino Adelia. Infine gli studiosi hanno notato che non sono solo i colori a determinare le nostre preferenze. Altrettanto importanti sono le espressioni facciali, soprattutto quelle in qualche modo riconducibili a quelle dei neonati umani. A tal proposito l’esempio più spiccio è fornito da molti esemplari di primati, dagli scimpanzè ai babbuini, dai gorilla agli orango: le loro facce buffe, il loro frequente strabuzzare gli occhi o ridere sguaiatamente, ci riporta alla mente il fanciullo che per la prima volta vede qualcosa di nuovo. Non per niente preferiamo le scimmie ad animali esteticamente più belli come il leone, il lupo e il delfino.

BOX (tratto da: www.misterpool.com)

Insetti preferiti: farfalle (17%), libellule (14%), cavallette (8%), coccinella (8%), mantide religiosa (8%), formiche (4%), insetto stecco (3%), calabrone (3%), locusta (1%), mosca (0%).

Uccelli preferiti: aquile (4%), gufo (3%), falco (3%), colibrì (3%), oca (2%), colombo (2%), cigno (2%), parrocchetto (2%), pellicano (1%), albatross (o%).

Mammiferi preferiti: cane (14%), cavallo (10%), rinoceronte (10%), tigre (10%), gatto (7%), scimmia (5%), leone (3%), lupo (3%), delfino (2%), volpe (1%). Agli ultimi posti: l’opossum, il tapiro, lo scimpanzè, la gazzella, il bufalo.

(Pubblicato su Libero il 2 febbraio 07)

Un megacanale per sfidare il deserto del Medio Oriente

Dal Mar Rosso al Mar Morto: un canale di 180 chilometri per ricoprire di verde la desertica regione a cavallo tra Israele e Giordania e soprattutto salvare e recuperare lo specchio lacustre più salato del mondo. È la proposta di Norman Foster, architetto inglese di 71 anni, capostipite della cosiddetta architettura hitech. 15,5 milioni di dollari il costo per lo studio preliminare, 3 miliardi di dollari quello relativo ai 5 anni di lavoro previsti. Il 50 percento del canale si svilupperà sottoterra, tramite strutture larghe sette metri di diametro. L’altra metà scorrerà a cielo aperto. Se non si opererà in tal senso, dicono gli esperti, del Mar Morto non ci sarà più traccia entro il 2050. Il fiume Giordano, suo unico immissario, da tempo infatti non è più in grado di soddisfare il fabbisogno idrico del lago salato: a lungo andare le dighe e le opere di irrigazione lo hanno ridotto a un fiumiciattolo. Dagli anni Settanta a oggi il livello delle acque del Mar Morto è calato di 25 metri: oggi la sua superficie si trova a 412 metri al di sotto del livello del mare. Il canale partirà dalle coste di Aqaba (Mar Rosso) e giungerà dalle parti di El Mazra’a. Durante la sua corsa verrà prodotta acqua potabile attraverso un impianto di desalinizzazione: quest’ultimo convoglierà le acque direttamente nei rubinetti israeliani, palestinesi e giordani per un totale di circa 1 miliardo di metri cubi all’anno. Altro dato positivo riguarda la produzione di energia. Si pensa infatti che l’acqua del canale potrà creare i presupposti per la produzione di energia elettrica, anche grazie agli oltre 400 metri di dislivello naturale tra il punto di partenza e il punto di arrivo della struttura. Così facendo si riuscirà peraltro a vincere la terribile salinità che da sempre contraddistingue il Mar Morto, impedendo la vita di molti organismi acquatici. Il Mar Morto ha una salinità media di 365 grammi per litro di acqua (contro una media di 35 g/litro di acqua degli oceani). Per tale motivo le sue acque vengono oggi usate per la produzione di cloruro di potassio. Contrari a questo progetto ci sono molti ambientalisti i quali accusano le autorità amministrative israeliane di non considerare i disagi che un’opera di questo genere arrecherebbe all’ambiente. Preoccupa i responsabili della Banca Mondiale (che dovrebbe finanziare il progetto) anche la possibilità che un’infrastruttura del genere possa alterare gli equilibri geodinamici dell’intera area su cui sorgerà, provocando scosse sismiche. In particolare si temono fuoriuscite d’acqua che possano danneggiare le falde acquifere sotterranee. A opera ultimata il canale di collegamento tra il Mar Rosso e il Mar Nero sarà più lungo dei canali di Suez e di Panama. Il primo, risalente al 1869, è lungo 163 chilometri, il secondo, costruito nel 1914, 81 chilometri.

(Pubblicato su Libero il 1 febbraio 07)

martedì 29 aprile 2008

Viaggio allucinante 2028

“Questo è un piccolo passo per l’uomo, ma un grande balzo per l’umanità”. È il 20 luglio del 1969 quando Neil Amstrong - primo essere umano a saltellare sul suolo lunare - pronuncia queste parole. E ora la storia potrebbe ripetersi con un avvenimento ancora più entusiasmante: lo sbarco dell’uomo su Marte. La notizia è stata recentemente divulgata a Houston, in Usa, nel corso di un incontro del Lunar Exploration and Analysis Group: la missione per la conquista del Pianeta Rosso inizierà nel 2028 e si chiuderà con la prima vera e propria cavalcata umana tra le polveri rosse di Marte nel febbraio del 2031. “Protagonisti della conquista marziana saranno 7 astronauti – spiegano gli studiosi della Nasa – si pensa quattro uomini e tre donne - rigorosamente addestrati e allenati per sopportare il lunghissimo viaggio di andata e ritorno dalla Terra al quarto pianeta del sistema solare”. Lo sbarco umano sarà preceduto dal ritorno sulla Luna che avverrà nel 2018. Quattro astronauti permarranno sul satellite per circa una settimana. Secondo l’Orlando Sentinel - quotidiano della Florida – in questa sede l’uomo darà vita al primo avamposto stabile lunare. Di esso si serviranno gli uomini che dovranno andare su Marte, ma anche molti altri scienziati e tecnici decisi a svelare i tanti misteri che ancora circondano l’enigma Luna. Dalle ultime missioni Apollo sono passati quasi 40 anni e dunque oggi i tecnici della Nasa potranno avvalersi di apparecchiature e strumenti di eccezionale sofisticatezza, potenza e versatilità. A loro disposizione ci saranno l’astronave CEV (Crew Exploration Vehicle), il Modulo Lunare (LM), i razzi Ares V. E proprio questi ultimi – giganti della tecnologia alti 111 metri e larghi dieci – spianeranno la strada all’uomo portando su Marte 400 tonnellate di strumenti e materiali dei quali gli astronauti si serviranno, poco dopo, per costruire nel minor tempo possibile ripari, laboratori, e una piccola centrale atomica per ricavare energia. Gli Ares V serviranno anche per collaudare, intorno all’orbita terrestre, la navicella con la quale gli astronauti si affacceranno sul Pianeta rosso. Il viaggio di andata e ritorno da Marte durerà circa 30 mesi: a bordo della navicella gli astronauti coltiveranno frutta e verdura; acqua e aria non mancheranno grazie a ingegnosi sistemi per il loro riciclo. Ai 6 o 7 mesi per andare e venire dal corpo celeste vanno aggiunti i 16 mesi di permanenza fra le sue polveri e i suoi giganteschi coni vulcanici, il minimo indispensabile per portare a compimento un numero significativo di esperimenti. Ma nonostante il grande entusiasmo trapelato dall’incontro di Houston, sono ancora molti i problemi da risolvere per poter credere che la missione avrà sicuramente successo. “Restano ancora da chiarire molti aspetti tecnici e scientifici – ha ammesso Bret Drake, del Robotic and Human Lunar Expeditions Strategic Roadmap Commitee. “Tecnologicamente non ci sono problemi a raggiungere Marte, lo abbiamo già fatto con Spirit e Opportunity (i due robottini della Nasa giunti su Marte nel 2004) – ci confida Simone Landi, astronomo del Dipartimento di astronomia di Firenze -. Il problema è per l’essere umano che non è tagliato per permanenze così lunghe nello spazio”. A fare paura sono soprattutto i raggi cosmici, particelle e nuclei atomici ad alta energia che, muovendosi quasi alla velocità della luce, colpiscono la Terra da ogni direzione. Secondo Norbert Vana, scienziato dell’Istituto atomico delle università austriache, un viaggio su Marte senza adeguati sistemi di protezione contro le radiazioni cosmiche sarebbe mortale per il 50 percento degli astronauti. “Sebbene ci siano ancora relativamente poche misurazioni sicure – ci spiega - è possibile calcolare che gli esseri umani durante un viaggio del genere sarebbero esposti a un livello di radiazioni da due a quattro Sievert (Sv). Partendo dunque dal presupposto che sei o sette Sievert sono immediatamente mortali, c’è il serio pericolo che la metà dei membri dell’equipaggio muoia durante il tragitto verso il Pianeta rosso”. A questo dato va infine aggiunto quello relativo allo stress psicofisico che dovranno inevitabilmente patire gli uomini selezionati per la missione marziana. La psicologa norvegese dell’università di Bergen Gro Mjeldheim Sandal dice che sarà qualcosa di veramente disumano. Secondo l’autorevole scienziata gli astronauti vivranno all’inizio (le primissime settimane) una sorta di gioia collettiva, ma a lungo andare questo sentimento sbiadirà lasciando spazio alla noia e a momenti di angoscia. Il benessere fisico sarà compromesso dalla mancanza di gravità. Compariranno disagi come la SAS, Sindrome da Adattamento allo Spazio, con nausea, disorientamento e mal di testa. Su Marte – dopo la meraviglia iniziale – potrebbero subentrare crisi di panico, depressione e aggressività. Infine col viaggio di ritorno – gli astronauti saranno stanchi e provati e dunque potrebbero rischiare di perdere la concentrazione e commettere errori che potrebbero compromettere l’intera missione.


(Pubblicato su Rolling Stone)

Quanto s'ingrassa bevendo?

Sottoporsi a diete ferree per perdere peso può essere producente quando si è anche in grado di calibrare attentamente ciò che si beve. In caso contrario infatti - se si eccede nel bere, o comunque ci si concede drink troppo ricchi di calorie - si finisce col vanificare tutti i buoni propositi di combattere i chili di troppo. Esperti dell’università Federico II di Napoli si fanno avanti dicendo che per contrastare l’obesità non serve solo fare attenzione a ciò che si mangia, ma anche a quello che si beve. In sostanza, spiegano i ricercatori, se facciamo di tutto per evitare i dolci e per mangiare di tanto in tanto la pasta, ma poi prendiamo un caffé carico di zucchero la mattina, un succo di frutta il pomeriggio e un limoncello la sera, è come non aver fatto nulla per la propria linea. Il punto è che quasi tutti coloro che si mettono a dieta sono espertissimi di calorie per quanto riguarda il cibo, ma non sanno quasi nulla dei rischi che corrono bevendo questa o quell’altra bevanda: “È indispensabile sapere calibrare con grande attenzione le calorie ingerite con il cibo e con i liquidi – dice Francesca Noli, biologo nutrizionista dell’Ospedale Valduce di Como -. Abbiamo infatti bevande che sono delle vere e proprie bombe caloriche in grado di favorire l’accumulo di chili, anziché la perdita di peso. Se si ha sete, quindi, l’ideale è bere l’acqua, o al limite prodotti privi di zuccheri. In ogni caso è bene eliminare completamente (o quasi) alcolici e superalcolici”. Ipotizzando dunque una scala delle bevande - dalla meno calorica, alla più calorica - abbiamo al primo posto il caffé che bevuto amaro dà appena una paio di calorie. Se però si aggiunge lo zucchero le cose cambiano. Un cucchiaino di zucchero corrisponde infatti a 15-20 calorie in più. A seguire ci sono il succo di pompelmo (66 cal.), il tè freddo (68 cal.), il whisky (70 cal.), il bicchiere di vino bianco (72 cal.), il bicchiere di vino rosso (76 cal.), il bicchiere di spremuta (86 cal.), il liquore da dessert (90 cal.) e il bicchiere di succo di frutta (108 cal.). “I succhi di frutta possono essere importanti per una dieta povera di vegetali – continua Noli -. Tuttavia, anche in questo caso, occorre consumare con moderazione certi prodotti del supermercato. Molti infatti contengono zuccheri in eccesso che rischiano di compromettere il buon esito della dieta. Basta dare un’occhiata all’etichetta per rendersi conto del prodotto che abbiamo tra le mani”. Il massimo contenuto calorico nelle bevande è rappresentato dal latte, da bibite come la Coca cola e alcolici come la birra. Il latte è uno dei pochi alimenti completi ed equilibrati dal punto di vista dei macronutrienti, ed è la principale fonte di calcio della dieta degli occidentali, ma può fornire calorie in sovrappiù. In una tazza di latte intero se ne contano 125. Vere e proprie bombe caloriche sono infine le lattine di Coca cola e quelle di birra, (rispettivamente contenenti 138 e 224 calorie). “Queste bevande sono veramente deleterie per chi sta rispettando una dieta – continua Noli -. Anche i prodotti ‘light’ andrebbero consumati con cautela, poiché è vero che contengono meno calorie, ma abituano il corpo al sapore dolce, che predispone all’ulteriore assunzione di zuccheri”. A questo punto sorge lecita una domanda: a parte l’acqua, cosa può bere una persona che è a dieta? “Bisogna trovare il giusto equilibrio fra cibo e bevande – conclude Noli –. Ogni caso è a sé. Non è da escludere comunque, in una dieta efficace ed equilibrata, l’assunzione moderata di vino durante i pasti”.

Le trappole del supermercato

Quando andiamo al supermercato non possiamo fare a meno di rimanere incantati davanti alla miriade di prodotti presenti sugli scaffali. Spesso quindi compriamo anche cose che non ci servono, spendendo più di quanto avevamo preventivato. In questo modo le nostre tasche si svuotano e quelle dei proprietari del supermercato si riempiono. Un caso? Macchè. È tutto astutamente programmato. Parola di specialisti dell’università di Pavia i quali dicono che quando entriamo in un supermercato non compriamo con la testa, ma con la pancia. Questo significa che qualcosa o qualcuno, nel bene o nel male, ci inganna; ovvero ci mette nelle condizioni di non essere più in grado di discernere correttamente ciò che abbiamo di fronte, le nostre volontà vacillano, e il nostro cervello entra in una specie di stato di trance, di norma ottenuto solo sotto ipnosi. Gli studiosi hanno visto, per esempio, che quando stiamo facendo la spesa le palpebre compiono circa 15 battiti al minuto, la metà di ciò che accade nelle altre attività. Ma come è possibile tutto ciò? Partiamo dal momento in cui mettiamo il primo piede all’interno di un supermercato. Se ci facciamo caso quasi sempre ci troviamo inondati da mille colori e profumi. Sono quelli della frutta e della verdura, a volte anche di bei mazzi di fiori. Ma non è un caso che questi prodotti si trovino proprio in questo punto del centro commerciale. I colori e i profumi emanati dai prodotti vegetali hanno infatti un effetto euforizzante sul nostro sistema nervoso. Ci mettono di buonumore. Ci predispongono quindi a vedere le cose in modo positivo, mettendoci infine nell’ottica di spendere di più, senza farsi troppi problemi. A questo punto abbiamo due chance: quella del carrello o quella del cestino. In molti optano per quest’ultima pensando di comprare meno, perché lo spazio a disposizione per gli acquisti è minore. In realtà è un’illusione. Il cestino infatti porta all’acquisto di prodotti di dimensioni più piccole che, però, nella maggior parte dei casi, sono anche i più costosi. Le offerte ‘paghi tre prendi due’? Altro inganno. In questo modo i geni del marketing inducono infatti il cliente a comprare più di quanto gli serve e a convincersi a consumare di più un certo prodotto. Avanziamo quindi lungo le corsie del supermercato convinti di muoverci liberamente; in realtà stiamo seguendo un percorso che qualcuno ha già stabilito. Ecco perchè prima dei generi di prima necessità, spesso si incontrano snack, giochi e prodotti per bimbi. Il sociologo Usa Clyde Miller non ha dubbi: qui i bambini si fanno avanti e hanno ottime chance di farsi compare qualcosa, circostanza che non avverrebbe a fine spesa quando mamma o papà hanno già speso un capitale. La nostra corsa prosegue e arriviamo ai generi di prima necessità come la pasta e il latte. E qui scatta un altro tranello. Molti prezzi infatti terminano con ‘…, 99’, suggerendoci l’idea di una clamorosa offerta. Sbagliato. In questo modo infatti finiamo, per esempio, col comprare due confezioni da 3,99 euro anziché una da 4 euro, solo perché non siamo consci del fatto che il nostro cervello è tarato per memorizzare efficacemente solo le prime cifre di un certo numero. Dunque siamo quasi alla fine della spesa e ci accorgiamo di non aver trovato sale e zucchero. Possibile? Possibilissimo. Gli esperti del supermercato sistemano infatti i cosiddetti prodotti indispensabili nei posti più imboscati, così da obbligarci a girare ancora in lungo e in largo il supermercato e riempire il carrello di cose che non ci servono. Non è una cosa da poco se si pensa che, in media, ogni minuto in più passato al supermercato frutta alle casse più di un euro. Ora però siamo davvero alla fine, abbiamo le casse davanti agli occhi, ma anche qui scatta l’ennesimo tranello. L’ultimo. Ci sono un mucchio di caramelle e cioccolatini che ci fanno gola, non possiamo resistergli e così li prendiamo senza pensarci. Ecco perché lo psicologo Brian Wansink, direttore dello statunitense Center for Nutrition Policy and Promotion, è convinto che la gente compra il 30 percento in più la merce posta in prossimità delle casse. Il gioco è dunque fatto. Lasciamo il supermercato e le nostre palpebre riprendono a battere regolarmente. C’è solo un piccolo particolare: abbiamo speso circa il doppio di quello che avevamo previsto.