mercoledì 3 dicembre 2008

Creata la superproteina che spegne i tumori

Una nuova speranza per la lotta contro i tumori giunge da uno studio italiano realizzato da esperti dell’Istituto di Biologia e patologia molecolari del Cnr in collaborazione con il gruppo di Gerard Evan, dell’Università californiana di San Francisco. Riguarda una super proteina in grado di ‘disarmare’ i tumori. Per ora i test sono stati condotti solo sui topi, ma la speranza è quella di poter entro breve condurre le stesse sperimentazioni anche sull’uomo. In particolare, nei roditori, la terapia ha determinato una regressione della massa neoplastica in animali colpiti da tumore al polmone. “Omomyc” è il nome della proteina selezionata dagli studiosi italiani e “Myc” la super-proteina bersaglio, fondamentale nello sviluppo delle masse neoplastiche. Prima d’ora si pensava che non fosse possibile annullare l’azione di “Myc” se non provocando gravi problemi all’organismo. Oggi, invece, ci si è resi conto del contrario: annullando la sua azione con la nuova proteina selezionata – appunto “Omomyc” - il tumore smette di crescere e non si ha alcun danno organico. I principali autori dello studio, Sergio Nasi e Laura Soucek, dicono che questa scoperta potrebbe rivoluzionare la lotta ai tumori, senza comunque lanciare false speranze: “È di sicuro una strada promettente, tuttavia non possiamo ancora dire quando e come potremo procedere sull’uomo – racconta a Libero Nasi -. Prima di arrivare a condurre test sui pazienti, sarà necessario portare a termine nuove sperimentazioni sugli animali, il cui scopo è quello di verificare se la terapia funziona anche con altri tipi di tumore che non sia solo quello al polmone. Contemporaneamente cercheremo risposte in laboratorio su cellule umane. In teoria la speranza per il futuro è quella di sviluppare vettori proteici o addirittura ‘pillole’ in grado di trasportare il principio attivo selezionato per poi bloccare la neoplasia. A oggi possiamo solo dire che con l’ingegneria genetica siamo riusciti a far regredire il male in topolini affetti da tumore polmonare”. Ma come agisce esattamente la nuova proteina selezionata? In realtà non agisce da sola ma con la proteina “Max”: insieme, le due molecole, regolano infatti l’attività di molti geni, compresi quelli legati alla crescita neoplastica. In particolare gli studiosi hanno impedito alla proteina “Myc” di lavorare in tandem con “Max”, isolando in seguito la nuova proteina “Omomyc”. In questo modo “Myc” da molecola che provoca il cancro si trasforma in una che lo sopprime. Lo studio pubblicato su Nature parla di un sistema che ha consentito ai ricercatori di spegnere e accendere a piacimento la produzione di “Omomyc” in topi sani e in altri malati di tumore. Il risultato non lascia dubbi. La molecola “Myc” viene inibita a tal punto da arrestare la crescita neoplastica. Oltretutto non ci sarebbero effetti collaterali. E con questo siamo al terzo successo in pochi giorni della medicina italiana in campo internazionale. Marco Ricci, recentemente, presso l’Università di Miami, ha consentito a una ragazza di sopravvivere per 118 giorni senza cuore; Paolo Macchiarini, a Barcellona, ha portato a temine il primo trapianto utilizzando cellule staminali.

Una 14enne americana vive per 118 giorni senza cuore. Poi il trapianto

Una ragazza di 14 anni, D’Zhana Simmons, è sopravvissuta per 118 giorni senza cuore, grazie a speciali pompe cardiache. E da ieri, dopo aver subito un trapianto cardiaco, potrà tornare a condurre una vita pressoché normale: la prognosi – dicono i medici che l’hanno avuta in cura - è buona, benché ci siano un 50% di possibilità che possa subire un nuovo trapianto fra 12-13 anni. L’operazione è avvenuta a Miami ed è stata condotta dall’italiano Marco Ricci. La ragazza soffriva di cardiomiopatia dilatata, una malformazione in cui il cuore è allargato a tal punto da non riuscire più a pompare il sangue per l’organismo. Ed è rimasta quindi collegata a una macchina per quasi quattro mesi, con la cassa toracica priva dell’organo cardiaco. “Non sai mai quando potrebbe funzionare male – ha detto la ragazzina, con un filo di voce, in una conferenza stampa all’Università di Miami, riferendosi ai macchinari che l’hanno tenuta in vita -. Era come se fossi una persona finta, come se non esistessi realmente”. La quattordicenne della Carolina del Sud è al suo secondo trapianto. Il primo, risalente al 2 luglio, e avvenuto presso l’Holtz Children’s Hospital, non ha avuto successo. Sono immediatamente subentrate delle complicazioni che hanno indotto i medici a rioperare la ragazzina per liberarla del nuovo organo innestato. Nel frattempo è stata mantenuta in vita tramite apposite pompe cardiache. “Riteniamo che sia la prima paziente pediatrico ad aver ricevuto un simile trattamento – hanno rivelato i medici del Jackson Memorial Medical Center -. E forse una delle più giovani rimasta in attesa di trapianto senza il suo cuore”. In realtà non è la prima volta che un paziente sopravvive per giorni e giorni senza il cuore, ma solo grazie all’azione di pompe cardiache esterne all’organismo. Tempo fa, infatti, in Germania, un uomo ha resistito senza il muscolo cardiaco per ben nove mesi. Ma è un caso estremo e, comunque, ha riguardato una persona adulta. Ancora una volta, quindi, un medico italiano è riuscito in un’impresa quasi impossibile, dopo l’esperienza vissuta a Barcellona da Paolo Macchiarini e diffusa ieri dalla rivista The Lancet. Lo scienziato ha portato a temine il primo trapianto utilizzando cellule staminali. Tramite sofisticate operazioni di ingegneria tissutale è riuscito a sviluppare in laboratorio una porzione di trachea, partendo da cellule normali provenienti da cadavere e cellule staminali prelevate dal corpo del malato. In pratica ha utilizzato la trachea del donatore (dopo averla svuotata di tutte le sue cellule originarie) per realizzare una sorta di impalcatura scheletrica e le cellule staminali del paziente – una donna di 30 anni - per dare vita al tessuto respiratorio vero e proprio. Dalla mucosa dei bronchi del malato ha estratto delle cellule epiteliali, mentre altre cellule le ha prelevate dal midollo osseo. Infine, tramite uno speciale bireattore, le cellule coltivate in laboratorio hanno aderito all’intelaiatura del donatore dando vita a una porzione tracheale che è poi stata innestata nel corpo della paziente, restituendole la capacità di respirare normalmente.

Primo trapianto con le staminali (prima pagina Libero del 20 novembre 08)

Una mamma di 30 anni riacquista la capacità di respirare regolarmente grazie a un organo costruito su misura per lei in laboratorio. Un intervento straordinario che apre la speranza di riuscire, entro un paio di decenni, a compiere la stessa cosa anche con organi complessi come il fegato o i reni, rivoluzionando la medicina. Questo il parere degli scienziati che hanno operato alla trachea (struttura tubolare che separa la laringe dai bronchi) la trentenne spagnola, Claudia Castillo, fra cui l’italiano Paolo Macchiarini. L’operazione è avvenuta quattro mesi fa nella Clinica ospedaliera di Barcellona, ma la rivista The Lancet ne dà notizia solo oggi, dopo aver preso atto del successo dell’intervento: la signora Castillo, infatti, sta benone, non necessita di terapia antirigetto (a differenza di tutte le altre forme di trapianto) ed è tornata felicemente a giocare con i suoi due bambini, dopo aver perduto la capacità di farlo per via di una grave forma di tubercolosi. Ma come si è giunti a un traguardo così importante? Gli specialisti che operano nell’ambito dei trapianti, stanno già da tempo lavorando per riuscire a sviluppare in laboratorio degli organi ex-novo, ma finora tutti i tentativi effettuati non sono andati a buon fine; perché – spiegano – un conto è creare tessuti specializzati partendo da poche cellule staminali, un altro dare vita a organi perfettamente funzionanti, in grado di assolvere importanti compiti fisiologici. Inoltre c’è ancora il problema di non conoscere perfettamente il comportamento delle cellule staminali una volta introdotte in un organismo. In questo caso, però, tramite sofisticate operazioni di ingegneria tissutale, testate fino a ieri solo sui maiali, si è arrivati a ‘costruire’ ex-novo una parte di trachea, partendo da cellule normali provenienti da cadavere e cellule staminali prelevate dal midollo del malato. In pratica i medici hanno utilizzato la trachea del donatore (dopo averla svuotata di tutte le sue cellule originarie) per realizzare una sorta di impalcatura scheletrica e le cellule staminali del malato – in essa innestate - per dare vita al tessuto respiratorio vero e proprio. L’impiego delle cellule staminali, in particolare, fa sì che la paziente possa fare a meno della terapia immunosoppressiva: in questo caso, infatti, il sistema immunitario della malata non riconosce come estranea l’impalcatura del donatore, ma come parte integrante dell’organismo. L’operazione è avvenuta a Barcellona, mentre i test di laboratorio che hanno permesso di ottenere milioni di cellule cartilaginee perfettamente in linea con le esigenze morfostrutturali dell’organo tracheale, sono stati compiuti presso l’università di Bristol. Enorme la soddisfazione dei medici che hanno preso parte all’intervento, provenienti da tre paesi diversi: “Abbiamo ottenuto un grande risultato – ha rivelato Macchiarini – appena quattro giorni dopo l’operazione la parte di trachea innestata era indistinguibile dall’organo originario”. E sulla paziente che è stata operata si è pronunciato dicendo che “Claudia non poteva giocare con i suoi bambini, né lavorare, condurre una vita normale, ma ora può farlo: è il regalo più bello che potevamo farle”. Ieri l’argomento è stato affrontato anche a Londra dal professor Martin Birchall, chirurgo dell’Università di Bristol, a capo dell’avveniristico intervento: “Questo è solo l’inizio – ha commentato -. Partendo da questo presupposto, infatti, possiamo pensare di arrivare entro una ventina d’anni a sviluppare in laboratorio anche organi più complessi”. Il prossimo passo sarà dunque quello di creare in laboratorio organi cavi come l’intestino, la vescica o parti dell’apparato riproduttivo; in seguito si potrà arrivare a tentare di realizzare con la bioingegneria anche organi solidi come il cuore, il fegato o i reni. Intanto, grazie a questo successo, altri due pazienti, entrambi malati di tumore, provenienti da Germania e Stati Uniti, potranno essere operati a Barcellona e tornare a condurre una vita normale.

Lampade e lavatrice a basso consumo: 100 euro risparmiati

Come fare per risparmiare e contemporaneamente migliorare le condizioni ambientali? A questa domanda rispondono gli esperti di Legambiente in collaborazione con MIUR - Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca – suggerendo delle piccole azioni quotidiane in grado, appunto, di rendere più accettabile la bolletta da pagare e l’aria che respiriamo. “L’Unione Europea con il Pacchetto Energia si impegna a ridurre le emissioni interne di CO2 entro il 2020 – spiega a Libero Teresa Borgonovo di Legambiente -. Con piccole azioni, vivendo con stile, ognuno può dare il proprio contributo”. Partiamo dalle lampadine. L’illuminazione domestica può incidere fino al 20% dei consumi casalinghi. Se però installiamo lampadine a basso consumo energetico – che peraltro durano 10 volte di più delle altre – le spese si riducono dell’80%. Un esempio. Se sostituiamo 5 lampadine da 100W tradizionali con altrettante a risparmio energetico da 20W, possiamo risparmiare 58 euro sulla bolletta e alleggerire il pianeta di 175 chilogrammi di anidride carbonica in un anno. Discorso analogo per ciò che riguarda l’utilizzo degli elettrodomestici, in particolare della lavatrice, che spesso ‘facciamo andare’ senza minimamente tenere conto delle sue numerose capacità di funzionamento. Supponiamo, per esempio, di compiere due cicli di lavatrici ogni sette giorni a 40°C invece che a 90°C: ebbene, il guadagno energetico sarebbe notevole. Si avrebbe infatti un risparmio di 42 euro netti ed eviteremmo di immettere nell’atmosfera 125 chilogrammi di CO2 all’anno. Sempre nel campo degli elettrodomestici Legambiente fa sapere che sarebbe anche utile sostituire i frigoriferi di classe C con quelli di classe A++. I primi consumano in un anno mediamente 500 kWh ed emettono circa 300 chilogrammi di anidride carbonica; i secondi consumano sì e no la metà. Seguendo dunque questo accorgimento ci ritroveremmo a spendere 75 euro in meno di bolletta ed eviteremmo di avvelenare ulteriormente l’aria con 188 chilogrammi di biossido di carbonio all’anno. Utile anche fissare correttamente la temperatura del frigo che non deve mai essere troppo bassa e chiudere bene lo sportello dell’elettrodomestico se non lo si usa. Attenzione, poi, alla lucina rossa – lo stand-by - della televisione, (ma anche dei pc). Non è vero che non consuma nulla. Se la si tiene spenta consente di risparmiare annualmente 26 euro. Peraltro si ha una riduzione delle emissioni di CO2 pari a 79 chilogrammi di gas. Altra raccomandazione è quella di non fare funzionare inutilmente il televisore, tenuto conto del fatto che, una tv da 14 pollici accesa per 4 ore al giorno, produce in 365 giorni 43 chilogrammi di biossido di carbonio. Importante per il nostro portafoglio e per l’ambiente è anche valutare attentamente come ci spostiamo per andare in giro, al lavoro, a fare la spesa. Percorrendo 10 chilometri in città - con un auto di media cilindrata - possiamo infatti arrivare a produrre 3 chilogrammi di anidride carbonica, non poco, che verrebbero però annullate se utilizziamo la bicicletta o comunque ridotte del 90% se prendiamo l’autobus. Altrettanto valida la proposta di optare per il “car-pooling”, cioè la condivisione dell’auto. Sempre in termini di trasporto è molto più conveniente (ancora una volta sia dal punto di vista economico che ambientale) prendere il treno anziché l’aereo. Lungo la tratta Milano-Roma, con l’aereo, per esempio, si producono 80 chili di CO2 per passeggero, che diventano 17 se si viaggia su strada ferrata. Ecco infine altri piccoli accorgimenti da seguire in casa per evitare inutili consumi energetici. Meglio fare la doccia del bagno. In questo modo infatti evitiamo di sprecare fino a 150 litri giornalieri di acqua. Durante la cottura dei cibi – se copriamo le pentole - possiamo risparmiare fino al 60-70% dell’energia per ogni pietanza. Infine col riciclaggio, bastano 800 grammi di carta separata in casa e avvitata alla raccolta differenziata per risparmiare 1 chilogrammo di anidride carbonica in atmosfera.

Mamma e nonna. A 56 anni partorisce tre gemelline

E così da oggi si potrà ufficialmente parlare anche di ‘madri surrogate’. È quanto emerge da una notizia diffusa ieri dai principali tabloid stranieri. Una donna di 56 anni – Jaci Dalenberg - ha infatti dato alla luce 3 nipotine, prestando il suo utero alla figlia con gravi problemi di infertilità: in questo modo risulta essere madre e nonna allo stesso tempo. Peraltro è la più anziana donna nella storia dell’uomo ad aver dato alla luce tre gemelli. La incredibile avventura di Kim Dalenberg, 36 anni, e del marito 30enne, Joe, inizia nel 2005, quando i due decidono di sposarsi. Con loro ci sono anche i due figli avuti da Kim da un precedente matrimonio. La coppia cerca di avere altri piccoli, ma un intervento di isterectomia subito dalla donna per asportare delle cisti ovariche non consente a Kim di rimanere incinta: l’isterectomia è l’intervento chirurgico mediante il quale viene asportato l’utero, definito totale quando porta alla rimozione dell’intero organo, subtotale quando si conserva la cervice uterina. Le provano tutte, compresa la strada dell’adozione, che però si risolve in niente. A questo punto – sono nel frattempo passati un paio d’anni – si fa avanti la mamma di Kim, la quale si propone per ‘ospitare’ nel proprio grembo un ipotetico figlio della giovane coppia. L’idea sembra assurda, ma prende forma definitivamente dopo una visita presso gli specialisti della Cleveland Clinic, Ohio. Gli studiosi, infatti, appurano che la madre di Kim è in perfetto stato di salute e che, nonostante l’età, potrebbe benissimo portare a termine una gravidanza. Alla signora Dalenberg vengono dunque impiantati nell’utero gli embrioni della coppia concepiti in vitro e dopo tre tentativi, la mamma-nonna, rimane finalmente incinta. È il 5 aprile del 2008. Tutto prosegue per il meglio quando, alla decima settimana di gravidanza, un’ecografia mette in evidenza ciò che nessuno si sarebbe mai aspettato: la donna aspetta tre gemelli. È una situazione che la medicina ufficiale non si è mai trovata ad affrontare, tuttavia altre settimane trascorrono tranquille, finché i medici non si accorgono che uno dei tre feti pare soffrire più degli altri: i fratellini, infatti, lo schiacciano e gli impediscono di nutrirsi regolarmente. Mancano ancora due mesi alla fine della gravidanza, ma non si può più aspettare: con un taglio cesareo l’11 ottobre nascono quindi le tre gemelline, Ellie, Gabriella e Carmina. Oggi, il trio rosa, sta bene, dopo le cure intensive ricevute all’ospedale prima di essere dimesse. “Alla loro nascita ero a dir poco estasiata – ha detto Jaci Dalenberg al Closer magazine -. Il momento più difficile è stato lasciarle sole in ospedale, quattro giorni dopo il parto. Ora però intendo fare solo la nonna. Non ci sono altre gravidanze in programma!”. Il grazie più grande arriva dalla figlia Kim che si esprime dicendo di aver “ricevuto il gesto più straordinario che una mamma possa fare per la propria figlia. Ovviamente – ha continuato - quando arriverà il momento, racconterò alle mie bambine il modo incredibile in cui sono venute al mondo, e quel che la loro nonna è stata in grado di fare per loro”. In tema di nascite straordinarie, non si può infine dimenticare quella recentemente avvenuta in India: il riferimento è a una donna di 70 anni che è diventata mamma di due gemelli, sempre grazie alla fecondazione in vitro. Voleva a tutti i costi un figlio maschio e il suo sogno è stato realizzato. In ogni caso, nonostante questi casi rari, gli esperti invitano alla prudenza: con le gravidanze in tarda età possono esserci molti rischi e complicazioni. Secondo una ricerca condotta da scienziati del Dipartimento di Ostetricia e Ginecologia dello Sheba Medical Center di Tel Hashomer, in Israele, le donne che decidono di avere un figlio quando hanno superato la soglia dei 50 presentano un rischio elevato di partorire prima del termine bimbi con un basso peso alla nascita e di avere complicazioni come ipertensione e diabete, che costringono a frequenti ricoveri ospedalieri.