mercoledì 28 maggio 2008

Carote e niente diete. La guida "salva-alito"

Colpisce in media un italiano su due. Può essere persistente o saltuaria e creare disagio nelle relazioni sociali. È l’alitosi. Un problema che non sempre, come si è soliti credere, deriva da un cattivo funzionamento degli organi digestivi (intestino, stomaco e fegato) sebbene ciò possa accadere per via di malattie come per esempio la cirrosi epatica, la gastrite o il diabete. Nella maggior parte dei casi infatti è il risultato della proliferazione batterica all’interno della bocca, fra denti, lingua e gengive. Le stime dicono che ciò si verifica in almeno il 90% dei casi di alito cattivo. Per aggirare il problema, che diventa anche una vera e propria fonte di disagio in caso di un appuntamento galante o di un colloquio di lavoro importante, è utile seguire una dieta particolare. Iniziamo dai cibi da evitare. Secondo Harold Katz, fondatore delle cliniche dell’alito della California, vanno consumati con cautela carni e formaggi. I loro residui fra denti e gengive si trasformano velocemente in sostanze gassose contenenti zolfo, il cui odore è tutt’altro che piacevole. In particolare occorre fare molta attenzione ai formaggi cremosi, che con grande facilità si attaccano al palato e alla lingua. La stessa cosa vale per alimenti come l’aglio, spesso usato per insaporire le pietanze, fra cui le famose bruschette: l’aglio delle bruschette è assorbito nella circolazione sanguigna la quale, raggiungendo i polmoni, fa sì che l’odore dell’ortaggio venga espulso con l’alito. Con le cipolle c’è lo stesso problema. E dunque, in entrambi i casi, l’alito cattivo è la conseguenza dell’alta presenza di composti solforati nei vegetali. Poi ci sono cibi che non sembrerebbero influenzare la qualità dell’alito, come per esempio lo yogurt. In realtà prodotti di questo tipo contengono molte proteine, combustibile ideale per i batteri, che proliferano in eccesso provocando l’alitosi. Poco consigliato anche il caffè che, essendo molto acido, offre il terreno ideale per la moltiplicazione batterica. Da evitare infine il digiuno. Digiunando infatti si facilita la permanenza dei microrganismi nella cavità orale, dovuta alla mancanza della masticazione, che normalmente svolge un ruolo di autodetersione dell’ambiente orale. E l’alcol? Secondo gli specialisti un bicchiere di vino non peggiora la qualità dell’alito. I superalcolici invece sono spesso causa di alito cattivo anche se assunti in modeste quantità. Quali sono allora i rimedi per combattere l’alitosi? Al di là dei cibi “neutri”, che cioè non rendono l’alito cattivo, come ad esempio riso e pasta, quali sono quelli che svolgono un’azione preventiva?Innanzitutto è indispensabile fare una buona colazione, appena svegli. Il primo pasto del giorno stimola immediatamente la produzione di saliva che, in pratica, elimina la “solfatara” orale che si è formata durante la notte; la saliva contiene un’alta percentuale di ossigeno, nemico numero uno dei batteri. Durante il giorno, invece, la dieta ideale per combattere l’alitosi si basa su ortaggi come carote, sedano, cetrioli, zucchine, alimenti con un contenuto idrico elevato, ideale per contrastare l’alito cattivo. Anche la spremuta di agrumi è molto utile.A fianco di una alimentazione di questo tipo è indispensabile inoltre provvedere all’igiene orale tramite la pulizia dei denti con lo spazzolino e il filo interdentale. Che fare, infine, per evitare l’alito pesante quando un’importante riunione o l’appuntamento a due a cui teniamo tanto capitano all’improvviso? In questi casi conviene ricorrere agli stratagemmi d’emergenza: caramelle di consistenza dura al sapore di agrumi, o gomme da masticare ricche di sali di zinco e povere in zucchero. Ottimo anche l’utilizzo di collutori agli oli essenziali.

Donne, dieci anni della vita passati a rincorrere la dieta

In media una donna passa 10 anni della sua vita seguendo una dieta. La ricerca compiuta dall’azienda britannica LIPObind, specializzata in prodotti naturali contro l’obesità, dice che, una donna, fra i 18 e i 70 anni, affronta mediamente 104 diete. Considerando che, una dieta, in media dura 5 settimane, i conti sono presto fatti: la maggior parte delle donne passa una decade della vita calibrando più o meno attentamente ciò che mangia. Ci sono poi casi eccezionali in cui questo dato sale addirittura a 25, venticinque anni spesi a cercare di raggiungere una linea perfetta con insalatine e biscotti integrali. Secondo gli studiosi le donne – a differenza degli uomini - sono sempre alle prese con una dieta perché non sopportano l’idea di non poter indossare certi vestiti, o di doverli per forza indossare mostrando aree anatomiche vistosamente in abbondanza. La pensa così il 39 percento del campione intervistato (4mila donne). Il 41 percento delle donne ha invece l’impressione di essere sempre a dieta; il 44 percento dice di far fatica a perdere peso; il 59 percento è convinto che non raggiungerà mai il peso forma. “Lo studio sembra attendibile tuttavia quando si parla di dieta è necessario valutare con attenzione il tipo di dieta preso in esame – racconta Carla Favaro, nutrizionista dell’università Bicocca di Milano -. Va innanzitutto verificato se una dieta è davvero necessaria. Va poi stabilito se viene seguita in modo corretto. Infine va considerata la possibilità che una persona possa sottoporsi a una dieta prefissandosi obiettivi irraggiungibili, magari rapportandosi a modelle e indossatrici. Solo chiarendo questi aspetti è possibile ottenere dati statistici veramente validi”. In media nel corso di una dieta si perdono circa 3 chilogrammi. Il peso forma in ogni caso può essere difficile da raggiungere se non si ascoltano le raccomandazioni dei nutrizionisti e dei dietologi, considerando anche il fatto che nella vita il peso di una donna è assai altalenante, essendo influenzato da molteplici fattori, fra cui la nascita dei figli. Il 57 percento delle donne italiane fra i 15 e i 65 anni dichiara di vedersi troppo in carne. In media, in Italia il 30 percento delle donne in menopausa è obeso, il 40 percento è in soprappeso. La circonferenza della vita è in media pari a 90 centimetri e la circonferenza fianchi è di 105 centimetri. Negli ultimi cinque anni, indagini svolte in alcuni Paesi industrializzati hanno documentato un’elevata prevalenza di sovrappeso ed obesità nell’infanzia. Tutti dati facilmente rapportabili alle conclusioni degli esperti inglesi.

venerdì 23 maggio 2008

Polsi, codino, piede. I punti nascosti del piacere sessuale

Le cosiddette zone erogene sono aree anatomiche che, opportunamente stimolate, sono in grado di farci provare piacere. Ce ne sono alcune note come capezzoli, glutei, glande, clitoride, e altre meno conosciute, ma altrettanto sensibili alla stimolazione tattile: quando si fa pressione su una di queste aree del corpo, si innescano tutta una serie di processi fisiologici che – mettendo in moto ormoni particolari come l’ossitocina (legata all’orgasmo) e la dopamina (legata all’appetito sessuale) - portano infine al caratteristico benessere psicofisico derivante dall’attività sessuale. Vediamo dunque quali sono le zone erogene meno conosciute seguendo un servizio apparso sulla rivista Woman. Iniziamo dalle caviglie. Secondo gli esperti l’area più sensibile della caviglia è quella compresa fra il malleolo e il tallone. Digitando questo punto anatomico si stimola il flusso sanguigno, alla base del piacere sessuale, e si aiutano inoltre le donne che hanno problemi di ciclo irregolare. Per raggiungere questi risultati bisogna posizionare due dita sulla zona indicata e premere con decisione per 30 secondi. Abbiamo poi il codino, punto erogeno posto appena sotto il coccige, in pratica in corrispondenza dell’ultimo tratto della colonna vertebrale. Qui, per facilitare le sensazioni di piacere, è necessario premere con un dito sull’osso vertebrale, muovendolo lentamente da una parte all’altra della zona sacrale. La pressione del dito amplifica le sensazioni nella regione pelvica, ed è quindi questo il punto ideale da esplorare, accarezzare, sfiorare, durante i preliminari, ma anche in altri contesti, per esempio quando si balla. I polsi rappresentano un’altra insospettata zona erogena. In realtà lo sono i due tendini che lo attraversano, facilmente tastabili a circa 5 centimetri dalla base della mano, lungo l’avambraccio. In questo caso per provare o procurare piacere occorre premere delicatamente con un dito i due tendini, compiendo dei piccoli movimenti circolari, da ripetere 18 volte per ciascun polso. I cinesi agiscono su quest’area con l’agopuntura. Così facendo influenzano la sfera emotiva, diminuendo le inibizioni e provocando eccitazione. I piedi sono noti come zona erogena secondaria, tuttavia non molti sanno come innescare certi meccanismi tali da suscitare piacere. Innanzitutto va detto che i genitali e i piedi sono attraversati dagli stessi nervi e che - secondo la riflessologia plantare (disciplina sorta ufficialmente negli Stati Uniti, nel 1910, per merito del dott. W. H. Fitzgerald) - quest’area del piede è anche collegata alla tiroide, responsabile della libido. Si usa in questo contesto il pollice imitando il cammino di un bruco, piegandolo e distendendolo lungo la sporgenza rotonda della pianta del piede, quella che si trova subito sotto l’alluce. Per ottenere i massimi risultati bisognerebbe compiere dei piccoli movimenti del dito, massaggiando il piede dal basso verso l’alto. Il punto P – che sta per perineo – si trova appena sotto i genitali, nell’uomo 3-4 centimetri dietro i testicoli, nelle donne alla stessa distanza dietro la vagina. In questo punto il consiglio degli specialisti è quello di eseguire una leggera pressione con le dita facendo piccoli movimenti circolari; ma occorre farlo con delicatezza, poiché l’area è molto sensibile, essendo assai ricca di terminazioni nervose. Infine abbiamo il cosiddetto “chakra sacrale”, punto anatomico situato circa 3 centimetri sotto l’ombelico. Appoggiando il palmo di una mano in questo punto e l’altro nel punto anatomico corrispondente sulla schiena – per esempio quando ci si dà un bacio – si ottiene un notevole aumento delle sensazioni legate al piacere sessuale.

mercoledì 21 maggio 2008

C'è un'isola della Grecia dove comandano le donne

Ve lo immaginate un popolo dove a comandare sono solo le donne (le primogenite in particolare, le kanakarà)? Ebbene, sono in pochi a saperlo, ma questo popolo esiste veramente e non si trova nemmeno tanto distante da noi. Stiamo parlando degli abitanti dell’isola greca di Kàrpathos, dove, secondo gli antropologi, vige l’ultimo matriarcato del Mediterraneo e probabilmente dell’intero mondo. Qui le donne, le primogenite, ereditano tutto e decidono tutto. Il marito con il quale convolare a nozze, la casa dove abitare, il destino dei propri figli e dei propri fratelli. Spesso qualche familiare si ribella a queste istituzioni e si rivolge al tribunale, ma con scarso esito. Così vuole la tradizione, così è che si fa. Il cognome del marito ha poco conto. Il nome della primogenita è quello della nonna, e il cognome quello della famiglia da cui deriva. Se in famiglia c’è un primogenito maschio, quest’ultimo eredita le ricchezze dal padre, ma il vero patrimonio va tutto nelle mani della femmina nata per prima. Le kanakarà indossano abiti preziosi ricamati a mano, e portano collane che la leggenda vuole risalgano addirittura al tempo di Alessandro Magno. Le primogenite sono anche dette “donne dalle mani bianche”: provengono tutte da famiglie abbienti e non lavorano. Ma come mai tutto questo potere nelle mani delle donne? Secondo gli antropologi ciò parte dalla necessità di non dividere in tanti appezzamenti la poca terra arabile disponibile. Il discorso è simile a quello dei masi sudtirolesi, anche se, in questo caso, a ereditare le tenute sono solo e sempre i maschi. Le tradizioni degli abitanti di Kàrapathos (l’isola si trova a metà strada tra Creta e Rodi, ha come principali centri Olympos, Piada, Aperi, e conta complessivamente 6 mila isolani) risalgono alla notte dei tempi. Le kanakarà utilizzano idiomi in uso all’epoca di Omero, e sempre all’epoca di Omero risalgono anche certe particolari celebrazioni che si tengono sull’isola di Kàrpathos. Una di queste è per esempio quella del 29 agosto, festa annuale di san Giovanni Battista. Tutti gli abitanti di Olympos, abbigliati con vestiti coloratissimi, si incamminano a piedi per cinque ore lungo un sentiero in discesa che dal paese porta a Vrokounda, una grotta a picco sul mare. Qui c’è la chiesetta dedicata al santo martire, dove vengono sgozzati alcuni capretti. Il motivo di questo sacrificio va probabilmente ricercato nell’Odissea: Ulisse, prima di accedere agli Inferi, il regno dei morti, compie infatti lo stesso rito. In alternativa il riferimento è a certe usanze risalenti a più di 3 mila anni fa e concernenti tradizioni in onore della madre terra e di Bacco, dio greco dell'ebbrezza e della pazzia, del vino, della fertilità e della vegetazione, figlio di Zeus e di Semele. La vita dell’isola di Karpathos si svolge dunque in maniera profondamente radicata nella sua antichissima tradizione: in particolare ciò è vero soprattutto per la parte settentrionale. Per oltre 400 anni gli abitanti del nord e del sud hanno infatti vissuto isolati gli uni dagli altri, sviluppando usi e costumi in maniera indipendente. E c’è chi ipotizza addirittura che essi abbiano differenti origini etniche. Nonostante la notevole crescita del traffico turistico degli ultimi anni, Karpathos e suoi abitanti conservano un carattere ospitale e genuino che talvolta richiede da parte del turista una piccola dose di adattamento e comprensione dell’orgoglio che i locali nutrono per le loro tradizioni.

(Pubblicato su Libero il 31 agosto 06)

E la donna potrà sapere se suo marito la ucciderà

Prima erano solo parole, poi parolacce. Quindi sono cominciati i ceffoni. E adesso? Adesso la paura è quella che mio marito un giorno o l’altro prenda un raptus e mi faccia a pezzettini. Cos’è, uno scherzo? Niente affatto. Certo è comunque che avanti così non si può andare. Tuttavia, niente paura. La scienza ha già provveduto. Ha messo a punto un sistema che è in grado di prevedere il rischio che un marito possa liberarsi della consorte in modo sbrigativo. E definitivo. Insomma uccidendola. Tutto grazie a uno studio canadese che ha portato alla realizzazione del cosiddetto metodo Sara, da “Spousal assault risk assessment” (valutazione del rischio di assalto matrimoniale). Innanzitutto va fatta chiarezza sul termine “raptus”, avvertono gli specialisti. Questo perché troppo spesso inquirenti e media ne fanno un uso improprio. Un uso improprio che porta a credere che dietro a ogni efferato delitto di coppia, ci sia un improvviso corto circuito della mente. In realtà non è affatto così, o meglio non è quasi mai così. Piuttosto, dietro al fantomatico raptus, si nasconde quasi sempre una lunga storia di soprusi, sofferenze e incomprensioni che, di solito, chi diffonde le notizie non si preoccupa minimamente di approfondire. Il sottile e cinico piacere di marcare un crimine senza prima valutarne i reali contorni sembra insito nella specie umana, quasi una sorta di marchingegno per salvaguardare la specie. Tuttavia, quello degli omicidi di coppia, è senza dubbio un tema che scotta e che, anno dopo anno, almeno per ciò che riguarda l’Italia, sembra coinvolgere sempre più persone. Il riferimento è dunque alla violenza dell’uomo che può arrivare a causare - questo il più triste degli epiloghi - addirittura la morte del coniuge. L’uomo quindi, il maschio, il sesso forte, è al centro del problema. Le statistiche infatti parlano chiaro: nell’88,6 percento dei casi quando si verifica un delitto di coppia a rimetterci sono le donne. Il punto è questo. Secondo gli scienziati stiamo assistendo a un fenomeno atipico. È come se la soglia del dolore e della sopportazione della donna, sia - con l’avanzamento della civiltà - progressivamente aumentato, parallelamente all’incremento della crudeltà e della ferocia dell’uomo. Il significato di ciò? Molto semplice. In pratica l’uomo arriva ad ammazzare la propria donna, diciamo, quasi senza accorgersi. Lei, dal canto suo, non fa in tempo a lanciare l’allarme (a capire cioè che oltre un certo limite le botte possono anche ammazzare); e analogamente l’uomo non fa in tempo a rendersi conto che sta veramente esagerando e che il cosiddetto raptus (termine quindi usato impropriamente) è davvero dietro l’angolo. Dunque una soluzione al problema – problema che, solo nel Belpaese, dal 2000 al 2005 ha causato la morte di ben 495 persone – arriva dal Canada. Qui hanno infatti messo a punto un sistema che consente di prevedere e quindi potenzialmente prevenire, nel 60 percento dei casi almeno, un delitto passionale. Il metodo canadese si chiama appunto Sara e andrebbe testato su tutti coloro che, con una certa periodicità, sono soliti avventarsi violentemente sul coniuge. Non si tratta di un test psicometrico, che mira cioè a stabilire un punteggio della persona che si è resa responsabile della violenza. Ma si tratta piuttosto di un test che valuta il rischio di un omicidio o di una violenza in una scala che va da 1 a 10. Basso, medio o elevato, i tre risultati possibili. Sara si riferisce quindi a fattori oggettivi che numerose ricerche hanno visto essere correlati alla violenza domestica (intesa come violenza interpersonale fra due persone che hanno o avevano una relazione). Tra questi abbiamo, per esempio, l’abuso di alcol, l’abuso di droghe, la malattia mentale, i precedenti penali, ecc.

Contrordine, il delfino è un idiota

Il delfino l’animale più intelligente? Da oggi non è più così. Stando infatti alle conclusioni di uno studio condotto da un team di scienziati sudafricano sembrerebbe che il mammifero marino preferito dall’uomo sarebbe addirittura più stupido di un pesce rosso o di un gerbillo (un minuscolo roditore simile al topo). Paul Manger, dell’università Witwatersrand di Johannesburg, ha verificato che il delfino ha sì un grosso cervello ma che questo non può in nessun caso essere messo in rapporto alla sua intelligenza. Il motivo lo si spiega così. Il delfino ha un cervello caratterizzato da due componenti anatomiche (come tutti i mammiferi del resto): i neuroni e le cellule della glia. Ma sono solo i neuroni le cellule che conferiscono l’intelligenza. Le cellule della glia invece servono soprattutto per fare volume: in realtà contribuiscono all’impalcatura del cervello e nutrono i neuroni. Dunque il cervello del delfino è soprattutto costituito da cellule della glia e non da neuroni come creduto fino a oggi. E da qui quindi l’ipotesi che l’intelligenza dei cetacei possa essere nettamente inferiore rispetto a quella di molti altri animali che magari hanno un cervello molto più piccolo, ma assai più ricco di cellule cerebrali. A questo punto la domanda che sorge spontanea è la seguente: quale sarebbe il motivo di un cervello tanto grande se poi l’intelligenza che ne deriva è scarsa? Come pensava Darwin difficilmente l’evoluzione fa le cose a casaccio. E così anche in questo caso l’enigma è facilmente spiegabile. Secondo gli esperti i delfini hanno un cervello più grande della norma (di un pesce per esempio rapportato alle dimensioni di un cetaceo) semplicemente perché, durante l’evoluzione, e l’adattamento al mare (ricordiamo che i delfini e tutti i cetacei derivano da progenitori vissuti sulla terraferma 50 milioni di anni fa), dovettero escogitare uno stratagemma per mantenere al caldo il cervello: la bassa temperatura di mari e oceani avrebbe altrimenti mandato in tilt il cervello dei primi delfini. Pertanto l’unica soluzione per i cetacei fu quella di far arrivare al cervello più sangue possibile che, tra le tante sue funzioni, ha anche quella di riscaldare le zone del corpo che irrora. In alternativa, si comprende, un cervello piccolo non avrebbe richiamato abbastanza sangue al cervello e per i cetacei sarebbe stata la fine. Ultimo dubbio. Ma se le cose stanno davvero così come si comprende l’eccezionale disinvoltura con cui i delfini si destreggiano in acqua tra un esercizio e l’altro? Tutta fuffa, dicono gli esperti. Qui infatti si ha che fare con i cosiddetti “stimoli condizionati”, meccanismi psichici che in nessun caso possono essere messi in relazione alle capacità intellettive.

Ecco gli animali più intelligenti e alcuni aneddoti sul loro conto:

I pappagalli sono in grado di identificare 40 oggetti e sette colori.
I gorilla possono apprendere il linguaggio dei segni: un esemplare, negli anni Settanta, ne ha imparati più di mille.
Le api danzano per indicare alle compagne una fonte di cibo.
Agli inizi del secolo il matematico Von Osten afferma di aver insegnato al suo cavallo a contare.
I cani associano il suono del campanello al cibo.
Delfini e oranghi si riconoscono negli specchi. In uno zoo di Toronto l’orango Chantek ha recentemente utilizzato lo specchio per lavarsi i denti.
I topi assaggiano circospetti il cibo prima di mangiarlo: così evitano di morire avvelenati.
I corvi sanno distinguere un legnetto dritto da uno uncinato.
I gatti prevedono i terremoti.
Tutti gli animali conoscono il dolore psichico e vegliano per giorni i loro compagni morti.


(Pubblicato su Libero il 23 agosto 06)

I sei superpoteri degli animali

Certo che all’uomo farebbero molto comodo. Ma nessuno può farci niente se la natura ha deciso di fornirli solo a determinate specie viventi, Homo sapiens escluso. Il riferimento è ai superpoteri degli animali. Per esempio la capacità di accoppiarsi senza essere fecondati: all’uomo occorre la pillola anticoncezionale. Di ricostruire un arto andato perduto: all’uomo non resta che affidarsi a una protesi. Di dormire quando e quanto si vuole in base alle necessità: all’uomo sono indispensabili un tot di ore di sonno altrimenti va in tilt. Ma vediamoli uno a uno questi superpoteri in dote agli animali. Il wallaby è un piccolo marsupiale australiano affine ai canguri. La specie durante i periodi di “magra” in cui scarseggia il cibo o fa troppo freddo ha evoluto la capacità di evitare lo stato interessante (bloccando l’ovulazione): in questo modo si sottrae all’eventualità di mettere al mondo dei cuccioli che altrimenti non avrebbero scampo. Il tordo di Swainson è un animale molto raro che compie lunghe migrazioni. Di solito è un dormiglione, visto che riposa anche 11 – 12 ore al giorno. Ma quando migra, o quando ha genericamente delle altre mansioni da svolgere, riposa per appena un paio d’ore: e può andare avanti così anche per mesi. La salamandra, come anche le lucertole del resto, ha la capacità di perdere la coda quando subisce l’assalto di un predatore. Così facendo evita il rischio di soccombere. Ma il fatto più sorprendente è che in seguito è in grado di far ricrescere l’arto perduto. Come? Le cellule adulte dell’organismo possono regredire a livello di staminali embrionali e così riescono a rigenerare completamente una coda o una zampa. La foca di Weddell gode della possibilità di rimanere sott’acqua (in apnea) per almeno mezz’ora. Le sue cellule muscolari sono dotate di notevoli quantità di mioglobina, che immagazzina ossigeno e lo rende disponibile al momento necessario. Questo spiega anche il motivo per cui le foche di Weddell sono gli animali che si immergono alle profondità più assolute: fino a 600 metri. Il cane ha dalla sua il proverbiale fiuto mediante il quale è in grado di risalire a chi è appena passato da una certa strada. È noto che del migliore amico dell’uomo ci si serve per stanare gli spacciatori. E ultimamente addirittura per diagnosticare i tumori. Ultimo della lista, il pesce rosso. Apparentemente privo di superpoteri in realtà ha la capacità di vedere dove gli altri non possono vedere. Esso si serve dei raggi ultravioletti ed evita di andare incontro a potenziali predatori. Infine tra i microrganismi si annoverano i batteri, alcuni dei quali dotati di caratteristiche davvero eccezionali. Ci sono per esempio gli appartenenti al genere Deinococcus radiodurans, che sono pressoché immuni dalle radiazioni. Il fatto è che hanno evoluto la capacità di autoripararsi il Dna in caso di mutazioni. Sopravvivono anche a dosi radioattive migliaia di volte superiori a quelle sopportabili da un uomo.

martedì 20 maggio 2008

Gli Usa si fanno l'ecografia per scovare mari di petrolio

Scienziati del Mit di Boston stanno pensando di utilizzare gli ultrasuoni per scrutare le profondità della Terra e individuare nuovi giacimenti di gas e petrolio. Sorprende il particolare dell’utilizzo degli ultrasuoni che vengono essenzialmente impiegati in campo medico, soprattutto per seguire l’andamento di una gravidanza: è la classica ecografia. Secondo gli studiosi americani in tutto il mondo esistono delle aree geologiche dette “sweet spot” all’interno delle quali risiedono ingenti quantità di gas e petrolio. Individuarle tramite “ecografia” significherebbe renderle utilizzabili in misura tale da contribuire sostanzialmente al fabbisogno energetico degli Stati Uniti. “Un’innovazione potenzialmente in grado di rivoluzionare il panorama energetico del paese – ha detto Daniel R. Burns, scienziato del Department of Earth, Atmospheric and Planetary Sciences del Mit. Da tempo ci si chiede quanti anni ancora abbiamo davanti prima che il combustibile fossile esaurisca completamente. C’è chi sostiene che questa data corrispondi al 2070. Tuttavia quasi nessuno sa che all’interno degli “sweet spot”, solo negli Usa, possono nascondersi qualcosa come 8miliardi di metri cubi di gas. Intenzione degli studiosi del MIT (Massachusetts Institute of Technology) di Boston è dunque quella di passare al setaccio tutti gli Usa per capire dove si trovano i principali “sweet spot”, e poi cominciare a scavare. Finora sono stati compiuti solo dei test nello stato del Wyoming. Test che hanno avuto esito positivo. Che fare quindi quando si individua un nuovo “sweet spot”? Secondo gli scienziati, una volta localizzato un giacimento di gas o petrolio - all’interno di queste strutture geologiche particolari - si potrà far affidamento sulla cosiddetta tecnica della “fratturazione idraulica”. Si tratta di una tecnica ben collaudata in ambito industriale ma che non è mai stata applicata all’estrazione del petrolio e del gas. La “fatturazione idraulica” consiste nello spingere l’acqua nei letti di roccia attraverso dei pozzi profondi per creare delle fratture che fungano da vie tramite le quali gas e petrolio possano raggiungere la superficie. Alcuni enti, come l’EnCana di Alberta, sono in particolare predisposti per seguire l’evoluzione di tali fratture con dei sofisticati sistemi tridimensionali di monitoraggio sismico. La nuova tecnologia per mappare la Terra è stata battezzata “profilo sismico verticale a intervallo temporale” o Vsp. “La mole di dati da considerare è enorme, ma come concetto è assai simile a una visita a una donna in gravidanza – hanno concluso i ricercatori.

Mai dormire a pancia in giù

Mal di testa, mal di denti, fischi alle orecchie, nevralgie, vertigini, piorrea, difficoltà a stare in equilibrio: sono tutti malanni che possono essere semplicemente dovuti a una posizione sbagliata assunta mentre si dorme. È quanto si evince dagli studi compiuti da Gino Salvatore Galiffa, specialista in Odontostomatologia, Otorinolaringoiatria e in Patologia cervico-facciale, per molti anni responsabile della Sezione di Odontostomatologia dell’ospedale “Mazzini” di Teramo. Secondo lo scienziato simili disturbi insorgono quando si dorme a pancia in giù: in posizione prona infatti il corpo pesa sulla mandibola e a lungo andare la traumatizza. Nello specifico si verifica a livello mandibolare una compressione duratura che va a ostacolare la circolazione sanguigna, incidendo poi negativamente sulla salute dei denti e delle gengive, delle articolazioni della mascella e dei muscoli masticatori, dei nervi cervicali e del trigemino. Da un punto di vista prettamente scientifico si parla di “alterazione dell’armonia anatomica e funzionale delle tre componenti dell’apparato stomatognatico: neuromuscolare, articolazione temporomandibolare, dentoparodontale”. Ci sono stati anche casi di persone che in seguito alla cattiva postura durante il sonno sono arrivate addirittura a non riuscire più a mangiare normalmente: il riferimento è a un ragazzo, seguito da Galiffa, che oltre a dormire a pancia in giù teneva anche le mani sotto la mandibola. Così facendo è arrivato al punto di nutrirsi esclusivamente con una cannuccia. Si tratta di un caso limite, tuttavia è proprio da qui che gli scienziati sono partiti per riuscire a dare una spiegazione anche ad altri tipi di disturbi, tutti dovuti alla cattiva postura durante il sonno: cefalea, vertigini, nevralgie, tensione dei muscoli della faccia, morsi accentrali e dolorosi di lingua e labbra, dolori al collo, orecchio, schiena e gambe, sensazione di instabilità, ronzii, ansia e nevrosi. Il problema è che chi è abituato a dormire in un certo modo continua a farlo e con il passare degli anni finisce per accusare malanni che poi vengono curati con farmaci di cui si potrebbe fare tranquillamente a meno. Dunque qual è la miglior posizione per dormine e stare in buona salute? “Quella supina - spiega Galiffa - perché così il peso del corpo si concentra sul dorso, dove non si verificano stasi della circolazione sanguigna, o deficit nell’ossigenazione dei tessuti”. Ma è vero che dormire a pancia in giù può provocare anche la piorrea? “È vero sì - afferma l’otorinolaringoiatra. La piorrea è un male di cui soffrono molti italiani. Eppure quasi nessuno sa che è proprio la cattiva posizione assunta mentre si è coricati a favorire l’insorgere del male, e quindi a predisporre l’organismo alla perdita dei denti. Si parte dal fatto che tutti noi deglutiamo una volta ogni 3-4 minuti, sia di giorno che di notte: sono almeno 500 volte in 24 ore. È un meccanismo incondizionato molto importante per il nostro benessere: in questo modo la bocca si tiene in allenamento e le gengive si tonificano grazie a una migliore irrorazione sanguigna. Tuttavia questo meccanismo può essere interrotto e scompensato proprio dal dormire a pancia in giù: la mandibola infatti si contrae e impedisce al sangue di ossigenare bene le gengive. Da qui alla piorrea infine il passo è breve: laddove l’ossigeno scarseggia i batteri responsabili della patologia trovano il terreno ideale per accrescersi e indebolire ulteriormente le arcate dentarie.

(Pubblicato su Libero il 22 settembre 06)

Ma quale Big Bang. Siamo figli della gravità e molto più vecchi

L’universo? È molto più vecchio di quanto supposto finora. Secondo Neil Turok, fisico dell’università di Cambridge, nel Regno Unito, avrebbe addirittura 986 miliardi di anni, mentre si è soliti considerarlo non più vecchio di 13,6 miliardi di anni. Ma come è stato possibile arrivare a ciò? Turok dice che l’energia oscura – argomento tabù anche per gli astronomi che ancora non hanno capito da dove arrivi – ha una forza troppo piccola per essere stata prodotta da un solo Big-Bang. E dunque la sua esistenza è spiegabile solo supponendo una lunga sequenza di esplosioni e implosioni di materia e di universi che si sono susseguiti l’uno all’altro. Da ciò la nuova teoria denominata del “quantum bounce”, ovvero del “rimbalzo quantico”. Prendendo a prestito dalla fisica delle particelle la teoria delle stringhe, quella che spiega alcune stranezze del mondo microscopico attraverso modelli matematici a ben dieci dimensioni, lo studioso ha stabilito che prima del nostro universo ce n’era un altro che anziché espandersi, si contraeva. Dallo studio divulgato su Physical Review Letters si evince pertanto che l’universo prima del nostro era un universo sottoposto a forze gravitazionali eccezionali. Con esse tutta la materia precipitò su se stessa fino al punto in cui presero il sopravvento le cosiddette “proprietà quantistiche”. Da qui infine avrebbe avuto origine il Big-Bang che tutti conosciamo. In realtà l’idea di un universo prima del nostro era già stata accarezzata in passato, tuttavia è questa la prima volta che viene descritto il tutto in termini matematici definendo anche precise condizioni spazio-temporali e stabilendo quindi che l’universo in generale ha 986 miliardi di anni. Dunque la maggior parte dei cosmologi sta ora valutando l’ipotesi dello scienziato di Cambridge e i pareri emergenti sono contradditori: “La comunità scientifica è molto scettica – dice David Lyth, cosmologo dell’università di Lancaster, nel Regno Unito. Altri sono più caustici: “È un’idea assurda che può piacere solo ai giornalisti - sostiene Andrei Linde, dell’università di Stanford, in California. Ma controbatte Turok, con il cosmologo Paul Steinhardt dell’università di Princeton in New Jersey: “C’era da aspettarsele simili reazioni. In fin dei conti stiamo andando contro delle convinzioni molto radicate”.

Molti astronomi ritengono che l’universo abbia avuto inizio con il cosiddetto Big-Bang circa 14 miliardi di anni fa. In una frazione di secondo, l’universo crebbe, da dimensioni inferiori a quelle di un singolo atomo, fino a superare quelle di un’intera galassia e continuò a crescere ad un ritmo incredibile. Il primo a parlarne fu nel 1927 il belga Georges Lemaître.

La salute si vede dalle unghie

I tibetani e i cinesi si avvalgono di questo metodo da sempre. In Occidente, invece, è assolutamente sconosciuto. Eppure, anche secondo i massimi specialisti occidentali, si rivela molto utile per conoscere a fondo il nostro stato di salute. Stiamo parlando di un metodo diagnostico improntato sul colore e sulla forma delle unghie, spesso spia di malesseri o malattie nascoste. Secondo la medicina tradizionale cinese le unghie andrebbero tenute costantemente sotto controllo: un loro improvviso mutare di forma o un graduale ma continuo ispessimento, possono infatti segnalare, per esempio, un’alterazione a livello epatico. Mentre le lunette bianche, normalmente presenti nel pollice e in misura decrescente nell’indice e nel medio, fino a scomparire quasi nell’anulare e nel mignolo, rappresentano un indice della vitalità e dello stato di energia generale della persona e sono legate al sistema cardiovascolare. La radice e la parte inferiore dell’unghia sono invece strettamente collegate alla circolazione sanguigna e nervosa: macchie, striature, scanalature e altri segni indicano che qualcosa non va. Le macchie bianche di solito mettono in evidenza la presenza di acidi urici nell’organismo. E le strisce longitudinali suggeriscono che l’intentino non compie il proprio dovere. Da tenere d’occhio anche la morfologia delle unghie. Gli esperti sostengono infatti che l’unghia sana deve rispondere a requisiti precisi: essa deve essere leggermente incurvata, liscia, di colore roseo, moderatamente elastica e presentare una lunetta di dimensioni normali. In particolare Marcello Monti, dermatologo dell’Istituto Humanitas di Rozzano, afferma sul sito stesso dell’istituto, che “se solo un’unghia o due presentano un’anomalia, è probabile che il problema sia esterno, mentre se sono tutte le unghie a cambiare è ragionevole sospettare una malattia interna all’organismo”. Ecco dunque alcune regole per interpretare correttamente lo stato di salute delle nostre unghie e quindi del nostro organismo. Unghie fragili: c’è un problema legato all’alimentazione, probabilmente povera in vitamine e sali minerali. Unghie gialle: è la spia che qualcosa non va a livello respiratorio: in agguato bronchiti e sinusiti. Unghie viola: il cuore potrebbe far fatica a compiere il suo lavoro. Unghie bicolori: bianco/brune si tratta di un fungo, se bianche con una striscia rosa in fondo, può trattarsi di cirrosi epatica. Unghie a macchie: le macchie di colore bianco di solito indicano la presenza di bolle d’aria dovute a microtraumi, ma potrebbero svelare anche psoriasi o dermatiti allergiche. Le macchie scure, invece, potrebbero rappresentare piccole emorragie da trauma, destante quindi a scomparire in breve tempo: se ciò non avviene potrebbero essere un neo, ma anche un melanoma. Ed è quindi opportuno sottoporsi a una visita dermatologica. Unghie a righe verticali: probabile eczema. Unghie scavate: più solchi orizzontali o uno centrale suggeriscono una mancanza di ferro. Piccole depressioni “a ditale” sono il segno di psoriasi, o allergie da contatto. Unghie convesse, bombate come un vetrino di orologio: attenzione a bronchi e polmoni, fegato e intestino. Unghie spesse: ad artiglio, sono tipiche della senilità. “A grotta” rivelano problemi di tiroide o psoriasi. Unghie che si staccano: può voler dire che il sangue non arriva alle dita o si sta abusando di farmaci. Da non dimenticare però che i problemi di unghie possono derivare anche da manicure troppo aggressive o dall’applicazione di smalti di scarsa qualità. In questi casi l’autodiagnosi non è attendibile.

lunedì 19 maggio 2008

Macché pazzo, Kandinskij aveva ragione. La pittura si può ascoltare come la musica

Vasil Vasilij Kandinskij, ideatore della pittura astratta, ne era convinto: i colori, i quadri, la pittura si possono ascoltare così come la musica, le note, il lavoro di un’orchestra si possono materialmente vedere. Un pazzo? A detto di alcuni sicuramente sì, eppure oggi sappiamo che le sue teorie corrispondevano a realtà. La conferma arriva da scienziati inglesi della University College di Londra i quali hanno concluso che la sinestesia, ovvero la capacità di usare un senso per percepirne un altro, è comune a tutti, solo che sono in pochi a rendersene conto. Come sono arrivati a ciò? Gli studiosi hanno reclutato 6 pazienti sinesteti e altri 6 normali. Ad ognuno di essi è stata fatta ascoltare della musica. Poi gli è stato domandato di disegnare ciò che vedevano: in pratica di tradurre in forme e colori ciò che la musica suscitava in loro. In seguito i ricercatori hanno mostrato i disegni delle 12 persone a 200 individui estranei all’esperimento (e non sinesteti), contemporaneamente facendogli ascoltare la stessa musica che avevano udito anche i partecipanti al test. Alle 200 persone gli specialisti hanno infine chiesto di indicare i disegni che, secondo il loro parere, erano più consoni alla musica diffusa. Risultato. Quasi tutti gli individui coinvolti hanno indicato i disegni dei 6 sinesteti come quelli più “inerenti” alla melodia, e alle note della opera musicale udita. Questo cosa significa? Secondo gli scienziati questa è la prova che anche le persone cosiddette “normali” in realtà sono in grado di vedere la musica e ascoltare la pittura. E dunque con opportuni esercizi è presumibile supporre che tutti possiamo diventare autentici sinesteti. Ma cos’è che succede nel cervello di una persona che consciamente o inconsciamente riesce a “miscelare” tra loro i sensi? I ricercatori rispondono a questa domanda dicendo che occhi e orecchie, gli organi deputati alla percezione della vista e dell’udito, sono tanto lontani tra loro, quanto vicini tra loro sono i neuroni che veicolano al cervello l’attività della retina e quella della coclea. Dunque alla luce di ciò appare chiaro che, una volta giunti a destinazione, gli input sensoriali con grande facilità possono risultare interscambiabili tra loro a livello cerebrale, determinando il tipico fenomeno detto appunto sinestesia. Aleksej Javlenskij, anche lui pittore e amico di Kandinskij, in particolare diceva: “Io volevo dipingere nuovamente i miei quadri incisivi e dai forti colori, ma avvertivo che non era possibile... dovevo cercare un nuovo linguaggio, un linguaggio più spirituale... Io sentivo dentro di me, nel mio petto, un organo, e dovevo tradurlo in colori. Questa era la chiave di tutto, portare quest’organo alla luce e tradurlo in suoni”. Adesso sappiamo che aveva ragione.

Adolescenti egoisti e odiosi? Però guariscono con l'età

Perché un adolescente è solo capace di chiedere e quasi mai di dare? In sostanza: perché l’egoismo è una prerogativa dei più giovani, mentre invecchiando si tende a diventare meno egoisti? Ce lo spiega un team di ricercatori anglosassoni. Gli studiosi hanno analizzato tramite risonanza magnetica l’attività cerebrale di 19 adolescenti e di 11 adulti. Dai test è emerso che nei più giovani, l’area predisposta all’empatia, e quindi alla comprensione dei bisogni altrui, è meno sviluppata rispetto ai più anziani. Questa area è detta corteccia prefrontale: essa occupa la parte rostrale del lobo frontale di ciascun emisfero. Al contrario nei più giovani risulterebbe nettamente più attiva un’altra area, quella legata alle operazioni più semplici, dirette e istintive, e per questo difficilmente atte a prendere in considerazione un desiderio altrui. Stiamo parlando in questo caso del solco temporale superiore, area del cervello ubicata nel lobo temporale di entrambi gli emisferi. Da qui quindi gli studiosi hanno concluso che l’egoismo adolescenziale è una questione essenzialmente biologica e non di certo caratteriale. Non c’è pertanto da stupirsi se il nostro ragazzo in casa non fa niente, mentre al contrario è solo capace di pretendere: la paghetta settimanale, l’ultimo modello di cellulare, eccetera. Da un punto di vista prettamente psicologico l’egoismo, si sa, corrisponde alla necessità di rispettare un principio naturale: pensare a se stessi. Ma tante volte questo atteggiamento può diventare negativo. Dunque clinicamente si distinguono l’egoismo positivo, quello negativo e l’egocentrismo. L’egoismo positivo prevede il pensare a se stessi senza danneggiare gli altri. L’egoismo negativo si basa sulla strumentalizzazione consapevole di chi ci sta intorno, con “sfruttamento” altrui sapendo d’essere in torto. L’egocentrismo invece deriva dalla strumentalizzazione inconsapevole del mondo esterno, credendo di essere nel giusto: l’egocentrico, di fatto, è anagraficamente un adulto, ma il suo livello di maturazione è pari a quello di un bambino.

Anche per i cani "paese che vai, dialetto che trovi"

Ricercatori britannici hanno scoperto che anche i cani, per comunicare tra di loro, utilizzano un abbaio con inflessioni fonetiche peculiari, riconducibili quindi a precise aree geografiche. In pratica – spiegano gli studiosi – un cane che abita a Londra abbaia in un modo, uno che abita a Edimburgo in un altro. Paese che vai dialetto che trovi. Tale e quale avviene negli uomini! Ma come è possibile tutto ciò? Secondo gli scienziati un cucciolo di cane impara ad abbaiare lasciandosi influenzare dagli accenti del suo padrone, quindi dal suo dialetto, esattamente ciò che accade anche nei bimbi, quando imparano a parlare. È infatti ben noto, per esempio, che un piccolo nato in provincia di Vercelli pronuncia parole con una cadenza diversa da un bambino che sta imparando a esprimersi in provincia di Taranto. Dunque – puntualizzano gli esperti – per i cani è esattamente la stessa cosa. Ma mentre nell’uomo è molto semplice verificare le possibili differenti inclinazioni lessicali, negli animali, e in particolare nei cani, è cosa assai difficile, che può essere letta correttamente solo da scienziati superesperti. “Quando impariamo a parlare – commenta Jeanine Treffers-Daller, docente dell’università del West England a Bristol, adottiamo la tipologia di lingua regionale parlata dai nostri genitori. Esattamente la stessa cosa può accadere anche per gli animali”. Per arrivare a questo sorprendente risultato gli studiosi inglesi hanno coinvolto un certo numero di padroni di cani. Ad essi è stato chiesto di contattare un numero telefonico, predisposto dai ricercatori, e di lasciare registrato sulla segreteria telefonica la propria voce e quella del rispettivo cane. Così si è giunti a scoprire che un cane londinese “parla” in mondo completamente diverso da uno che abita a Milano, e in modo leggermente diverso da uno che vive in un’altra città del Regno Unito. “In particolare sembra che i cani abbiano la propensione ad imitare gli accenti più forti e marcati, piuttosto che quelli più morbidi – ha concluso Tracey Gudgeon, del Centro per il comportamento canino della Cumbria.

venerdì 16 maggio 2008

Il mare diventa un arcipelago di plastica

Ogni anno l’uomo produce 10milioni di tonnellate di plastica. E il 10 percento finisce nei mari e negli oceani del mondo. I rifiuti provengono in gran parte da navi e imbarcazioni che se ne disfano senza troppi scrupoli, ma anche da fabbriche e città i cui scarti raggiungono il mare attraverso i fiumi. La situazione è grave e diventa ogni giorno sempre più preoccupante. Ne scrivono gli scienziati statunitensi sulla rivista Marine pollution bulletin, i quali hanno concluso che in molte aree oceaniche si stanno formando addirittura delle vere e proprie isole di plastica: l’andamento a spirale delle correnti marine spinge infatti i rifiuti tutti in una sola direzione, cosicché, facilmente, si vengono a creare i presupposti per lo sviluppo di aree fortemente dense di immondizia. Ci sono punti dell’oceano Pacifico dove la densità della plastica ha perfino superato quella del plancton e in queste zone dell’oceano si stima che esistano ben sei chilogrammi di plastica contro un solo chilo di organismi planctonici. Una situazione paradossale che preoccupa soprattutto Usa e Giappone, i due paesi maggiormente colpiti dal fenomeno. Sotto osservazione è in particolare la cosiddetta corrente circolare del Pacifico, che nasce dallo scontro tra masse d’acqua calda provenienti da sud e masse d’acqua fredda in arrivo da nord. Questa ha un andamento ben preciso: dalle coste della California scende verso sud, poi curva a sinistra e corre fino a lambire le coste del Giappone. È durante questo tragitto che prende il nome di corrente nordequatoriale. In seguito, dal Giappone, la corrente, che adesso viene denominata corrente di Kuroshio, vira verso destra e punta dritto verso gli Usa. Il risultato di ciò? I due garbage patch (letteralmente chiazze di immondizia) più grandi del mondo: quello al largo del Giappone stracolmo di prodotti made in Usa, quello al largo della California zeppo di bottiglie e bottigliette, accendini e bamboline made in Japan. Il fenomeno dei garbage patch non riguarda però solo l’oceano Pacifico. Secondo gli studiosi ci sono anche isole di immondizia nell’Atlantico: il riferimento è per esempio al Mar dei Sargassi, dove più di una ricerca ha evidenziato un’alta concentrazione di particelle di plastica nell’acqua. E il Mediterraneo? Il Mediterraneo è un caso a sé, spiegano i ricercatori. Da noi le correnti marine sono fortemente instabili. E dunque è anche molto più difficile che i rifiuti finiscano tutti accumulati in punti specifici della superficie marina. Considerato marginale il progetto di utilizzare la plastica per studiare le correnti marine, gli studiosi lanciano l’allarme: avanti così e mari e oceani rischiano di finire soffocati dai rifiuti. Un fazzoletto di carta impiega 4 settimane a biodegradare. Una rivista di carta patinata 8 - 10 mesi. Un mozzicone di sigaretta 1 anno. Un chewing-gum 5 anni. Una lattina di Coca-cola 10 anni. Una bottiglia di plastica quasi 100 anni. Un sacchetto di plastica 500 anni. Un tessuto sintetico 500 anni. Una carta telefonica 1000 anni. I primi dati relativi alla relazione ecosistemica tra garbage patch e animali marini sono disastrosi: si parla di un milione di uccelli morti ogni anno, di 100mila mammiferi che soccombono per colpa del materiale ricavato dal petrolio. Uccelli che vengono ritrovati morti con lo stomaco ingolfato da tappi di bottiglia. Delfini impregnati di Pcb (policlorobifenili), sostanze che abbassano le difese immunitarie degli animali rendendoli più vulnerabili alle malattie. Ultimo problema: quello relativo alla plastica che funge anche da vettore per il trasporto di organismi da una parte all’altra del mondo. Questo significa che spesso specie animali vengono a contatto con altre – con le quali normalmente non avrebbero a che fare - provocando squilibri nella catena alimentare e negli habitat. Soluzioni? Purtroppo per il momento non ce ne sono. Gli scienziati sostengono che è questa la prima volta che viene sollevato il problema dei rifiuti nel mare, e pertanto solo da ora si cercherà di correre concretamente ai ripari. Primo obiettivo: evidentemente quello di creare prodotti plastici di nuova generazione il più possibile biodegradabili.

Cinque regole per diventare leader

Vuoi avere successo nella vita? Allora prova a seguire i consigli di Howard Gardner, docente di Cognitivismo e Pedagogia presso la facoltà di Scienze dell’Educazione all’università di Harvard. Secondo lo studioso americano il successo nel mondo del lavoro e nella società in generale, è garantito solo se si “coltivano” determinati atteggiamenti mentali. In particolare lo scienziato propone la teoria delle “five minds for the future”. Il riferimento è alle “menti” più utili nel prossimo futuro, quelle cioè che meglio delle altre si adatteranno all’ambiente e contribuiranno perciò a un miglioramento significativo delle aspettative sociali. Gardner – all’attivo una decina di libri tradotti in tutto il mondo – è partito da una sua teoria precedente: quella delle “intelligenze multiple”, formulata nel 1983. Secondo questa teoria non esiste un’unica intelligenza, misurabile con strumenti psicometrici – il classico QI - ma otto competenze intellettive autonome. Tra queste lo studioso adesso ne ha selezionate cinque: la mente disciplinata, sintetica, creativa, rispettosa, etica. Le prime tre riguardano la sfera cognitiva, le ultime due quella personale. La mente disciplinata è quella in grado di immedesimarsi nel pensiero altrui. Quella cioè che permette per esempio a un irrazionale di sforzarsi di vedere le cose da un punto di vista razionale. La mente sintetica riguarda una mente che è capace di selezionare la miriadi di informazioni che ogni giorno provengono dall’ambiente: chi non coltiva questa qualità intellettuale rischia pertanto di essere fagocitato da input che gli fanno perdere tempo ed energia. La mente creativa si forma soprattutto nelle scuole. È qui che gli insegnanti devono essere in grado di spingere i più giovani a sfidare il mondo esterno con più fantasia, ma senza strafare. Quegli stessi insegnanti che, peraltro, dovrebbero contemporaneamente cominciare a dare meno peso alle intelligenze tradizionali, quella matematica e linguistica: così facendo infatti rischiano di emarginare ragazzi dotati, le cui qualità intrapersonali non vengono dovutamente considerate. Nell’ambito della sfera personale rientrano la mente rispettosa e quella etica. La prima è relativa al fatto che ci avviamo a una società multirazziale, globalizzata: mode e costumi si mischiano tra loro, e dunque sarà necessario sapersi adattare a tutto e a tutti per andare bene con il prossimo e con noi stessi. La mente etica infine è quella che spinge l’uomo ad agire non solo per il proprio bene, ma anche per il bene della società, della città, del paese in cui si vive. Per arrivare a queste considerazioni Gardner ha a lungo studiato il profilo caratteriale di personaggi celebri del presente e del passato. Figure dotate di carisma che direttamente o indirettamente hanno influenzato il mondo contemporaneo. Tra questi ci sono per esempio l’ex primo ministro inglese Margaret Thatcher, e il grande fisico Albert Einstein: la prima ha esercitato un’influenza diretta con i suoi discorsi, Albert Einstein è invece stato un leader indiretto perché la sua influenza si è manifestata attraverso le sue teorie. L’esperto ha inoltre concentrato i suoi studi sull’intelligenza dei bambini e su adulti colpiti da ictus. Dall’insieme delle sue ricerche ha quindi concluso che “gli esseri umani non sono dotati di un determinato grado di intelligenza generale, che si esprime in certe forme piuttosto che in altre, quanto piuttosto di un numero variabile di facoltà relativamente indipendenti tra loro”. Infine Gardner afferma che tutti possiamo sviluppare le nostre diverse intelligenze se siamo messi nelle condizioni appropriate di incoraggiamento, arricchimento e istruzione.

Per contenere gli uragani urge deviare il Mississippi

Nel 2005 l’uragano Katrina si abbatté sul sud-est degli Stati Uniti provocando la morte di qualche migliaio di persone. Ci furono danni per 100 miliardi di dollari. 1 milione di persone rimasero senza casa. 5 milioni furono private della corrente elettrica. New Orleans venne rasa al suolo per il 90 percento del suo territorio. Stime recenti dicono pertanto che l’uragano Katrina rappresenta la tempesta più devastante e costosa che abbia mai flagellato gli Stati Uniti dal 1900, anno dell’uragano Galverston che uccise tra le 8mila e le 12mila persone. Dunque cosa fare perché ciò non si ripeta più? È molto semplice: basta deviare il corso del Mississippi. È la risposta che hanno dato degli studiosi, provenienti da tutto il mondo, recentemente riunitisi a New Orleans per un convegno sulla salvaguardia delle coste del Golfo del Messico. Così facendo, sostengono gli scienziati, è possibile creare i presupposti per un rinforzamento naturale dei litorali, tale da impedire a fenomeni estremi come gli uragani di sconvolgere l’entroterra e le città in esso ubicate. Il Golfo del Messico è uno dei golfi più grandi del mondo, comprendente undici litorali tra cui quello della Florida, dell’Alabama, del Mississippi, del Texas e della Louisiana. Secondo gli esperti tutta questa zona è fortemente soggetta a erosione: questo significa che quando si abbatte sulle coste del Golfo del Messico un uragano, non trovando nessun impedimento naturale, finisce per distruggere facilmente tutto ciò che trova sul suo cammino. Dunque se si trovasse un modo di ripristinare il tratto di costa progressivamente cancellato dall’azione del mare, degli uragani, e di altri fenomeni legati all’azione delle acque, si potrebbe seriamente pensare di marginare il pericolo proveniente da tempeste come Katrina. Gli studiosi sono quindi giunti a pensare che uno di questi modi potrebbe essere proprio quello concernente l’incredibile ipotesi di modificare la foce del fiume Mississippi, il secondo fiume più lungo del mondo. “Una radicale diversione del corso meridionale del fiume è qualcosa che deve essere fatto - ha ammesso al New York Times James Hanchey, vice-segretario del Dipartimento Risorse Umane dello stato di New Orleans. Hanchey ha sottolineato le notevoli difficoltà che un’idea del genere arrecherebbe a geologi e ingegneri, tuttavia egli ritiene il progetto “una opzione sicuramente possibile”. Ma perché la deviazione del corso del Mississippi consentirebbe il ripristino delle coste del Golfo del Messico? La deviazione invierebbe le acque ricche di sedimenti del fiume - ogni anno il grande fiume ne scarica 200milioni di tonnellate nel Golfo del Messico - in aree paludose o di acque basse dove “il processo naturale delle onde, delle correnti costiere e delle tempeste contribuirebbe a ridistribuirli ricreando una linea di costa – ha spiegato Denise Reed, geologa dell’università di New Orleans che ha organizzato il convegno. D’accordo con Reed e Hanchey c’è anche Virginia R. Burkett, del United States Geological Survey la quale definisce questa proposta “l’unica soluzione plausibile per bloccare l’attività erosiva delle acque e fermare la furia degli uragani”.

mercoledì 14 maggio 2008

Anche Venere può ospitare forme di vita

Forse anche Venere, pianeta noto per le sue temperature estreme, potrebbe ospitare la vita. Lo dice l’astrobiologo tedesco Dirk Schultze-Makuch, che lavora presso l’università del Texas a El Paso. Secondo lo scienziato la vita su Venere si nasconde tra le sue nubi, e non in superficie dove la colonnina di mercurio arriva a sfiorare i 470 gradi centigradi. Dice Schultze-Makuch che i microrganismi potrebbero essere ospitati a un’altezza di circa 50 chilometri dalla superficie, dove la temperatura è di soli 30-80 gradi e la pressione è simile a quella terrestre a livello del mare. A conferma delle ipotesi del ricercatore tedesco ci sono anche i dati ricavati dalla sonda spaziale Pioneer. Dalle sue ricognizioni intorno al pianeta è emerso che esiste un fenomeno misterioso che potrebbe indicare tracce di vita su Venere sottoforma di microrganismi. Il riferimento è a immagini ultraviolette dell’atmosfera che rivelano strane macchie scure causate da qualcosa che sembra bloccare proprio le radiazioni provenienti dal sole. Ultimo dato a sostegno dell’ipotesi di Schultze-Makuch: le sonde hanno rivelato anche la presenza di acido solfidrico, composto chimico che non dovrebbe sussistere nell’atmosfera di un pianeta privo di vita. Schulze-Marbach ritiene che la presenza dell’acido sia da imputare all’azione di batteri che consumano anidride solforosa e ossido di carbonio e che secernono anidride carbonica o acido solfidrico.

I pesci? Più velenosi dei serpenti

Siamo abituati a pensare ai serpenti come agli animali velenosi per antonomasia, ma ora una scoperta statunitense rivoluziona completamente una simile tesi: gli animali più velenosi di tutti sono i pesci. Delle 15304 specie di pesci viventi almeno 1200 sono velenose, contro le 200 stimate fino a oggi. Di serpenti invece ce ne sono circa 2700 e di questi “solo” 350 sono pericolosi. Sono i risultati di una ricerca pubblicata sulla rivista Journal of Heredity da un team di statunitensi dell’American Museum of Natural History. Alla luce di ciò il numero di vertebrati velenosi sale a oltre 2mila, solo 800 dei quali comprendono i serpenti e altre specie di animali che vivono sulla terraferma. Ma come è stato possibile risalire a questi risultati? “Abbiamo sequenziato campioni di Dna di specie ittiche velenose – ha detto Ward C. Wheeler, a capo dello studio - per poi ricostruire il loro albero genealogico ‘genetico’. Si è così scoperto che l’antenato comune a tutte le specie di pesci velenosi è vissuto molto tempo prima di quanto si pensasse. Di conseguenza, oggi, il numero di specie velenose, è senz’altro molto più alto di quello stimato finora”. Dicono però i ricercatori che i pesci non sono animali aggressivi per natura, e che dunque la possibilità che hanno di produrre veleno è solo uno stratagemma evolutivo che hanno sviluppato per contrastare i predatori. In pratica le tossine velenifere vengono utilizzate quasi esclusivamente come arma da difesa e mai per attaccare: “Qualcosa di veramente orrendo ha spinto i pesci a sviluppare il veleno come arma difensiva – ha commentato William Smith, riferendosi al pesce pietra (Synanceia verrucosa), un pesce lungo mezzo metro e in grado di produrre una tossina altamente tossica e abitante i mari tropicali dalle Maldive all’Egitto. Pur non essendo di regola aggressivi nei confronti dell’uomo, i pesci velenosi, se vengono calpestati o disturbati, o se avvertono la presenza umana come minacciosa per la prole, si difendono mordendo o pungendo l’intruso ed inoculandogli il liquido velenoso. Questo agisce di solito localmente (per lo più come necrotizzante), ma in alcuni casi può anche provocare un avvelenamento generale e portare alla morte. Ecco alcuni tra i pesci più velenosi esistenti sulla Terra. Il pesce leone (Pterois radiata), che vive nelle acque del Pacifico. Anche se raramente mortale, la puntura delle spine dorsali è estremamente dolorosa. Il pesce scorpione (Pterois volitans), abita le regioni del Mar Rosso e la regione Indo pacifica. Il corpo di questo pesce è rosso mattone a strisce bianche. I raggi delle pinne sono lunghi e scanalati con ghiandole velenifere alla base. Si nutre di altri pesci vivi: ne mangia una mezza dozzina al giorno. Il pesce rospo (Lophius piscatorius), presenta un corpo molto largo nella parte anteriore, affusolato a forma conica posteriormente, con pelle liscia senza squame. È dotato di 2 pinne dorsali, una pinna anale, pinna codale diritta. Vive nel Mediterraneo. Il pesce prete (Uranoscopus albesca) si trova soprattutto nelle regioni dell’Atlantico centro-orientale. Il nome popolare di pesce prete, così come il nome scientifico (Uranoscopus = colui che guarda il cielo) e il nome inglese (star gazer = colui che fissa le stelle) fa riferimento a una caratteristica anatomica, gli occhi posizionati verso l’alto. Questo permette all’animale di nascondersi sotto la sabbia lasciando uscire solo occhi e bocca. Oltre a queste specie velenose conclamate gli studiosi hanno individuato almeno altre sei famiglie di pesci velenosi che prima non si conoscevano. Infine, ammettono i ricercatori, l’impatto dei pesci velenosi sull’uomo non è secondario: si stima infatti che ogni anno siano almeno 50mila le persone che subiscono la puntura di un pesce.

Innalzamento mari, Al Qaeda e pensioni: le paure più grandi

Paura e ansia sono due stratagemmi evolutivi che hanno consentito all’uomo di sopravvivere, progredire e svilupparsi, tenendosi lontano dai pericoli. Tuttavia non sempre questi sentimenti sono adeguatamente proporzionati a potenziali minacce. Spesso, infatti, tendiamo ad avere più paura di quanto sia necessario, così come, in altre circostanze, tendiamo invece a sottostimare un determinato pericolo. È dunque sulla base di queste considerazioni che è stato dato alle stampe un libro curioso e originale dal titolo “Panicology”: il volume è appena uscito in Inghilterra ed è stato scritto da Simon Briscole a Hugh Aldersey-Williams, due divulgatori scientifici. In esso vengono prese in considerazioni le paure maggiori delle persone, valutando, razionalmente, il reale rischio di ognuna. Iniziamo dalla paura (e dal rischio reale quindi) di venire colpiti da un asteroide, utilizzando una scala da 0 a 10 (criterio che viene utilizzato anche per tutti gli altri punti). I due esperti si soffermano sull’asteroide MN4, il quale, transitando a 30mila chilometri dalla Terra, secondo la Nasa, potrebbe colpire il nostro pianeta venerdì 13 aprile del 2029. Il corpo celeste, catalogato nel 2004 da scienziati del Near-Earth Object search program, ha una velocità d’impatto di 12,59 km/s e una grandezza stimata tra i 390 m e i 430 metri di diametro. Fa paura perché colpendo la Terra potrebbe liberare un’energia approssimativa pari a 1.600 megatoni. Questa paura è stata giudicata con il punteggio 4. Ma i due esperti ritengono che sia eccessiva, in quanto un rischio del genere è piuttosto basso (2): in particolare, le probabilità che un asteroide come MN4 possa centrare una città popolosa come Londra, sono insignificanti. Per ciò che riguarda gli incidenti automobilistici la paura provata è leggermente più bassa del pericolo reale: 6 contro 8. Dunque il timore di andare incontro a un incidente stradale è leggermente sottostimato, nonostante ci siano stati nel 2005 - in Inghilterra e Galles - 2740 incidenti mortali. Problema pensioni. Con l’aumento medio della aspettativa di vita e il sempre più alto numero di anziani c’è il serio rischio che le nuove generazioni abbiamo dei problemi a ricevere appropriatamente ciò che gli spetta, in seguito agli anni dedicati al lavoro. E qui, in effetti, il rischio è altissimo (10), mentre la paura è più bassa (6). Il contatto con alieni guerrafondai fa paura come l’impatto con un asteroide (4). Ma il pericolo reale è bassissimo (2). Tra il 1947 e il 1969 i militari americani hanno esaminato 12.618 rapporti aventi come tema l’avvistamento di Ufo. Ma da nessun caso è emersa la concreta possibilità di un incontro ravvicinato con un extraterrestre. Relativamente a nevrosi e ansie - o comunque a problemi legati alla sfera mentale - la paura è molto elevata (10). Ma il rischio oggettivo è decisamente minore (4). Un sondaggio condotto da Bupa (ente sanitario inglese) dice che almeno sette milioni di britannici attraversano stati ansioso-depressivi tali da dover ricorrere ai farmaci. Tuttavia oggi ci sono buone possibilità per combattere questo tipo di disturbi, anche semplicemente attenendosi a un corretto stile di vita. Il terrorismo fa moltissima paura (10). E il rischio non è bassissimo (6). In questo caso però vanno tenuti presenti alcuni dati. L’80 percento degli atti terroristici avvengono in Asia (dato del 2005). Delle 500mila persone che muoiono ogni anno in Inghilterra e Galles, solo una dozzina sono vittime di atti terroristici. Annualmente quindi i decessi dovuti al terrorismo sono decisamente più bassi anche rispetto agli avvelenamenti (900) e agli annegamenti (200). L’innalzamento del livello marino è un altro argomento che preoccupa (8). E il rischio che il fenomeno possa provocare disagi all’uomo è vicino alla stima effettiva del pericolo (6). Secondo gli scienziati – a causa dell’effetto serra e dello scioglimento dei ghiacci - il livello del mare si alza di circa 2-3 millimetri all’anno. E in particolare gli esperti dell’Intergovernmental Panel on Climate Change prevedono un innalzamento del livello marino di 49 centimetri da qui al 2100. Infine si ha anche molta paura dell’avvelenamento radioattivo (8), tipo l’avvelenamento da polonio subito da Alexander Litvinenko, ex agente del Kgb morto a Londra nel 2006. Il pericolo però è relativamente basso (4).

Gli ospedali da Oscar

Sono sei gli ospedali più importanti e più qualificati del mondo. E uno di questi è l’italiano Ieo, Istituto europeo di oncologia, attivo a Milano dalla metà degli anni Novanta. Si sono aggiudicati l’“Hospital bench marking award”, una specie di premio Oscar rilasciato dagli esperti dell’università della Westfalia, in Germania. Gli scienziati tedeschi sono giunti a ciò dopo aver passato in rassegna centinaia di centri ospedalieri in ogni angolo del pianeta, un lavoro che è durato 10 anni. Alla fine si è giunti a selezionare 70 ospedali con caratteristiche di innovazione in campo medico sanitario, da cui sono stati evidenziati i sei migliori, i sei più meritevoli quindi di questa sorta di premio Oscar della Sanità. Gli specialisti non hanno valutato solo gli aspetti ‘tecnici’ degli ospedali presi in esame, parametri come le apparecchiature e gli strumenti all’avanguardia, la modernità delle sedi, l’adeguatezza dei protocolli diagnostici, ma sono stati presi in considerazione anche molti altri criteri di giudizio come la qualità dell’assistenza ai malati, l’approccio psicologico al paziente, l’eventualità di abbracciare una sorta di filosofia aziendale che considera tutto il personale (dai medici ai centralinisti) come un unico staff che si dà da fare per rispondere al meglio alle esigenze del malato. Ma vediamo uno a uno questi sei centri da Oscar, partendo, naturalmente, dall’unico centro italiano incluso nella lista: l’Ieo. Il centro è stato fondato nel 1994 da Umberto Veronesi. I direttori delle varie unità di medicina provengono da 8 diversi paesi europei. L’Istituto ha relazioni con tutte le principali organizzazioni internazionali di lotta contro i tumori. Altissima la qualità dei servizi basati su tecniche chirurgiche innovative e fondamentale il rapporto che viene a instaurarsi fra medici e pazienti: ogni medico si impegna non solo a curare il malato, ma anche a stabilire una buona “alleanza terapeutica”, in modo da conoscere perfettamente il suo punto di vista e soprattutto il suo stato d’animo. Nel 2006 l’Ieo ha ospitato 39mila nuovi malati. In Sudafrica abbiamo invece la Medi-clinic corporation. Non è un solo ospedale ma una rete di nosocomi privati presenti su tutto il territorio e attivi, con tre sedi, anche in Namibia. In tutto offrono 6400 letti. La struttura funziona da 25 anni ed è all’avanguardia nella lotta contro l’Aids. Della Medi-clinic corporation ha fatto parte anche Christian Barnard, il chirurgo che ha realizzato il primo trapianto di cuore. Due i centri americani premiati dall’“Hospital bench marking award”. Più che un centro, il primo, è rappresentato da una rete di medici, “Volunteers in medicine”, con sede nel Vermont e strutture sparse in tutti gli Usa. Medici che si adoperano per curare gratuitamente chi non può permettersi di accedere ai servizi sanitari, tenuto conto che in Usa l’assistenza sanitaria è privata. Ne fanno parte anche molti medici in pensione. A Phoenix, in Arizona, sorge invece il Barrow neurogical Institute, fondazione no profit dedicata all’ex pugile Cassius Clay, simbolo della lotta contro il morbo di Parkinson. Il centro è specializzato nella cura dei disturbi neurologici, e offre ottime possibilità di recupero a chi ha subito un ictus. Gli ultimi due della lista sono il giapponese Kameda medical center e il National healthcare group. Il primo è un ospedale privato di Kamogawa City caratterizzato da 31 dipartimenti e 862 posti letto. È stato soprannominato “l’ospedale senza carta e senza immagini”. È infatti l’ospedale numero uno per ciò che riguarda la tecnologia digitale innovativa. Presso questo centro i pazienti vengono trattati come se fossero in un albergo a 3 o 4 stelle. A loro disposizione c’è di tutto: internet, tv, la possibilità di incontrare amici e parenti 24 ore su 24. Infine il National healthcare group di Singapore è un gruppo ospedaliero pubblico che si è messo in evidenza per la grande capacità di soccorrere e curare vittime di disastri ambientali come lo tsunami del 26 dicembre del 2004 ed epidemie come la Sars. È inoltre all’avanguardia nella cura della malattie mentali. I servizi sono di altissimo livello e non riguardano solo il ricovero del malato, ma anche la prenotazione voli per raggiungere il centro medico, la richiesta di visti, l’assistenza pre e post ospedaliera, l’impiego di interpreti.

Tredici "campioni" di mimetismo

Con la parola mimetismo gli scienziati intendono l’abilità sviluppata da alcuni animali di nascondersi dai predatori o, viceversa, di non farsi vedere da potenziali prede. In pratica l’animale in grado di mimetizzarsi presenta delle caratteristiche fisiche tali da riuscire ad essere scambiato per qualcos’altro, un altro animale (di solito più pericoloso) o un substrato naturale: nel primo caso si parla di mimetismo fanerico, nel secondo di mimetismo criptico. Dunque, ispirandoci a un servizio apparso su Airone, vediamo quali sono i 13 campioni di mimetismo. Iniziamo col re della foresta. Il leone (Pantera leo) è in grado di mimetizzarsi molto bene fra gli arbusti e le sterpaglie della savana africana. In questo modo - accompagnandosi con il suo tipico passo felpato - può avvicinarsi alla preda, per esempio una gazzella, senza essere visto. Tra i grandi mammiferi un comportamento analogo è quello della volpe rossa (Vulpes vulpes). Anche in questo caso c’è una perfetta sincronia fra le tinte del mantello del canide e quelle della tundra dell’Alaska, dove l’animale trova cibo per i suoi denti: topi e lepri. La lince (Lynx lynx), detta anche gattopardo, presenta una pelliccia grigio maculata, perfettamente assimilabile al colore della corteccia delle betulle. Le betulle spopolano nelle regioni abitate dalla lince eurasiatica, estinta in Italia da un centinaio d’anni. Rimanendo nell’ambito dei mammiferi altri campioni di mimetismo sono le lepri artiche (Lepus timidus). Questi lagomorfi si confondono perfettamente con il substrato bianco candido delle regioni polari – per esempio il nord del Canada - perennemente coperte da coltri nevose. In particolare le lepri si trasformano in palle di neve così da non essere riconosciute da predatori aggressivi come i rapaci. Nella scala evolutiva subito dopo i mammiferi troviamo i rettili e gli uccelli, i cui esempi più straordinari di mimetismo sono forniti dal diavolo spinoso dell’Australia, dai serpenti Dryophis nasuta della Cambogia, e dalla pernice bianca. Il diavolo spinoso (Moloch horridus), minuscolo rettile dell’Oceania, ha una pelle ricoperta di pungiglioni e il suo colore imita il rosso acceso delle sabbie australiane. Così facendo si muove scaltramente alla ricerca delle sue prede preferite: le formiche. I serpenti cambogiani riescono invece ad assumere la forma di liane, piante con fusto legnoso molto allungato e debole, tipiche delle foreste tropicali. La pernice bianca (Lagopus lagopus) adotta la stessa tecnica delle lepri artiche. Con le sue piume candide infatti si confonde perfettamente con il substrato nevoso, sfuggendo alla vista di volpi e aquile. Scendiamo nella scala evolutiva e arriviamo agli anfibi e ai pesci. Tra i pesci mimetici possiamo ricordare il pesce prete o lucerna (Uranoscopus scaber) in grado di nascondersi nella sabbia del suolo marino e aggredire vermi e gamberetti senza dar nell’occhio. Tra gli anfibi, le rane verdi (Rana ridibunda), che si confondono con le foglie che ricoprono stagni e acquitrini. Con questa tecnica gli anuri divorano numerose specie di insetti di cui vanno ghiotti. Infine scendiamo nelle classi più basse della scala evolutiva e incontriamo il cavalluccio pigmeo (Hyppocampus bargibanti), il ragno granchio (Thomisus onustus), le farfalle appartenenti ai generi Neuronia gigantea e Phromia rosea. I primi, lunghi appena 3 centimetri, sono in grado di assumere la stessa colorazione e forma delle gorgonie, specie particolari di coralli. I secondi, appartenenti al gruppo degli aracnidi, catturano le api mimetizzandosi su fiori color giallo acceso. Infine le farfalle del genere Neuronia – che si trovano in Cile – hanno imparato a difendersi fingendo di essere delle foglie morte; e i lepidotteri del genere Phronia – tipici del Madagascar – assumendo le sembianze di fiori secchi.

Tristi, vivaci, ansiosi. Per capire i bimbi basta un colore

Vuoi conoscere il carattere di tuo figlio? Sapere se soffre di qualche particolare disturbo o se alcuni lati del suo carattere potrebbero interferire con la sua serenità? Un utile consiglio arriva dagli studiosi dell’università La Sapienza di Roma, i quali ci dicono che per rivelare la personalità di un bimbo basta analizzare i disegni che fa e soprattutto osservare quali colori utilizza di più. Secondo gli scienziati romani infatti “i colori sono indice di maturazione e permettono di interpretare la sfera emotiva e affettiva”. Sebbene i colori siano pressoché infiniti (un osservatore particolarmente sensibile può distinguerne un centinaio) è possibile comunque ricondurre le tinte cromatiche a otto principali categorie rappresentate dal blu, verde, giallo, rosso, viola, marrone, nero e bianco. Tralasciando quindi il bianco che normalmente non viene usato nei disegni (poiché i fogli su cui si scarabocchia di solito sono dello stesso colore), vediamo uno a uno il significato che si cela dietro a ogni colore impiegato. Un bimbo che utilizza spesso il blu è un bimbo tendenzialmente tranquillo e sereno. Non ama entrare in conflitto con gli altri e ha ottime capacità di relazione. Potrebbe però avere dei problemi se lo utilizza in eccesso o troppo marcatamente: quando, per esempio, mentre raffigura un classico paesaggio, rappresentato da un gruppetto di case, i monti all’orizzonte, il cielo e i campi davanti all’abitato, lo sceglie per quasi ogni particolare; o quando, raffigurando un laghetto, preme il pastello o il pennarello oltremisura: in questo caso potrebbe comunicare il disagio di non riuscire a trattenere la pipì durante la notte (enuresi notturna). Il verde è da sempre legato alla ‘speranza’ e quindi chi lo impiega spesso è un bambino fiducioso, soddisfatto e felice. Tuttavia il suo uso eccessivo potrebbe rivelare una natura ribelle o, in alternativa, un temperamento accidioso e inibito. Col giallo hanno a che fare i bimbi con grande capacità di adattamento, dotati di eccezionale dinamismo, apertura mentale e intuizione. In realtà, anche qui, possono celarsi dei problemi quando il colore viene utilizzato inadeguatamente; quando gran parte dell’opera artistica di un nostro piccolo è dominata dal giallo potrebbe, per esempio, indicare un cattivo rapporto con qualche famigliare: secondo gli esperti chi disegna sempre con questo colore potrebbe avere difficoltà di relazione con il papà. Il rosso è il coloro del fuoco e quindi il bimbo che scarabocchia utilizzando questa tinta cromatica è un tipo molto attivo, eccitabile, coraggioso, energico. Se invece il rosso prevale nettamente sugli altri colori significa che qualcosa non va: il bimbo potrebbe essere troppo eccitabile – con tutte le conseguenze del caso fra cui la difficoltà a prendere sonno – o soffrire di scatti di collera. Un piccolo che utilizza spesso il viola deve essere preso in considerazione con attenzione. Infatti chi usa questo colore esprime una natura malinconica, tendenzialmente triste, pudica e fortemente emotiva. Quando un bimbo esagera con questo colore è perché potrebbero esserci, da parte dei genitori, delle richieste eccessive; può indicare quindi un eccesso di sollecitazione alla crescita o alla responsabilizzazione da parte della mamma o del papà. Il marrone è il colore della serietà, dell’intolleranza. Il bambino che lo usa più degli altri è un tipo prudente, che non ama sognare ad occhi aperti e che quindi preferisce stare con i piedi per terra. Quando però il marrone domina prepotentemente sulle altre tinte vuol dire che il bambino potrebbe essere troppo chiuso in se stesso. Infine abbiamo il nero che gli specialisti indicano come il colore che esprime paura, ansia, malinconia. Di conseguenza il temperamento di un bimbo che ne fa largo uso non può non prescindere da queste prerogative. Quando il nero è impiegato con insistenza potrebbe essere la spia di un umore instabile che necessita di essere seguito con attenzione.

Tre corse alla settimana per vincere 12 anni di vita

La corsa – e in generale tutte le attività fisiche condotte regolarmente e in modo appropriato – può ritardare l’invecchiamento di dodici anni. Di questo dovrebbero tenere conto soprattutto le persone di mezza età che troppo spesso si astengono dall’attività fisica. È quanto sostiene un gruppo di scienziati dell’università di Toronto in un articolo pubblicato sul Daily Mail. Gli scienziati hanno verificato che il regolare esercizio aerobico, come per esempio una corsa leggera di trenta minuti per tre volte alla settimana, rallenta il declino biologico dell’organismo. Con riflessi positivi sui muscoli, sulla circolazione e sulla respirazione. “Nessuno è troppo vecchio per iniziare a fare attività aerobica – ammettono gli scienziati - anche se è imperativo consultare il proprio medico prima di iniziare, partire lentamente e costruire una routine di attività fisica personalizzata. Fare esercizio non è difficile - conclude Brown - basta volerlo”. Secondo lo studio le attività fisiche aerobiche come andare a correre in bicicletta, fare la cyclette o lo step, possono dunque ritardare il cosiddetto invecchiamento biologico di 12 anni e permettere alle persone di condurre uno stele di vita autonomo per molti più anni. Normalmente la forza dei muscoli degrada con gli anni, ma in chi fa sport regolarmente ciò non accade, o meglio, accade con maggiore lentezza. In pratica la forza muscolare e la buona deambulazione si mantengono più a lungo, mentre di solito già dopo i 35 anni entrambi i fattori cominciano a peggiorare. Col passare del tempo infatti l’ossigeno raggiunge i muscoli con maggiore difficoltà e di conseguenza l’organismo produce meno energia, ma in chi fa sport, il cosiddetto “potere aerobico” rimane inalterato più a lungo. Questo tipo di attività fisica, inoltre, allontana anche le malattie, come diabete, coronopatie e depressione. Però è importante svolgerla in modo corretto. La corsa, per esempio, che è uno degli sport più praticati (in Italia fanno jogging 1.166.000 persone), è basata su una serie di regole precise da seguire per trarne beneficio ed evitare conseguenze negative. Vediamo allora quali sono le caratteristiche di una corsa perfetta. La testa e il collo, durante il jogging, devono rimanere dritti in modo da distribuire uniformemente il peso del capo (in media dai 3 ai 4,5 chilogrammi) sulla colonna vertebrale. Se li pieghiamo troppo all’indietro o in avanti rischiamo di sottoporre a uno sforzo inutile le articolazioni delle vertebre cervicali. Per aiutarci in questo senso basta fissare, durante l’esercizio, un punto del terreno situato a una ventina di metri di distanza. Anche il busto è importante che sia diritto - o al limite leggermente piegato in avanti - mai all’indietro. Si corre quindi con il petto all’infuori, come se ci fosse una corda attaccata allo sterno che ci tira. Per ciò che riguarda le anche è molto importante non affidarsi esclusivamente ai muscoli di questa parte dello scheletro, vale a dire il quadricipite e i tensori della fascia lata (muscolo appiattito e allungato, situato nella parte laterale dell’osso iliaco). Meglio sarebbe usare il tendine del poplite (retro dell’articolazione del ginocchio) e i glutei. Tendere in avanti le anche migliora inoltre la spinta del ginocchio. Il piede, quando poggia per terra, deve essere perfettamente allineato con il nostro baricentro. E le dita rilassate e non contratte. Anche le spalle devono essere rilassate durante la corsa. Se sono rigide e piegate in avanti portano infatti a un dispendio inutile di energia e limitano di gran lunga i movimenti della corsa. È consigliato quindi lasciarle ruotare sull’asse dorsale, un movimento naturale che peraltro aiuta le anche a distendere le gambe. Di grande importanza per una corsa perfetta sono poi le braccia che, in base alla velocità, variano il loro movimento. In ogni caso l’ideale è che i gomiti si pieghino su se stessi a formare un angolo di 90 gradi. Relativamente alle ginocchia sono numerosi gli appassionati di jogging che pensano che sia necessario spingere il più possibile verso l’alto questa parte scheletrica. In realtà ciò va bene per chi corre a livello agonistico, mentre per chi lo fa a livello dilettantistico è controproducente, portando a uno spreco eccessivo di energia. Infine abbiamo le gambe e le caviglie. Delle prime va tenuta rilassata la parte sotto il ginocchio, quando è sollevata da terra, azione che porta a evitare di allungare troppo il passo. Analogamente le caviglie vanno tenute rilassate ogni volta che si alzano da terra, per avere poi una spinta migliore del piede.

Sonno, pulizie, tv. Come stare bene fra le mura di casa

Siamo abituati durante il giorno a compiere azioni banali, scontate, che però, se non sono svolte in modo adeguato, possono provocare problemi di salute anche seri, ai danni soprattutto di muscoli e scheletro. Il riferimento è ad azioni tipicamente domestiche come stirare, lavare i piatti, pulire i vetri, guardare la tv che possono provocare disturbi alla colonna vertebrale, lombalgie, stiramenti, strappi, discopatie, cefalee. A questo proposito si fanno avanti gli scienziati dell’Unità di Riabilitazione e Recupero funzionale di Humanitas, centro medico milanese, suggerendoci gli stratagemmi da adottare per evitare per esempio di trovarci con la schiena bloccata o con dolori muscolari che insorgono all’improvviso e che non sappiamo come trattare. Iniziamo con il sonno. Secondo i ricercatori la posizione ideale per dormire è quella con la pancia all’insù. Ma poiché è difficile mantenere la posizione durante il sonno, è necessario agire sul materasso e sul cuscino. Quest’ultimo non deve superare i 10 centimetri, ed è meglio che sia rigido piuttosto che morbido; mentre il materasso ideale è quello semirigido, in grado di adattarsi alla anatomia del corpo; se qualcuno ama leggere prima di addormentarsi dovrebbe poi porre un piccolo cuscino a livello lombare. Anche il risveglio può essere critico per la salute di muscoli e scheletro. In particolare al mattino - a causa della posizione supina mantenuta per molte ore - i dischi intervertebrali risultano tendenzialmente aumentati di volume e più sensibili ai sovraccarichi. Per questo quando si scende dal letto, e si raggiunge per esempio il bagno per lavarsi faccia e denti, sarebbe utile evitare di piegarsi in avanti tenendo le gambe tese; andrebbero invece flesse un po’ le ginocchia, mantenendo la schiena non troppo inclinata. In poltrona ci si siede spesso per leggere, ma anche qui bisogna fare attenzione alla posizione che si assume per non correre rischi. Gli specialisti ci ricordano che per non sovraccaricare la spina dorsale, schiena e cosce dovrebbero formare un angolo di 90gradi; anche in questo caso è utile un cuscinetto da applicare a livello lombare. L’azione di guardare la tv è meglio svolgerla da seduti e non da sdraiati. Inoltre, rispetto al divano, è bene che lo schermo televisivo sia posto di fronte e non diagonalmente o addirittura lateralmente: ciò porterebbe infatti a inclinazioni forzate della testa alla base di stiramenti e torcicolli. Altra azione di cui tenere conto per non trovarsi con la schiena bloccata o qualche altro malanno è quella relativa al sollevamento pesi. Quando si solleva qualcosa bisogna quindi flettere le ginocchia, tenendo le gambe leggermente divaricate. Inoltre il peso sollevato deve stare il più vicino possibile al corpo. Quando invece trasportiamo le borse della spesa è bene equilibrare il peso a destra e a sinistra e concedersi delle piccole pause; un’azione di questo genere svolta superficialmente può causare problemi ai legamenti. Anche stirare e lavare i piatti richiede qualche accorgimento. L’ideale per affrontare lavori di questo tipo è avvalersi di un piccolo sgabellino alto 15 centimetri sul quale alternare un piede e poi l’altro. Inoltre il piano su cui si lavora – in un caso l’asse da stiro, nell’altro il lavandino – è utile che sia all’altezza giusta, tale da consentire alla schiena di rimanere diritta il più possibile. Infine quando si lavano i vetri o si puliscono mensole e ripiani è sconsigliato allungare le braccia; meglio utilizzare apposite scalette. In ogni caso – tra le mura domestiche - non andrebbe mai dimenticato di fare un po’ di stretching appena si ha un po’ di tempo disponibile. Secondo gli scienziati questa attività aiuta a eliminare le contratture muscolari e a prevenire traumi e lesioni.

Latte, pasta, carne. Quando mangiarli per fare carriera

Per fare carriera nella vita non servono solo un buon curriculum, il talento, la fortuna. È anche necessario seguire un’alimentazione il più possibile appropriata e corretta. È il parere di alcuni ricercatori di Ginevra, i quali sostengono che chi mangia male e di fretta ha meno chance di farsi strada nella vita rispetto a chi si nutre correttamente. Gli scienziati dell’International Labour Office ritengono indispensabili i tre principali pasti della giornata, che però devono essere consumati ad orari precisi ed essere basati su alimenti peculiari. In caso contrario il rischio è quello di indebolire il fisico e la mente e quindi non fornire a un organismo i presupposti per poter lavorare magari 12 ore al giorno. In chi si nutre malamente e lavora per molte ore si possono per esempio registrare cali di zuccheri, di ferro e di liquidi, che rendono stanchi e nervosi. Per tale motivo è necessario seguire una dieta in grado di dare forza ed energia. Iniziamo con la colazione. I ginevrini dicono che chi intende far carriera deve innanzitutto consumare una colazione abbondante ma leggera. Con ciò la raccomandazione degli specialisti è quella di nutrirsi con alimenti come latte e yogurt magri, ideali per rifornire l’organismo di calcio e proteine. Vanno bene anche i fiocchi d’avena e le fette biscottate integrali, cibi ricchi di fibre e zuccheri complessi, che aiutano a tenere attivi e svegli tutta la mattina. Altri alimenti tipici della prima colazione come la marmellata e il miele sono ottimi per rifornire il corpo di zuccheri semplici, che forniscono istantaneamente energia. A metà mattina gli scienziati consigliano poi di mangiare un frutto per non arrivare troppo affamati all’ora di pranzo. Al bando caffé e cioccolato, utili semmai durante il pomeriggio, quando la digestione rallenta i riflessi. Assumere caffeina in mattinata è controproducente in quanto aumenta il battito cardiaco e innervosisce; inoltre lo stomaco si gonfia e gli zuccheri vengono rapidamente assorbiti lasciando un senso di fame. Arrivati intorno all’una, lo stomaco inizia a borbottare; e il cervello ha bisogno di relax. Dunque è necessario ‘staccare’ e dedicarsi con calma al pranzo; cosa che in molti non fanno limitandosi a mangiare un panino al volo. Anche in questo caso, quindi, è indispensabile valutare attentamente ciò che si mangia per consentire a un organismo di lavorare ancora per parecchie ore. Per i pranzi gli scienziati di Ginevra consigliano alimenti proteici e verdure il meno possibile condite. Ideali sono per esempio un piatto di bresaola con rucola oppure un petto di pollo; entrambi gli alimenti contrastano i cali di ferro a livello ematico e tengono lontana la sonnolenze pomeridiana. Altro cibo consigliato è l’uovo. Il tuorlo contiene infatti sostanze che rinforzano la memoria. Da evitare, sempre e in ogni caso, cibi farciti, salse, formaggi grassi e salumi. Ottimo infine concludere un pranzo con frutta secca – noci, nocciole, mandorle – prodotti naturali che contengono molto magnesio, utile per aumentare la concentrazione e migliorare il tono dell’umore. Durante il pomeriggio possono essere consumate bevande a base di caffeina ma senza esagerare. Un cappuccino è l’optimum. Contiene infatti quel tanto di caffeina necessario a contrastare efficacemente il calo di energia postprandiale. Infine abbiamo la cena che spesso chi è oberato tende a ritardare il più possibile: un male spiegano gli specialisti; perché mangiando troppo tardi non si dà tempo al corpo di digerire e si rischia di compromettere il sonno. Inoltre questa abitudine porta spesso ad alzarsi più tardi la mattina, rubando tempo alla colazione. Con ciò il consiglio degli scienziati è quello di cenare sempre alla stessa ora, intorno alle 20.00, e nutrirsi con alimenti ricchi di carboidrati come il riso, la pasta, e il pane, eliminando cibi grassi ed elaborati.

La diagnosi delle malattie comincia dai sogni

Riuscire a diagnosticare in anticipo le malattie semplicemente analizzando i sogni che facciamo. È questo l’obiettivo degli specialisti milanesi del Centro di medicina del sonno all’università Vita-Salute del San Raffaele di Milano. Interessanti risultati sono già emersi per ciò che riguarda la relazione fra attività onirica e malattie neurodegenerative come l’Alzheimer e il Parkinson, di cui soffrono milioni di persone in tutto il mondo. Secondo i ricercatori i sogni di un malato di Alzheimer - o quelli di una vittima del morbo di Parkinson - non sono uguali a quelli delle persone sane, ma presentano delle caratteristiche peculiari, il risultato della lenta e progressiva perdita delle capacità cerebrali. In particolare, la persona colpita da una patologia neurodegenerativa, presenta una attività del cervello, per certi versi, analoga a quella di un bambino. Gli studiosi hanno potuto constatare che il sogno realizzato da un individuo vittima, per esempio, di una forma di demenza senile, è spesso molto simile a quello elaborato da un giovanissimo. Esempi? Il bambino sogna frequentemente animali, veri o immaginari. La stessa cosa accade nei malati di Alzheimer o Parkinson. Non solo. Un bimbo difficilmente fa sogni di natura sessuale; e questa circostanza è riscontrabile anche nel malato di demenza senile. In generale, comunque, i sogni di queste persone denotano un livello di aggressività più elevato della norma; sono molto vividi. Spesso, quindi, i malati si agitano nel sonno, parlano e scalciano. Cosa che invece non succede, normalmente, nella persona sana: in chi non ha problemi di natura neurodegenerativa, durante il sonno, i muscoli sono rilassati e le uniche parti del corpo in movimento sono gli occhi nel corso della cosiddetta fase Rem (Rapid Eye Moviments). Gli scienziati non hanno indagato solo sulla relazione sogno-malattia neurodegenerativa, ma anche sul legame tra l’attività onirica e una patologia chiamata ‘apnea notturna’. Chi è colpito da questa malattia va spesso incontro a casi di ipossia, momenti in cui l’organismo perde la capacità di ossigenare adeguatamente il cervello. Il male colpisce frequentemente chi soffre di obesità, e parrebbe essere direttamente collegato a manifestazioni patologiche come l’ictus. Gli esperti hanno messo in luce che anche un malato di apnea notturna può essere riconosciuto semplicemente risalendo alla qualità dei suoi sogni. Di solito, infatti, queste persone tendono ad avere un’attività onirica molto intensa e molto più lunga di chi è sano, e al risveglio hanno come l’impressione di aver sognato per tutta la notte. Secondo gli scienziati il motivo di ciò è strettamente riconducibile al fenomeno dell’ipossia che porta a un’attivazione eccessiva del cosiddetto lobo limbico, porzione cerebrale legata alle emozioni, e quindi al contenuto emotivo dei sogni. Insomma, i ricercatori dicono che fino ad oggi si è cercato di interpretare i sogni solo sotto l’aspetto psicologico; da oggi invece si potrà indagare l’attività onirica anche per sapere qualcosa di più di un organismo da un punto di vista biologico. Potrebbe quindi non essere lontano il giorno in cui un qualunque dottore potrà prevedere l’evoluzione di una malattia semplicemente domandando al paziente che sogni fa la notte.

L'inglese si evolve e diventa Panglish

La lingua del futuro? Sarà il Panglish, una specie di inglese contaminato dalle innumerevoli lingue della Terra. È la conclusione di un team di ricercatori dell’università di Hildesheim, in Germania. Secondo gli esperti questa nuova lingua potrebbe prendere definitivamente piede entro pochi anni. Con ciò i linguisti sono convinti che il linguaggio di Shakespeare e Dickens si stia definitivamente evolvendo in un nuovo idioma, che sarà parlato in quasi tutto il mondo. Le modifiche dell’inglese tradizionale - da un punto di vista lessicale e di pronuncia - sono già in atto, ma non sono riconducibili ai madrelingua, vale a dire gli inglesi, gli americani e gli australiani; bensì a coloro che parlano inglese come seconda lingua. I ricercatori spiegano quindi su New Scientist che il Panglish sarà molto simile alla versione inglese usata da coloro che non hanno radici angloamericane. Ecco alcuni esempi già consolidati della lingua Panglish. L’articolo “the” diventa “ze”; la parola “friend” diviene “frien”; frasi come “he talks” diventano “he talk”. Gli specialisti dicono che nel 2010 circa due miliardi di persone – vale a dire un terzo della popolazione mondiale – parlerà inglese come seconda lingua e da qui prenderà definitivamente forma il nuovo idioma. Mentre l’inglese puro verrà parlato da un numero sempre più ristretto di individui. Nel 2010 saranno 350 milioni, nel 2020 300milioni e così via. Alla fine il Panglish prenderà il sopravvento sull’inglese. Braj Kachru della università dell’Ohio afferma che già da oggi sulla Terra vengono parlati tanti ‘inglesi’ diversi e che, entro breve, convergeranno tutti nel Panglish. A Singapore per esempio si parla un inglese molto particolare, con chiare influenze malesi e cinesi; quest’ultimo però non viene compreso dagli inglesi madrelingua. Lo stesso accade in Arabia Saudita, in Cina, in molti paesi latini. Il progressivo consolidamento del Panglish lo si vede dunque dal fatto che sempre più spesso chi parla inglese come seconda lingua si capisce molto bene, mentre ciò non accade in presenza di un angloamericano puro. A ciò va affiancato il fatto che in Inghilterra o in America non esiste un ente atto a preservare l’originalità e la purezza del lessico shakesperiano. Ciò che invece accade in Francia dove il francese puro è tenuto in vita e sotto stretta sorveglianza da un organo inflessibile che è l’Accademia Francese (l’Academie francaise, fondata nel 1635 sotto Luigi XIII dal cardinale Richelieu, è una delle più antiche istituzioni di Francia e ha come scopo preservare l’idioma nazionale). I ricercatori approfondiscono l’argomento dicendo che il Panglish prenderà piede anche per via della difficoltà oggettiva che hanno molti a pronunciare correttamente le parole in inglese stretto. Per esempio per molti è assai complicato pronunciare il comunissimo “th” (di parole come per esempio “thermodinamics” o “thermal”) che viene quindi sostituito dalla “z” o dalla “s”. Altri non riescono tanto bene a pronunciare la “l” di “hotel” e così fanno prima ad adottare la “l” della parola “lady”, molto più allungata e facilmente “masticabile”. La difficoltà di pronuncia regna anche nel mondo delle consonanti. Sicché nel Panglish scompaiono spesso delle lettere in coda alle parole che non dovrebbero esistere. Per esempio “friend” diventa “frien”; “send” o “spend”, divengono “sen” e “spen”. Infine possono comparire parole che anziché avere una lettera in meno, ne possiedono una in più. È il caso di termini come “information” o “forniture” che non contemplano la “s” finale, anche se si intende parlare al plurale. Dunque si dirà da una parte “informations” e dalla altra “furnitures”. Infine per capire cosa sta succedendo all’inglese moderno, basta soffermarsi su ciò che si è verificato nel corso della storia per quanto riguarda il latino. Gli studiosi ci ricordano infatti che anticamente il latino era la lingua madre di molte regioni europee, poi, coi secoli si è trasformato in latino volgare per poi frammentarsi infine in tre dialetti principali: gli antenati dell’italiano, dello spagnolo e del francese moderno. E a sua volta il latino non è che uno dei tanti figli di una lingua scomparsa parlata nelle regioni indoeuropee più di 4mila anni fa. Da questa si sarebbero originati tanti altri idiomi, precursori del celtico, del greco, dello slavo, del latino.

Curvo, storto, a testa alta. Il passo svela il carattere

C’è chi cammina trascinando i piedi, chi saltellando, chi con una spalla su e una giù. Sono tanti i modi di camminare e per ognuno di questi è possibile associare una personalità, un tratto del carattere, e di conseguenza suggerimenti per risolvere disturbi comportamentali. È quanto si evince dalle ricerche condotte da Massimo Soldati, psicologo psicoterapeuta di Milano, autore del recente libro “Corpo e Cambiamento” (Tecniche Nuove). “Vari studi condotti nell’ambito della cosiddetta psicologia corporea hanno portato a riconoscere come le attitudini mentali si riflettono nel nostro modo di camminare – racconta Soldati - formando una vera e propria armatura muscolare, che rivela il nostro carattere e i principali blocchi del nostro sviluppo psico-affettivo. È perciò possibile leggere nella postura, nella gestualità, nella mimica e in tutte le varie manifestazioni corporee una infinità di dati psicologici, che possono essere impiegati per comprendere tratti della personalità, ma soprattutto per favorire la trasformazione, la crescita personale, la guarigione da traumi”. Secondo il ricercatore è possibile classificare sei tipi standard di camminata e in base a ciò sei profili caratteriali. Iniziamo dal primo punto: la camminata con il busto leggermente piegato in avanti è tipica di persone molto sensibili, intuitive e idealiste, ma anche fragili e bisognose di sostegno morale. Muovendosi a piccoli passi con la testa china si comunica al prossimo la difficoltà a reggersi sulle proprie gambe. “Questa camminata, in pratica, indica uno stato interiore di bisogno e una mancanza di autonomia – precisa lo studioso. Per chi cammina in questo modo sarebbe molto utile sottoporsi a sedute di psicoterapia che aiutano a credere un po’ di più in se stessi. Inoltre ci si può avvalere di discipline come lo yoga che aiutano a concentrarsi di più su se stessi e sulle proprie capacità. La camminata con passo molleggiato contraddistingue individui dinamici, attenti al giudizio altrui, ambiziosi e vogliosi di competere col prossimo. L’andatura è fra le più riconoscibili. Tipico lo slancio dato a ogni passo, come se sotto i piedi ci fosse qualcosa che spinge il corpo verso l’alto. Le braccia e i gomiti oscillano indicando la volontà di assoggettare il prossimo. A queste persone gli specialisti di psicologia corporea si rivolgono suggerendogli di soffermandosi un po’ di più sulle esigenze altrui, e fidandosi di chi li circonda. Inoltre invitano a domare l’aggressività e a essere più sinceri. La camminata ancorata a terra (quasi trascinando i piedi), con le ginocchia leggermente flesse, è spia di una personalità concreta, ma anche introversa e tendenzialmente nervosa. Probabilmente chi cammina in questa maniera ha anche una certa difficoltà a mettersi in relazione con gli altri. “Sono individui che mostrano capacità di soffrire e perseverare, ma anche personalità chiuse e incapaci di dire di no – precisa Soldati. Il sognatore, la persona creativa, con la testa perennemente fra le nuvole, cammina invece inciampando spesso su se stessa. È il classico maldestro, che si muove quasi in trance senza guardare dove mette i piedi. Per costui, dice lo psicoterapeuta, sarebbe utile concentrarsi di più sulla camminata, magari muovendosi con meno foga; anche passeggiare in mezzo alla natura può essere di grande aiuto. Chi cammina con una spalla più bassa dell’altra probabilmente non ha le idee chiare su niente. Il busto assume una postura asimmetrica: la parte destra del corpo non è allineata con la parte sinistra. È un soggetto perennemente schiavo del dubbio, non sa mai che pesci pigliare, e che strada scegliere. Il consiglio? Prendere lezioni di ballo. Dicono infatti i ricercatori che muoversi al ritmo della musica aiuta ad armonizzare la postura. Infine abbiamo la camminata a testa alta, la tipica andatura di chi ostenta sicurezza, di chi è fiero di sé e delle proprie capacità; in realtà, queste persone, dovrebbero lasciarsi andare un po’ di più, e dare più spazio alle emozioni. “Questa andatura infatti, in molti casi, esprime l’incapacità di lasciarsi andare pienamente nel mondo degli affetti – chiude Soldati.