domenica 31 ottobre 2010

LE ORIGINI DELLA NOTTE DI HALLOWEEN

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Ci siamo. La notte dei "brividi" è alle porte. In molti si sono già attrezzati, disponendo sul davanzale delle finestre, una o più zucche colorate, illuminate dalle candele, acquistando abiti da strega o da vampiro, prenotando cene in qualche chiesa sconsacrata o in un antico maniero abitato dai fantasmi. Che cosa succede? Semplicemente sta per iniziare la notte di Halloween, ricorrenza popolare che affonda le sue radici nella notte dei tempi e che in questi giorni hanno trattato un po’ tutti i media, soffermandosi anche su una curiosa classifica: quella dei cimiteri più cool d'Europa. Al primo posto c'è il cimitero americano di Coleville-sur-mere, in Francia. È il famoso cimitero dei caduti della seconda guerra mondiale, successivo allo sbarco in Normandia del 1944. Ospita le spoglie di 9.500 militari. Al secondo posto, ancora in Francia, c'è il camposanto di Peré-Lachaise, a Parigi. È notissimo per via dei numerosi personaggi illustri che ospita, fra cui lo scrittore Oscar Wilde, il cantante Jim Morrison e la cantante Edith Piaf. Il terzo posto è del cimitero centrale di Vienna. Colpisce per la sua grandezza e per l'eccezionale numero di musicisti che ospita: da Ludwig van Beethoven a Franz Shubert, passando per Johannes Brahms e Johan Strauss. Al quarto posto abbiamo un cimitero italiano; il riferimento è alle catacombe romane risalenti al secondo secolo a.C., ricavate da antichi sepolcri etruschi. A seguire ci sono il cimitero di Highgate (Londra), che accoglie le spoglie di Karl Marx; quello di Leipsig (Germania), un vero e proprio parco caratterizzato dalla presenza di almeno 10mila varietà di rododendro; il camposanto di Montparnasse (Parigi), con le tombe di Charles Baudelaire e di Jean Paul Sartre. Infine nella classifica dei cimiteri più visitati, spiccano il camposanto di Staglieno a Genova, l'antico cimitero ebraico di Praga, e il cimitero protestante di Roma (con le tombe di Percy Bysshe Shelley e John Keats). Ma cosa c'entrano i cimiteri con la notte di Halloween?

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Cimitero di Pere Lachaise
Formalmente nulla. Ma in pratica - siccome la notte di Halloween evoca il "ritorno" in vita dei morti - è come se dai cimiteri ogni salma uscisse dal proprio sarcofago, per prendere un po’ d'aria e far visita ai propri discendenti. Cos'è la notte di Halloween? Si tratta di una festività risalente al periodo precristiano, celebrata in corrispondenza del 31 ottobre. Fino a pochi anni fa era festeggiata soprattutto negli USA e in Canada, ma ultimamente sta avendo una grossa risonanza anche dalle nostre parti. In America, già dagli anni Venti, ci sono aziende che producono gadget e oggettistica varia aventi come riferimento la notte del 31 ottobre. Al suono di frasi del tipo "dolcetto o scherzetto?", i più giovani soprattutto, girano di casa in casa per spaventare più persone possibili e divertirsi in modo inusuale, con un pizzico di magia in più. Tredici il numero perfetto di porte a cui bussare, per portare regolarmente a termine il proprio compito; curiosamente una cifra che i numerologi associano facilmente al cristianesimo, assolutamente contrario alla notte di Halloween. Dodici erano gli apostoli di Gesù, che diventano tredici contando anche la Maddalena. Le apparizioni di Fatima si presentano ai pastorelli dal 13 maggio al 13 ottobre 1917. Giovanni Paolo II viene colpito dal proiettile di Alì Agca il 13 maggio 1981. Difficile dire l'origine esatta della festa popolare, benché gli storici siano tutti concordi nell'affermare che sia molto antica e che abbia a che vedere con l'arcaica suddivisione dell'anno in due parti, in base alla transumanza del bestiame, ovvero al periodo in cui gli animali venivano messi al riparo per fronteggiare i rigori invernali. 

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In Europa la festa di Halloween è riconducibile ai Celti, che festeggiavano la fine dell'estate con il Capodanno "Samhain", a cavallo fra il mese di ottobre e novembre. "Samhain" era chiamato anche Trinox Samonia, ossia "Tre Notti di Fine Estate", quando i festeggiamenti si protraevano per tre giorni di fila. La festa era presieduta soprattutto dai druidi, i sacerdoti dell'epoca, convinti che durante la "notte magica" le leggi fisiche che regolano lo spazio e il tempo, cessavano di esistere. Costoro passavano di casa in casa per riavviare i fuochi e in questo modo garantire alle famiglie salute e prosperità. Gli uomini comuni, invece, percorrevano i confini delle fattorie impugnando delle torce con le quali tenevano a bada le fate e gli spiriti maligni. L'idea del fuoco è oggi tenuta viva da usanze peculiari, come quella delle zucche che brillano alla luce delle candele. In realtà quest'usanza statunitense, potrebbe essere di origine europea. E sarebbe riconducibile ai fantocci rappresentanti perlopiù streghe, recanti con sé rape vuote illuminate: tracce di usi e costumi di questo tipo sono presenti nella cultura ligure, friulana, piemontese ed emiliana. Probabilmente la ricorrenza di Halloween prende definitivamente piede in USA, in seguito all'arrivo nel 1840 di numerosi emigranti irlandesi, che fuggivano dalla carestia di patate che aveva colpito i loro villaggi. 

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Dunque la zucca di Halloween potrebbe anche essere il risultato di una leggenda irlandese inerente un uomo di nome Jack (da cui Jack-o-lantern) che ingannò il Male sfidandolo a scalare un albero, sulla cui corteccia aveva inciso una croce. Ovunque si festeggiasse Halloween, le tavole venivano riempite di leccornie, poiché si credeva che i defunti - nel loro peregrinare - avessero bisogno di rifocillarsi. I Celti non temevano i morti, anzi, li riverivano e rispettavano. In seguito, la festività viene adottata anche dai Romani, che la assimilano alla celebrazione di Pomona, in occasione della festa del raccolto. Ma col cristianesimo le feste pagane subiscono un duro attacco: i papi fanno di tutto per farle cadere nel dimenticatoio. Ma senza successo. Il periodo di Halloween, infatti, ancora oggi, coincide la festa di Tutti i Santi, istituita da papa Bonifacio IV e coincidente precisamente con la notte dei fantasmi dal 1048, in seguito alle direttive impartite da Sant'Odilone di Cluny. Anche adesso la chiesa osteggia questo tipo di festività. "Le zucche sono buone per farci i tortelli", diceva il compianto vescovo Alessandro Maggiolini. Mentre il cardinale Martini afferma che "questo tipo di feste è estraneo alla nostra tradizione, a valori immensi come il culto dei defunti che apre la speranza all'eternità". Ma tant'è. "I mostri sepolti si svegliano, i licantropi ululano, le streghe inforcano le scope, e sfrecciano nel cielo… e intanto dalle foreste di querce usciranno gli gnomi e dal ventre della terra scaturiranno i demoni abissali". Buon Halloween a tutti!

lunedì 25 ottobre 2010

SOGNI ANATOMICI


L'ultimo film con Leonardo Di Caprio - "Inception" - sta ottenendo un grande successo. Almeno sotto il profilo critico: in molti hanno addirittura scomodato giganti come Resnais e Kubrick. Comunque sia il lavoro di Christopher Nolan - regista quarantenne di origine inglese - è senza dubbio accattivante, affascinante, misterioso. Ma non è un caso. Tratta, infatti, uno dei temi più curiosi ed enigmatici della psicologia umana: il sogno. E proprio di sogni vorremmo parlare in quest'occasione, all'indomani dell'importante scoperta effettuata da scienziati italiani dell'Istituto scientifico per la riabilitazione neuromotoria "Santa Lucia", in collaborazione con i ricercatori di Roma, L'Aquila e Bologna. Gli esperti hanno individuato le aree anatomiche da cui prendono vita i sogni, e i meccanismi che determinano la loro "intensità emotiva". Due le aree esaminate: ippocampo e amigdala. Sono due aree estremamente sensibili, quasi sempre prese in considerazione quando si tratta di parlare del funzionamento del cervello umano. Non per niente presiedono a importantissime funzioni. L'ippocampo rappresenta la zona mediale del lobo temporale. Ha una forma curva e convoluta, tanto da rimandare la sua fisionomia a quella del cavalluccio marino (da cui deriva il nome). È fondamentale per la memoria a lungo termine e per la "navigazione spaziale". Ed è infatti la prima area cerebrale ad andare in panne quando subentrano malattie come l'Alzheimer o altre patologie neurodegenerative. L'amigdala può invece essere considerata un gruppo di strutture interconnesse di sostanza grigia, riconducibile a una parte del cosiddetto sistema limbico, posizionata al di sopra del tronco cerebrale, anteriormente rispetto all'ippocampo. Il suo ruolo è determinante per le funzioni emozionali. L'intensità delle nostre emozioni dipende, infatti, quasi unicamente dall'amigdala. Questa parte di cervello è per esempio legata al disturbo di attacchi di panico, ed è quindi direttamente interconnessa alle sensazioni di paura intensa. Gli otto milioni di italiani malati di DAP vanno in tilt dopo un input ansiogeno, proprio perché l'amigdala si attiva in eccesso per via del canale ionico-1a (ASIC1a). Sicché gli esperti italiani hanno indagato con la risonanza magnetica (per due settimane) le fisiologie cerebrali di 34 persone di età compresa fra i 20 e i 70 anni, giungendo a risultati sorprendenti. I ricercatori hanno, infatti, evidenziato che le dimensioni e la morfologia di ippocampo e amigdala influenzano notevolmente la natura dei sogni, le stranezze oniriche e le loro bizzarrie. Sono decisamente più vividi, emozionanti e talvolta terribilmente angustianti, quando si ha l'amigdala più destrutturata e l'ippocampo di dimensioni maggiori rispetto alla norma. Anche Freud aveva affrontato l'argomento, poco convinto del fatto che emotività, attività onirica, e paura, dipendessero strettamente dall'anatomia cerebrale. Naturalmente il genio di Freiberg non aveva a disposizione le apparecchiature odierne, pertanto le sue rimasero solo delle mere ipotesi sui cui oggi si sta facendo luce. "Tutto è iniziato due anni fa quando ci siamo chiesti se aspetti microstrutturali della nostra anatomia cerebrale possono spiegare perché alcuni di noi non ricordano affatto i sogni, mentre altri ne conservano il ricordo in modo dettagliato", spiega Luigi De Gennaro, responsabile della ricerca. "Allo stesso modo, tra coloro che ricordano regolarmente i sogni, alcuni li raccontano con estrema incongruenza e bizzarria, altri riportano solo poche scene povere di particolari". Il mistero dei sogni è stato ripreso poco tempo fa anche dallo psicologo Darren Lipnicki, del Centro di Medicina Spaziale di Berlino. Lo scienziato ha scardinato il luogo comune che vuole i sogni più bizzarri (compresi gli incubi) figli di traumi non risolti, abbandoni infantili e problemi psicologici di varia natura. Secondo il ricercatore, infatti, il classico "brutto sogno" dipenderebbe dalle onde magnetiche. A questi risultati Lipnicki è giunto dopo aver analizzato i propri sogni pazientemente per sette anni di fila e aver contemporaneamente valutato l'attività geomagnetica locale. Lo studio è durato, dunque, dal 1990 al 1997, per un totale di 2.387 sogni. Cinque le categorie maturate sulla base dell'assurdità del sogno: "Tra i più strani", dice Lipnicki, "c'è per esempio quello di trovarmi in riva al mare con una scimmia parlante. Difficile pensare a un legame preciso tra un sogno del genere e un'esperienza passata". Prima d'ora s'era messo in luce che, in effetti, alcune molecole prodotte dal cervello incrementano il loro numero in determinate condizioni influenzate dal magnetismo. Con ciò lo studioso tedesco ha evidenziato che è soprattutto la melatonina la prima a sballare, provocando sogni impossibili, surreali, e spaventevoli. Ma cosa c'è di vero in tutto ciò? Molti scienziati storcono il naso, sostenendo che la tesi del tedesco è affascinante, molto soggettiva, ma poco verosimile. Certamente le onde elettromagnetiche interagiscono in qualche modo col corpo umano, ma non abbastanza per sceneggiare la messa in onda di un nuovo sogno. D'altronde le onde elettromagnetiche sono costantemente sotto osservazione, poiché non si è ancora capito se facciano davvero male o meno alla salute. Per altri ricercatori, invece, la qualità dei sogni è determinata da stimoli esterni, da patologie degli organi o addirittura dalla posizione che assumiamo durante il sonno. Se una persona ha per esempio mal di stomaco o problemi gastrici, il contenuto dei sogni potrebbe riguardare il cibo. Chi soffre di malattie respiratorie o cardiache fa spesso sogni angosciosi. Sognare di volare potrebbe essere prodotto dal sollevarsi e l'abbassarsi dei lobi polmonari; se ci vediamo nudi in mezzo alla gente potrebbe essere semplicemente dovuto al fatto che, senza accorgerci, le coperte sono scivolate ai piedi del letto scoprendoci. Secondo il neuropsichiatra Philipe Auguste Tissié l'organo colpito da una certa malattia o da un disturbo è in grado, dunque, di caratterizzare la natura dell'evento onirico. Dello stesso parere David Krauss che definisce "transustanziazione" il processo attraverso il quale le immagini oniriche sorgono sulla base degli stimoli fisici. Secondo alcuni antropologi, infine, il sogno ha costituito la base per la credenza dell'anima: quest'ultima, nel sonno, si staccherebbe, infatti, dal corpo per vagare nel mondo. Il sogno sarebbe dunque la rappresentazione di questo viaggio improvviso e "magico", e le immagini assurde e surreali la prova che si è fatta visita a mondi "impossibili" e lontani. È da questa considerazione che ci giunge alla bella storiella su un vecchio saggio cinese: "Chuang Tzu sognò di essere una farfalla e al risveglio non sapeva se fosse un uomo che aveva sognato di essere farfalla, o una farfalla che, invece, in quel momento stava sognando di essere Chuang Tzu".

lunedì 18 ottobre 2010

Sesso, suffumigi, origano. Ecco come si tengono a bada i virus influenzali

Incombe l'autunno e con esso il timore di essere colpiti dall'influenza. Per il momento non ci sono i presupposti allarmistici dell'anno scorso, in seguito al dilagare del famigerato virus H1N1, tuttavia anche quest'anno c'è chi vorrebbe proprio evitare di ritrovarsi a letto con febbre, tosse e raffreddore. Per questo motivo è già cominciata la rincorsa ai vaccini, che dovrebbero tenere a bada la cosiddetta Australiana. I medici dicono che i primi casi d'influenza si registreranno dai primi di novembre e che complessivamente il virus costringerà sotto le coperte dai due ai cinque milioni di italiani. Il picco, guarda caso (succede sempre così), è previsto per le vacanze di Natale. Con l'influenza classica ci saranno anche le "sindromi cugine", malattie simil-influenzali che porteranno a 13 milioni il numero totale di italiani contagiati. Della nuova ondata influenzale ne danno notizia Claudio Cricelli, presidente della Società italiana di Medicina generale e Fabrizio Pregliasco, noto virologo milanese. "Il virus proveniente dall'Australia non dovrebbe comunque causare danni consistenti", commenta Pregliasco. I sintomi dell'influenza 2010-2011? Analoghi alle altre classiche manifestazioni influenzali. Ci saranno, infatti, anche in questo caso, febbre alta, superiore ai 38°C, tosse, difficoltà respiratorie. Ma è sempre necessario vaccinarsi? I medici dicono di sì, nonostante la titubanza dell'opinione pubblica convinta che i vaccini siano solo un buon pretesto per arricchire le case farmaceutiche. Questa idea è favorita da alcuni studi. La rivista The Lancet, per esempio, ha messo in relazione il vaccino trivalente contro morbillo, parotite e rosolia con un'infezione intestinale sconosciuta che innescherebbe forme di autismo. Mentre un lavoro pubblicato sul New England Medical Journal suggerisce che proponendo la vaccinazione antinfluenzale a tutti i bambini italiani ci si può aspettare almeno 10-15 casi di sindrome di Guillaine-Barré (poliradicolonevrite): è una malattia che coinvolge le radici dei nervi, e può essere acuta e cronica. Ma la maggiore parte dei medici - come ricordiamo bene dall'anno scorso - sprona a vaccinarsi e a non badare a certe notizie allarmistiche che potrebbero compromettere la salute di molte persone: ogni anno per la classica influenza muoiono solo in Italia almeno 8mila persone e probabilmente sarebbero molte di più se tutti decidessero di non vaccinarsi. Gli esperti dell'ISS (Centro Nazionale di Epidemiologia, Sorveglianza e Promozione della Salute e Dipartimento di Biologia Cellulare e Neuroscienza) dicono chiaramente che il legame fra vaccini (contenenti mercurio?) e malattie come l'autismo è del tutto inconsistente. E che quindi è giusto continuare a vaccinarsi. Daniel Jacques Cristelli, presidente del Gruppo vaccini di Farmindustria (che MW ha intervistato questa settimana) rinforza la tesi dell'ISS, dicendo chiaramente che i vaccini "sono prodotti biologici studiati e messi a punto, dopo anni di ricerche e studi, per mantenerci sani". Ma alcuni dati sorprendono. Dal sito del medico chirurgo e fitoterapeuta Francesco Perugini Billi, scopriamo che nell'inverno 2004-2005 in Italia vengono vaccinate 6-7 milioni di persone: il preparato dovrebbe preservare dal virus influenzale il 70-80% dei consumatori, ma i risultati sono ben al di sotto delle aspettative. Nel 2003-2004 accade qualcosa di simile in USA, dove la copertura è solo del 14%. E c'è chi sostiene che i morti per influenza vengano "gonfiati" per rendere più plausibile il ricorso alla vaccinazione: in USA si parlò, un anno, di 36mila morti, ma il dato per altre fonti non era superiore a 753. Comunque sia c'è chi - al di là dei pareri dei medici e della stampa - non si è mai vaccinato e mai si vaccinerà, ricorrendo in alternativa ai cosiddetti "rimedi della nonna". A tal proposito ci illumina una ricerca condotta in questi giorni a Hong Kong. Dei ricercatori hanno evidenziato che il ricorso ai vaccini nel mondo è tutt'altro che standardizzato. Ci sono paesi convinti dell'importanza di vaccinarsi e altri molto meno. Al primo posto c'è il Canada, dove si vaccina il 93% della popolazione; all'ultimo la Nigeria, dove i vaccinati rappresentano appena il 31% degli abitanti. Ma chi non si vaccina come tiene a bada i rischi influenzali? Gli esperti dell'Hong Kong Polytechnic University hanno messo in luce che in ogni paese esistono pratiche mediche del tutto peculiari, riferibili perlopiù alla medicina tradizionale e pertanto poco considerate dalla sanità pubblica. In effetti, alcuni rimedi farebbero storcere il naso a chiunque. In Canada si compiono grandi abbuffate di aglio. In Grecia si mangia formaggio, yogurt e miele. Gli anziani in Turchia, Brasile e Nigeria bevono infusi a base di limone caldo e altre rutacee. L'uso delle pere cotte "vaporizzate" è appannaggio dei coreani del Sud. Mentre in Indonesia si pratica il "kerokan": si chiede a qualcuno di sfregare sulla nostra schiena una moneta, così da liberare particolari energie contenute nel nostro corpo che aiutano la circolazione, l'attività del sistema immunitario e a guarire le ferite. Ma senza andare tanto lontani anche in Italia sono vive certe pratiche tradizionali finalizzate a contrastare le malattie "del freddo". I nostri nonni, dunque, ci consigliano per esempio di combattere i primi sintomi influenzali con il vino cotto, al quale va aggiunto un pizzico di zucchero e uno di cannella. Per i più giovani si può utilizzare al posto del vino, latte o acqua e lo zucchero può essere sostituito dal miele. Gli alcolici favoriscono la traspirazione e la dispersione di calore; dolcificanti come il miele contengono principi attivi molto utili contro le infezioni. Questi preparati andrebbero assunti prima di andare a letto. Per chi ha problemi respiratori l'indicazione doc è il miele di eucalipto, associato a spicchi di mandarino; la sinusite si combatte con il mirto, la tracheite con l'origano. Sempre utili i suffumigi, per decongestionare le mucose nasali. Si respirano a fondo i vapori di una pentola contenente acqua bollente ed essenze vegetali balsamiche. Infine per la convalescenza è consigliato mangiare pomodori crudi molto maturi o berne il succo: questo ortaggio, infatti, è ricco di vitamina A (retinolo) e contiene discrete quantità di vitamine B1, B2 e C. Anche il sesso aiuta a tenere lontana l'influenza. È il succo di una ricerca condotta da scienziati della Wilkes University australiana. Gli esperti hanno analizzato i livelli di immunoglobulina A (IgA) di 100 studenti di vent'anni: l'immunoglobulina A rappresenta la prima barriera difensiva dagli attacchi di influenza e raffreddore ed è misurabile prelevando un campione di saliva. È stato chiesto ai ragazzi quante volte avessero fatto sesso nell'ultimo mese. Risultato: nei giovani che avevano fatto l'amore 2-3 volte in 30 giorni, il livello di questa sostanza era del 30% superiore a tutti gli altri che si erano astenuti dall'attività sessuale. Risultati analoghi sono stati ottenuti dai professori della London Endocrine Clinic. In questo caso è emerso che far sesso una o due volte alla settimana stimola la produzione di anticorpi in grado di proteggerci dai principali virus invernali.

sabato 16 ottobre 2010

I segreti della dendrocronologia

Studio dendrocronologico
Intervista a Maria Ivana Pezzo del Laboratorio di dendrocronologia del Museo Civico di Rovereto

La dendrocronologia è una scienza recente che studia gli anelli degli alberi, il cui accrescimento è condizionato da molti fattori fra cui il clima. A quando risalgono le prime applicazioni?
Sin dall'antichità si trovano riferimenti agli accrescimenti delle piante influenzati dal clima e dalle stagioni. Teofrasto (autore del IV secolo a.C.) fa riferimento, per esempio, alla crescita anulare dell'olivo. Solo con Leonardo da Vinci (1452-1519), però, si arriva a parlare chiaramente di accrescimenti anulari annuali. La dendrocronologia come scienza vera e propria nasce, invece, con gli studi dell'astronomo americano Andrew Ellicott Douglass (1867-1962). Grazie alle sue osservazioni si arriva a sviluppare un metodo di datazione che - a partire dal 1929 - permette di conferire un'età alle travi preistoriche di costruzioni indo-americane nel New Mexico (USA). Il primo laboratorio europeo di ricerche dendrocronologiche nasce a Monaco di Baviera alla fine degli anni Trenta.
Quando e perché si preferisce la dendrocronologia ad altri metodi di datazione?
La dendrocronologia è il sistema di datazione più preciso in assoluto, applicabile però solamente a materiale ligneo. In condizioni ottimali, quando sono presenti sia il midollo che l'ultimo anello, l'analisi dendrocronologica è in grado di determinare l'anno di nascita e l'ultimo di accrescimento della pianta (che è quello che interessa agli archeologi per la datazione) da cui si è ricavato il legno utilizzato per il manufatto. La precisione è talmente elevata che è anche possibile arrivare a determinare la stagione di taglio dell'albero.
Cosa sono le “curve dendrocronologiche”?
Rappresentano lo strumento fondamentale per poter datare correttamente un reperto. Si parte misurando l'ampiezza degli anelli di vari campioni prelevati da alberi viventi di una certa longevità; da qui si ricava la cosiddetta “curva dendrocronologica”. In seguito, la sovrapposizione di più curve dendrocronologiche, consente l'ottenimento di una cronologia continua detta master chronology (o cronologia standard). Una curva dendrocronologica di 1000 o 1500 anni riguardante una regione può richiedere un lavoro di ricerca di diversi anni ed è legata alla reperibilità di un numero sufficiente di tronchi o di travi che, dall'epoca presente, risalga a periodi sempre più antichi. Datare un campione ligneo significa confrontare la sua sequenza anulare con un'appropriata cronologia di riferimento.
Fino a che età si può arrivare? S'è sentito parlare di querce di 10mila anni...
Nel corso di vari decenni si sono costruite curve dendrocronologiche che, per quanto riguarda l'area europea, raggiungono considerevoli estensioni. Una curva per la quercia in grado di coprire un arco temporale di 11mila anni è stata fatta per la Germania occidentale e un'altra, sempre per la quercia, di quasi 9mila anni per l'Irlanda. Altre curve plurisecolari esistono per l'Europa per le seguenti specie arboree: abete bianco, abete rosso, larice, pino cembro e faggio.
Oltre alla stima delle età, a cosa può servire la dendrocronologia?
La pianta si comporta come una “scatola nera” che registra le condizioni esterne e ci permette di ricostruire eventi accaduti anche in tempi molto remoti e di cui si è persa la memoria. Per tale motivo la dendrocronologia non si limita alla sola datazione in ambito archeologico, in architettura e per i beni artistici, ma viene utilizzata anche nelle indagini climatiche per mezzo della dendroclimatologia che studia l'influenza sull'accrescimento della pianta di vento, pioggia, siccità, temperatura, grandine, gelate, nevicate. È utile inoltre nell'indagine di eventi traumatici quali gli incendi, l'attività vulcanica, i terremoti, le alluvioni, le frane, le valanghe, le malattie dovute al parassitismo di insetti, funghi o altre piante. Di grande attualità è lo studio dell'impatto sull'ambiente dovuto alle attività umane. L'insieme di tali ambiti è chiamato dendroecologia.
La tecnica può anche aiutare a capire come si sono modificate nel tempo le distese glaciali?
Una branca della dendrocronologia è la dendroglaciologia che si occupa dello studio dei movimenti dei ghiacciai a partire dall'analisi degli accrescimenti delle piante. Quando un ghiacciaio avanza può seppellire e uccidere le piante che incontra oppure, se le tocca in modo non letale, ne modifica lo sviluppo del legno; gli alberi perciò “registrano” l'anno in cui è avvenuto il contatto coi ghiacci. Anche il ritiro della lingua glaciale, così come il limite massimo di avanzamento della stessa, possono essere “memorizzati” dagli anelli di accrescimento delle piante e, in collaborazione con le altre discipline dendroecologiche, ci possono fornire una mappa spaziale e temporale precisa dell'andamento climatico e dei sui effetti sull'ambiente in prossimità delle nevi perenni.
In che modo è possibile stimare l'andamento climatico, in base allo studio degli anelli degli alberi?
Nelle regioni a clima fresco e temperato gli alberi producono un anello di legno nuovo ogni anno e la crescita arborea è più rapida in primavera che in estate o in autunno e cessa durante l'inverno. A una primavera/estate umida corrisponde un anello particolarmente ampio e a un periodo vegetativo segnato da un clima secco corrisponde un anello stretto. Confrontando le serie degli anelli di alberi cresciuti in epoche differenti è possibile ricostruire l'andamento del clima su intervalli di tempo molto superiori alla vita del singolo albero. Il confronto tra i dati dendrocronologici ricavati da diversi siti ha permesso agli studiosi di conoscere l'andamento climatico su vaste regioni terrestri per tutto il periodo che va dal termine dell'ultima glaciazione (circa 10mila anni fa) a oggi.
Come la dendrocronologia permette di correggere gli errori legati alle misurazioni effettuate col metodo del Carbonio 14?
Il metodo del Carbonio 14 in origine si basava sull'assunto che la concentrazione in atmosfera di questo isotopo fosse rimasta la stessa nel corso del tempo. In realtà si scoprì già negli anni Sessanta che ciò non era vero e che la quantità di carbonio radioattivo varia in relazione all'influenza di vari fenomeni, di cui i più importanti sono l'attività solare, quella vulcanica e la forza geomagnetica, portando a datazioni errate a volte molto lontane dalla realtà. Grazie alla dendrocronologia è stato dunque possibile calibrare, ossia correggere, le imprecisioni delle datazioni al radiocarbonio, poiché ogni anello di un albero conserva traccia del tenore di C14 presente nell'atmosfera nell'anno in cui si è formato.
Nel caso del vascello di Ground Zero, quando sarà possibile risalire all'età esatta del reperto?
Il vascello potrà essere datato solo dopo un'accurata raccolta di campioni del legno dello scafo che saranno sottoposti all'analisi dendrocronologica. I tempi potrebbero essere relativamente brevi ma dipendono dalle priorità di chi farà lo studio. Per creare delle sequenze cronologiche attendibili è necessario esaminare e confrontare molti campioni. Se saranno misurati legni caratterizzati dall'ultimo anello di accrescimento della pianta, allora sarà possibile arrivare a una datazione estremamente precisa degli anni in cui gli alberi vennero abbattuti per la costruzione dell'imbarcazione.
Si sono avuti anche in Italia ritrovamenti analoghi, su cui poi s'è potuto far luce con la dendrocronologia?
Anche in Italia si sono avuti ritrovamenti importanti paragonabili a quello di New York, uno su tutti il ritrovamento nel 1980 di una nave d'epoca romana di 21 metri, la Fortuna Maris, rinvenuta nei pressi di Comacchio (FE), risalente alla seconda metà del I secolo a.C.

giovedì 14 ottobre 2010

IL VASCELLO DI GROUND ZERO

I resti del vascello scoperti a Ground Zero
«Una scoperta sensazionale». Così è stato salutato dagli archeologi il rinvenimento del relitto di una imbarcazione risalente a più di duecento anni fa, sotto Ground Zero, a New York. L'identificazione della nave è avvenuta a una decina di metri di profondità dal manto stradale, nel punto in cui, fino a nove anni fa, svettava lo skyline delle Twin Towers. In questo angolo della città fervono i lavori; se tutto andrà come previsto, infatti, entro il 2015 sorgerà il nuovo World Trade Center (WTC), affidato all'architetto polacco- americano Daniel Libeskind e al suo Master Plan for the New World Trade Center: l'edificio principale sarà la Freedom Tower, un grattacielo di 1776 piedi (541 metri). Alcuni operai stavano scavando fra Liberty e Cedar Street (vie che, durante l'edificazione del WTC, negli anni Sessanta, erano state solo sfiorate), quando, all'improvviso, si sono imbattuti in una lunga e regolare fila di assi di legno, rialzata nella parte posteriore, circondata da gusci di ostriche e altri molluschi. La loro azione è stata bloccata immediatamente. Sul posto sono intervenuti gli esperti AKRF - ingaggiati appositamente per curare i ritrovamenti effettuati durante i lavori per la realizzazione del nuovo quartiere – che non hanno fatto fatica a confermare la natura del ritrovamento: un vascello vecchio almeno di duecento anni, utilizzato, molto probabilmente, per trasportare materiale di riporto, per allargare la parte sud di Manhattan, strappando terra alle foci dei fiumi. «In questo punto della città, nel 1790, si lavorava per rubare terreno al fiume Hudson, e ampliare la zona sud della Grande Mela», spiega l'archeologa Elizabeth Meade, del Cedar Crest College. Adesso, dunque, la parola passa ai laboratori, che potranno stimare con assoluta certezza l’arcaicità del prezioso reperto: «Sottoporremo i resti della nave all'analisi dendrocronologica», dice Molly McDonald, fra i responsabili della AKRF. «Con questa tecnica, basata sulla decifrazione degli anelli dei tronchi degli alberi, faremo luce sull'età esatta del ritrovamento». Una giornata uggiosa ha fatto da cornice alla scoperta archeologica e si è rivelata provvidenziale. «Se ci fosse stato il sole, infatti, il vascello si sarebbe “squagliato” per via del calore», racconta Doug Mackey, soprintendente archeologo della New York Historical Society. Nei pressi del relitto è stata individuata anche un'ancora, di una cinquantina di chilogrammi, che però non è ancora stata studiata nei dettagli, per capire se sia riconducibile o meno al vascello dimenticato. Gli esperti stanno ora ripulendo con grande cura il relitto, prima di trasportarlo in un luogo più sicuro, dove potrà essere messo a disposizione dei cittadini e dei turisti: «È una parte della nostra storia», dice Alan Gumeny, uomo d'affari newyorkese, «e credo che sia qualcosa da custodire e mettere in un museo». Era da tempo che a New York non si assisteva a una scoperta di questa portata. Nel 1916 fu lo storico dilettante James Kelley che - lavorando allo scavo per il tunnel della metropolitana Interborough Rapid Transit, all'angolo fra la Greenwich e la Dey Street - si imbatté in alcuni frammenti di legno carbonizzati: erano i resti di una nave risalente al Seicento, oggi conservati nella Marine Gallery, presso il Museum of the City of New York. L'ultimo ritrovamento di questo tipo risale, invece, al 1982, quando, dalle parti di Water Street, rivide la luce un mercantile del Settecento. Ma la storia della Grande Mela è ben più antica e per ricostruirla correttamente è necessario fare un salto di circa 13mila anni.

Archeologi dell'AKRF al lavoro
Siamo sul finire del Pleistocene. La grande glaciazione wurmiana – iniziata oltre 100mila anni fa - è quasi la termine. Molte specie animali che hanno prosperato per millenni – mammut (Mammuthus primigenius), orso delle caverne (Ursus spelaeus), tigre dai denti di sciabola (Smilodon fatalis) - scompaiono per sempre dalla faccia della Terra. L’Homo sapiens sapiens per la prima volta mette piede nel continente americano, grazie a un ponte di terra che congiunge le propaggini dell’estremo oriente, all’Alaska, in prossimità dello Stretto di Bering. L'impresa è facilitata dal fatto che il livello marino è molto più basso di quello odierno. Con i primi uomini raggiungono le Americhe anche molti animali fra cui il leone americano (Pantera atrox) e il ghepardo americano (Miracinonyx trumani). I primi indiani discendono, dunque, da uno sparuto numero di impavidi siberiani – da cui si sono separati geneticamente circa 20mila anni fa - che puntarono a est in cerca di nuove terre da conquistare per il proprio sostentamento. Fra questi ci sono anche gli originali abitatori di New York, i Lenape, chiamati dagli europei Delaware, che si stabiliscono nella zona del basso corso del fiume Hudson, sfruttando Manhattan come territorio dove coltivare, cacciare, pescare e seppellire i propri morti. Per molti millenni vivono pacificamente, contribuendo (indirettamente?) alla nascita della cosiddetta cultura di Clovis, la più importante dell’America del Nord, e alla cultura riconducibile al Big Eddy Site, un sito del Missouri sud- occidentale, dove sono stati ritrovati numerosi manufatti risalenti a oltre 12mila anni fa. All'arrivo degli europei, sono rappresentati da una popolazione di circa 15mila persone, suddivise in un'ottantina d'insediamenti. Il primo incontro con gli occidentali è del 1524. Tocca all''italiano Giovanni da Verrazzano – nobile fiorentino - familiarizzare con i primi newyorkesi e battezzare la Baia di New York, "Nuova Angouleme", in onore del re di Francia Francesco I. Poco dopo è la volta dell'inglese Henry Hudson che - al soldo della Compagnia Olandese delle Indie Occidentali - per primo "fotografa" la vera realtà newyorkese: scopre, in particolare, Manhattan, delimitata dal corso di tre fiumi, l'East River, l'Hudson River, e l'Harlem River. «Questa terra è talmente splendida che c'è da augurarsi di potervi posare il piede definitivamente», scrive sul suo diario Hudson, reclamandone il possesso per conto della Compagnia Olandese delle Indie Orientali. All'inizio il vero nome di Manhattan è "Mannahatta" (ovvero "l'isola"): il poeta americano Walt Whitman andrà avanti a chiamarla così per tutta la sua esistenza, anche se il nome cadrà presto in disuso. È a quest'epoca che si rifà, dunque, il cosiddetto Manhatta Project, ideato da Eric Sanderson, ecologo della Wildlife Coservation, nel 1999, con lo scopo di ricostruire tridimensionalmente il territorio su cui sorge Manhattan, prima del predominio straniero: è una terra eccezionalmente ricca di flora e di fauna, disegnata dal sinuoso incedere di numerosi torrenti, per un totale di circa cento chilometri di alvei fluviali. La vegetazione è rappresentata soprattutto da castagni, querce, noci. Fra gli animali spiccano cervi, orsi, tacchini selvatici. Anche le spiagge newyorchesi pullulano di vita: si ritrovano, infatti, molti tipi di molluschi e crostacei. A Times Square c'era una specie di stagno circondato dagli aceri; l'incrocio fra la Seventh Avenue e Broadway era, invece, un'oasi verde attraversata da due torrenti, formanti uno specchio lacustre dove vivevano castori, anguille, lucci: «Con questo studio ho voluto dimostrare quanto fosse affascinante il paesaggio originale di New York con la sua natura incontaminata», dice Sanderson. Con gli europei, però, cambia tutto rapidamente. Il primo insediamento proveniente dal Vecchio Mondo risale al 1613. Il comando della regione è affidato a uno stuolo di facinorosi olandesi. La prima mappa di Mahnattan risale al 1614: è la famosa Figurative Map, elaborata da Adriaen Block, al comando dello storico veliero Tijer: il fiume Hudson si chiama ancora Noorth River.

Grafico raffigurante l'insediamento olandese del 1670
Nel 1625 entra in azione il politico olandese Peter Minuit – figlio di immigranti valloni - che acquista ufficialmente Manhattan dagli indiani - coi quali ha instaurato un rapporto basato sul commercio di pellicce - per l'incredibile cifra di 60 fiorini, circa 24 dollari. Inizia così la vita di Nieuw Amsterdam. Un acquerello del 1650 rende bene l'idea di ciò che doveva essere New York a quei tempi: si vedono costruzioni con tetti a falde spioventi, un mulino a vento, una gru, una taverna utilizzata anche come sede municipale, e varie navi ancorate a un porticciolo sgangherato. Sono, però, scarse le tracce risalenti a quest'epoca. Le più significative sono state rinvenute negli ultimi quarant'anni. Nel 1979 scavando presso un nuovo edificio al numero 85 di Broad Street - poco distante dallo Stock Exchange (la più grande borsa valori del mondo) - si recuperano i resti della Lovelaces Tavern, risalente alla fine del Seicento; nel 1984, invece, durante i lavori per la Broad Financial Plaza, all'angolo di Whitehall Street e di Pearl Street, vengono scoperte parti di un magazzino seicentesco, con numerosi oggetti olandesi d'uso quotidiano. New Amsterdam diviene città vera e propria nel 1639. Nel 1653, dunque, si comincia a dare i nomi alle vie. Wall Street, per esempio, è chiamata così perché è caratterizzata da una palizzata con bastioni in pietra, edificata per difendere il lato settentrionale della città dagli attacchi dei nemici: Algonchini, Delaware, Munsee e gli inglesi dislocati nelle terre oggi riconducibili al Connecticut. La celebre palizzata verrà abbattuta nel 1699, ma il nome Wall Street giungerà fino ai nostri giorni. Il dominio degli olandesi cessa di esistere nel 1664, quando la città finisce sotto l’egemonia britannica. Si trovano tracce di questo periodo negli anni Novanta, in occasione della ricostruzione del City Hall Park: una squadra di archeologi statunitense recupera monete, bottoni, fibbie, pallottole, stoviglie, risalenti al primo glorioso insediamento inglese. Nel Settecento il cuore di New York è rappresentato perlopiù da frutteti e fattorie. Complessivamente si contano circa settemila abitanti. Significativo il disegno del 1717, di William Burgis, che offre una ampia veduta dall'East River, lungo una superficie di tre metri. Molte vecchie costruzioni olandesi sono state abbattute, per far spazio a edifici più moderni, conformi al canone georgiano, con uno stile architettonico peculiare, che non ha più nulla a che vedere col precedente barocco. Dove prima c'era un molo, ora c’è una darsena con tre pontili. Si intuisce il primo skyline della città: il campanile della Trinity Church è l’edificio più alto. Nel Settecento il commercio dello zucchero soppianta quello delle pellicce e la città si avvia a diventare una delle più importanti metropoli del globo. Nel 1754 Giorgio II di Bretagna fonda il King's College, che in futuro diventerà la Columbia University, uno fra gli atenei più importanti al mondo. Nel 1777 la città ottiene l’indipendenza; e nel 1788 - poco dopo il termine della guerra d'indipendenza - diviene capitale degli USA, ruolo che cederà alla vicina Philadelphia nel 1790. Nello stesso anno un censimento stabilisce che a New York vivono più di 30mila abitanti, fra cui molti schiavi provenienti dall’Africa. La conferma della loro presenza è giunta alla ribalta delle cronache una quindicina d’anni fa, quando - in prossimità della parte occidentale di Broadway, a circa tre metri di profondità - gli archeologi hanno recuperato i resti scheletrici di circa ventimila neri, insieme a molti suppellettili. Il luogo è stato battezzato African Burial Ground. Mentre è della metà del Settecento, una mappa indicante un grande mercato degli schiavi in fondo a Wall Street. Nel XVIII secolo si ha anche una grossa espansione e modernizzazione della città in corrispondenza del porto, nella parte sud di Manhattan: la linea di attracco delle navi avanza di continuo, rubando terra al mare e ai fiumi che formano il perimetro ideale della città. Si attuano processi di interramento che portano a modificare sensibilmente la forma di Manhattan e a restringere il corso dell'East River. Ed è in questo contesto che va dunque ricondotto il vascello da poco recuperato sotto le ceneri del WTC. Al posto delle Torri Gemelle sorgeva, infatti, l’angolo portuale nel quale venivano ospitate le navi che trasportavano il materiale necessario ad ampliare Lower Manhattan, consentendo lo sviluppo di una zona fortificata e, più tardi, di quella dedicata alle passeggiate della borghesia otto-novecentesca, con l'angolo più suggestivo, Battery Park City Promenade. L'area che oggi identifichiamo con Battery Park - la punta più a sud di Manhattan - una volta non c'era. È stata "costruita" dall'uomo poco più di duecento anni fa. Deve il suo nome alla presenza di una batteria di ventotto cannoni installati per proteggere l'entroterra. Oggi è diventata un parco pubblico di 8,5 ettari. Al suo centro vi è Castle Clinton, forte a pianta semicircolare costruito fra il 1808 e il 1812 su una piccola isola - West Battery - unita agli altri quartieri di Manhattan nel 1855. Ha ospitato l'acquario di New York fino agli anni Quaranta.

lunedì 11 ottobre 2010

Frammenti di 'vita' su Titano

Le caratteristiche chimiche di Titano potrebbero essere simili a quelle che contraddistinsero la Terra poco prima che si sviluppasse la vita. Lo rivela uno studio effettuato dagli esperti dell'University of Arizona. I ricercatori hanno simulato al computer i processi chimici che avvengono nell'atmosfera di Titano scoprendo la presenza di cinque basi nucleotidiche: citosina, guanina, adenina, timina e uracile. In più sono stati individuati due piccoli amminoacidi, glicina e alanina. Alla luce di questi risultati gli scienziati sono concordi nel dire che Titano potrebbe ospitare molecole prebiotiche e che, verosimilmente, anche sulla Terra miliardi di anni fa, i “mattoni” della vita non ebbero origine dal famoso “brodo primordiale”, ma da molecole atmosferiche. «Ancora oggi l'atmosfera di Titano è riconducibile alla nostra», rivela Sarah Horst dell'University of Arizona. «Il satellite viene peraltro da tempo soprannominato 'Terra congelata', riferendosi proprio alle caratteristiche che contrassegnarono il nostro pianeta subito dopo la formazione». Stupisce inoltre su Titano la presenza di aerosol, assimilabile alle particelle di smog delle aree metropolitane terrestri. Sono particelle minuscole, la cui natura però non è ancora stata chiarita completamente. «Il problema è che non possiamo riprodurre correttamente al computer il dinamismo dell'atmosfera di Titano», prosegue Horst, «ma con queste simulazioni speriamo comunque di riuscire a comprendere i meccanismi chimici che portano alla genesi del misterioso aerosol». Per ora sappiamo che gli aerosol di Titano influenzano pesantemente la temperatura dell'atmosfera del satellite, provocando sbalzi termici e quindi lo sviluppo di venti e perturbazioni: le particelle di aerosol possono, infatti, agire da nuclei di condensazione e contribuire alla formazione di nubi e precipitazioni. Mentre i risultati dell'Aerosol Collector and Pyrolyser (ACP) e del gas Chromatograph Mass Spectrometer (GCMS) ci hanno consentito di evidenziare nell'atmosfera della luna saturniana la presenza di ammoniaca e acido cianidrico. Titano affascina gli astronomi dal 1655, anno in cui l'astronomo olandese Christian Huygens lo individuò per la prima volta. È il più grande satellite di Saturno, di dimensioni addirittura superiori a Mercurio. Orbita intorno a Saturno in 15 giorni e 22 ore: identico il periodo di rotazione. Gran parte delle informazioni che abbiamo di Titano derivano dall'esplorazione effettuata dalla missione euro-statunitense Cassini-Huygens. La sonda ha raggiunto Saturno il 1 luglio 2004: da essa è stato sganciato il modulo ti terra Huygens che il 14 gennaio 2005 ha raggiunto la superficie del satellite.

domenica 10 ottobre 2010

MARIJUANA BOOM BOOM

Foglie di Cannabis
Sono sempre di più i giovani e giovanissimi ricoverati per guarire dalla dipendenza da cannabis e dai problemi mentali da essa provocati. È quanto emerge da uno studio diffuso ieri da vari giornali inglesi. Secondo gli esperti il numero di ragazzi bisognosi è cresciuto di un terzo nell'ultimo anno. In particolare i medici dell'NTA - National Treatment Agency for Substance Misuse - comunicano che sono stati ricoverati 4.400 giovani nel 2009, una decina circa al giorno: 3.700 quelli gravi, contro i 3.300 di quattro anni fa. In molti casi si tratta di diciottenni, diciannovenni. Ma l'età del "primo spinello" è sempre più bassa, e ora si è arrivati anche a giovanissimi di 11-12 anni. È il rovescio della medaglia dovuto al calo del consumo di altre droghe come l'eroina, la cocaina e il crack: la cocaina, in particolare, viene consumata meno, anche perché quella che si trova per strada - dove il più delle volte si va in cerca di sostanze stupefacenti - è di qualità sempre peggiore. Il 29% dei trattamenti psichiatrici legati all'assunzione di droga, riguarda individui dipendenti dalla cannabis. Era del 18% la percentuale fino a quattro anni fa. "I giovani fra i 18 e i 24 anni hanno meno problemi con le droghe storiche, ma ne hanno di più con i derivati della cannabis", racconta Paul Hayes dell'NTA."Questo studio intende, dunque, sollecitare i centri di assistenza medica che si occupano dei consumatori di sostanze stupefacenti, perché non si trovino impreparati di fronte al progressivo aumento di questo tipo di pazienti". Anche in Italia la cannabis sta vivendo un vero e proprio boom. Dal 2001 a oggi i fumatori di "maria" sono passati da 1 milione e 900mila a 3 milioni e 800mila. Secondo la rivista Geo l'incremento maggiore riguarda le donne di età compresa fra i 15 e i 24 anni (+9,3%). Mentre l'Istituto Superiore di Sanità all'Ipsad Italia fa sapere che 350mila individui fra i 15 e i 54 anni fanno un uso quotidiano della cannabis. Preoccupa soprattutto il consumo di cannabis skunk, varietà in grado di creare molti più problemi rispetto a quelle tradizionali: chi consuma questo tipo di droga, infatti, presenta attacchi psicotici e deliranti in una percentuale 18 volte maggiore rispetto alla norma. Secondo gli esperti del London Institute of Psychiatry il legame fra psicosi e cannabis è innegabile: "Almeno 25mila dei 250mila schizofrenici nel Regno Unito, pari a un decimo del totale, avrebbero evitato di ammalarsi se non avessero fatto uso di cannabis", dice Robin Murray, del centro inglese. La cosiddetta "Puzzola", dall'odore particolare, nasce negli anni Ottanta ibridando alcune varietà di cannabis già esistenti: la indica e la sativa. Vengono compiuti anche molti altri esperimenti con varietà provenienti dal Messico, dalla Colombia, e dall'Afghanistan. Leslie Iversen, farmacologo dell'Università di Oxford, ritiene che questa forma di cannabis sia più forte delle tradizionali del 10-12%. Il principio attivo del superspinello - il THC - arriva al 16%, contro il 3-5% della marijuana comune. Il suo effetto è dunque paragonabile a quello dell'LSD o di altri allucinogeni. Il fatto che la varietà skunk sia in costante espansione è anche provato dal fatto che rappresenta l'80% dei sequestri di droga effettuati dalla polizia.

Manifestazione pro-Cannabis
Presso il London Institute of Psychiatry sono in cura circa 200 ragazzi per dipendenza da cannabis e più della metà è trattata per psicosi, in cui allucinazioni e deliri impediscono di discernere correttamente la fantasia dalla realtà. Il consumo smodato di cannabis è peraltro alla base di gravi fatti di cronaca. Luke Mitchell è il sedicenne che nel 2003 uccide, in Scozia, la fidanzatina quattordicenne Jodi Jones, dopo averla denudata e legata: è stato condannato a 20 anni. L'accusa ha tirato in ballo due temi: la cannabis e Marilyn Manson. Manson, però, si è difeso dicendo che lui non c'entra niente con le azioni di chi ascolta i suoi pezzi, e che dunque è solo l'educazione di un genitore che incide sul futuro comportamentale di un figlio. È rimasta la cannabis che logicamente nessuno ha potuto discolpare. Analogo il caso di Lucy Braham, aggredita dal fidanzato ventitreenne William Jaggs, e finita con 66 coltellate. Responsabile? La malattia del giovane, schizofrenia, innescata presumibilmente dal consumo eccessivo di spinelli. In Italia non ci sono casi così macabri da rispolverare, tuttavia anche nel Belpaese si sono avuti sinistri legati all'uso improprio della cannabis (utilizziamo il termine 'improprio' perché ultimamente diversi studi scientifici propongono di impiegare i derivati dei cannabinoidi per curare varie malattie). L'ultimo risale a tre anni fa, quando l'autista di un pullman con una scolaresca a bordo, si ribaltò sulla bretella autostradale Casale-Santhià. All'indomani della condanna per omicidio plurimo - la vicenda costò la vita a due bambini - l'accusato rivelò di aver fumato cannabis la sera precedente. Non dovrebbe comunque stupire un fatto del genere se si considera che - secondo uno studio condotto dalla National Highway Traffics Safety Administration - basta una singola dose anche moderata di "paglia" per alterare le prestazioni alla guida di un automezzo. Con l'alcol, peraltro, le cose peggiorano ulteriormente e i riflessi vengono pesantemente compromessi. Nel 2004 David Blunkett, membro del Parlamento inglese, propose di riclassificare le droghe, passando la cannabis dalla classe B alla classe C, ossia dalle pericolose alle meno pericolose. Commise un errore, visto che nel 2008 su ordine del ministro Gordon Brown la cannabis tornò alla sua precedente posizione. Il punto è che non è facile stabilire la pesantezza e quindi la nocività di una droga. Molti esperti propongono di dimenticare la distinzione fra droghe "leggere e pesanti" e affidarsi al più attendibile "easy and not easy" (facili e non facili). Generalmente si considera la differenza fra droghe leggere e pesanti in base al livello di dipendenza e alla gravità dei danni prodotti all'organismo. Dunque lo "spinello", viene normalmente considerata una droga leggera, benché i danni prodotti al polmone siano equiparabili al fumo di 16 sigarette, e il rischio di tumore all'organo respiratorio aumenti di 500 volte rispetto ai fumatori di tabacco. Ripercussioni si hanno anche in ambito economico, tenuto conto del fatto che chi fuma marijuana perde più giorni di lavoro rispetto a chi fuma sigarette o non fuma, per via di malesseri di vario genere comprendenti tosse, catarro, malattie respiratorie acute. A scuola i ragazzi che si fanno troppi spinelli hanno un rendimento decisamente peggiore degli altri: le percentuali di giungere regolarmente al diploma sono ridimensionate per problemi riguardanti mancanza di attenzione, scarsa attività mnemonica e di apprendimento. Cosa fa la cannabis? A dosi elevate può determinare distorsioni nella percezione del tempo e dello spazio, nella percezione del corpo, allucinazioni visive e uditive e depersonalizzazione. Dosi elevate di THC abbassano momentaneamente i livelli di testosterone, tipico ormone maschile, e riduce la produzione di spermatozoi; nelle donne interferiscono con l'ovulazione. A livello cardiovascolare l'assunzione di cannabis provoca un aumento della frequenza cardiaca e un moderato incremento della pressione arteriosa; inoltre, il monossido di carbonio assunto con il fumo, impedisce il regolare transito dell'ossigeno per i vari distretti organici. Infine - come affermano gli studi inglesi - si possono avere gravi ripercussioni a livello psichico. La Commissione dei ministeri della Sanità e della Commissione del Parlamento canadese sono tutti concordi nel dire che la cannabis può far emergere problemi latenti; mentre la rivista Lancet dice che nelle persone predisposte a problemi mentali la marijuana può aumentarne l'insorgenza del 41%. D'altra parte però uno studio pubblicato dall'University of New York rivela che con la cannabis è possibile contrastare la depressione. Fisiologicamente i recettori dei cannabinoidi si trovano in corrispondenza dei gangli basali, associati al controllo dei movimenti; si trovano nel cervelletto, nell'ippocampo, e nel nucleo accumbes, considerato il centro del piacere dell'organo cerebrale. È qui che la droga concretizza la sua azione, creando un mondo illusorio, spesso però anticamera di un tunnel dal quale sarà poi sempre più difficile venir fuori.

giovedì 7 ottobre 2010

Il successo delle "Educational Farm"

Agricoltura sostenibile, tutela dell'ambiente, salvaguardia del territorio, rispetto delle tradizioni locali. Sono solo alcuni fra gli argomenti trattati nelle cosiddette “fattorie didattiche” (in inglese educational farm), aziende agricole che lavorano in tandem con le scuole. Lo scopo? Aiutare i più giovani a colmare la distanza fra cultura urbana e cultura rurale, educandoli alla salute, a stili di vita che tengano conto della natura, degli ecosistemi, del valore delle attività agricole. Gli insegnanti, in particolare, mirano a rendere consapevoli i ragazzi del loro ruolo sociale, portandoli a sviluppare uno spirito critico nei confronti della natura e di pratiche lavorative cadute ormai nel dimenticatoio, ma fondamentali per l'equilibrio ecologico. In una fattoria didattica i ragazzi imparano a produrre latte, formaggio, pane; a raccogliere il miele; a coltivare cereali, frutta e verdura; a riconoscere le principali specie animali e vegetali che ci circondano, le loro caratteristiche tassonomiche e biologiche. Non tutte le aziende agricole, però, possono essere definite “fattorie didattiche”: la qualifica dipende da una serie di parametri raccolti nella cosiddetta “Carta della Qualità”, certificata dalle regioni. Una fattoria didattica che si rispetti deve adottare sistemi agricoli di produzione biologica ed eco-compatibile e ospitare allevamenti che tengano conto soprattutto del benessere degli animali. La struttura deve disporre di ambienti curati, accoglienti, servizi igienici, sistemi di sicurezza. L'operatore di una fattoria didattica deve sostenere un corso speciale di 120 ore per poter servire al meglio le richieste di una scolaresca. Non sono ammessi più di 60-65 scolari per volta, e il loro numero deve essere proporzionato a quello degli operatori. Mezza giornata in una fattoria agricola costa 5 euro, l'intera giornata 15 euro (pranzo incluso), più giorni 40 euro al giorno (con trattamento di pensione completa). Il fenomeno delle fattorie didattiche - cominciato all'inizio del ventesimo secolo in Scandinavia - prende piede in Italia nel 1997 con la nascita della “Rete delle fattorie didattiche romagnole”: il progetto è rappresentato dalla società Alimos, in collaborazione con imprenditori agricoli della provincia di Forlì-Cesena. Da cinque/sei anni a questa parte è in costante evoluzione: nel 2010 c'è stato un incremento dell'11% delle visite didattiche in fattoria, ormai parte integrante dei programmi scolastici. L'ultimo censimento effettuato da Alimos parla di 1.750 fattorie didattiche attive sul territorio nazionale. La regione con più fattorie didattiche è il Piemonte (210); a seguire ci sono Veneto (121), Puglia (115), Campania (108), Emilia Romagna (95). Il boom delle fattorie didattiche è anche figlia di iniziative a favore dell'ambiente come l'“Educazione alla Campagna Amica” di Coldiretti, che nel corso del 2011 coinvolgerà più di 100mila scolari delle scuole medie ed elementari.

Qualche indirizzo utile:

1. LOMBARDIA: L'Airone – strada comunale per Isola Dovarese, 2, Drizzone (CR) – 037.5389902
2. BASILICATA: Masseria Moles – contrada Mezzana, Tolve (PZ) – 340.6444371
3. EMILIA ROMAGNA: Malvasia – via Ardo Guidetti, 16, Baricella (BO) – 0532.722586
4. MARCHE: Case Rosse – frazione Casette, Ascoli Piceno (AP) – 073.6403995
5. TOSCANA: Erthola - località Apparita di Monthiano, Magliano in Toscana (GR) – 056.4589939
6. SARDEGNA: S'Axrola Antiga – località Is Arrius, Villanovatulo (NU) – 087.2813046
7. TRENTINO ALTO ADIGE – Azienda Osti Marco - via Fontanele, 22, Spormaggiore (TN) – 046.1653337
8. LIGURIA: La Casa dell'Alpe – via Alpe, 10, Rialto (SV) – 019.688019
9. VENETO: Balla coi Mussi – via Pelosa, 31a, Saccolongo (PD) – 049.8016033
10. SICILIA: Il Casale delle Rose – contrada Santo Stefano, Caltagirone (CN) – 093325064

lunedì 4 ottobre 2010

Il Dio sadomasochista di Dawkins

Biologo, esponente di punta della corrente evoluzionista dei neo-darwinisti, negli ultimi trent’anni ha firmato alcuni tra i più importanti volumi di divulgazione scientifica fra cui Il gene egoista, (1976), L’orologiaio cieco (1986), L’illusione di Dio (2007).

Aprile 08, Ben Stein's Expelled documentary
LEI HA SCRITTO CHE DIO E' UN DELINQUENTE PSICOTICO, INVENTATO DA GENTE PAZZA E ILLUSA.
Non ho detto esattamente così. Ho detto qualcosa di meglio. Nel mio libro scrivo che il Dio del Vecchio Testamento è forse il personaggio più sgradevole di tutta la letteratura. Geloso e fiero di esserlo, è un castigamatti, meschino, iniquo e spietato, sanguinario, istigatore della pulizia etnica; un bullo misogino, razzista, infanticida, sadomasochista, megalomane.
E' QUESTO CHE PENSA DI DIO.
Esattamente.
E SE NON FOSSE COSI'? COSA DIRA A DIO INCONTRANDOLO NELL'ALDILA'?
Signore, perché ti sei nascosto così bene?

Aprile 08, Real Time
COME MAI IL SUO ULTIMO LIBRO L'ILLUSIONE DI DIO STA AVENDO COSI' SUCCESSO?
Ho venduto più di un milione di copie perché credo che stia succedendo qualcosa: molte persone iniziano a essere stanche di avere parenti e conoscenti che continuano a parlagli di un amico immaginario frutto della superstizione.
LEI HA STABILITO UNA SCALA DA 1 A 7 DI ATEISMO. L'ATEO PURO CORRISPONDE AL NUMERO SETTE. PERCHE' LEI SI COLLOCA AL SEI?
Credo che per qualsiasi scienziato sia imprudente affermare categoricamente che non c'è nulla. Mi spiego meglio: non posso dire a me stesso che le fate non esistono, tuttavia sono piuttosto sicuro che non ci siano.

Marzo 09, cafebabel.it
PERCHE' PER MOLTI SCIENZIATI ESPERTI NEL 'METODO SCIENTIFICO' È ANCORA POSSIBILE CONSERVARE LA FEDE?
Non sono sicuro che sia così ancora oggi. Darwin, secondo me, ha fatto da spartiacque. Mi è totalmente indifferente la religiosità di Newton. Prima di Darwin la fede era imposta a chiunque. Se oggi incontri uno scienziato religioso, interrogalo e chiedigli se crede realmente in un’intelligenza soprannaturale che ascolta le nostre preghiere, legge i nostri pensieri e perdona i nostri peccati. O se come Einstein, crede nell’uso di un linguaggio semi-religioso per esprimere i suoi sentimenti di riguardo verso le meraviglie e i misteri dell’Universo.

Gennaio 08, Newsnight Book Club
QUANDO SENTE UN RELIGIOSO PARLARE ALLA RADIO O IN TV DI COME CI SIA UNO SCOPO NELLA NOSTRA ESISTENZA, COSA NE PENSA?
In un certo senso c'è uno scopo nella nostra esistenza ed è la propagazione del DNA, ma non si tratta di uno scopo particolarmente elevato. E comunque non di una meta come la intendono i religiosi. Penso che ci sia uno scopo in ogni esistenza individuale ed è il fine che ci diamo noi stessi.
LA SUA AMBIZIONE E' CHE LE PERSONE CHE LEGGONO I SUOI SCRITTI ABBANDONINO OGNI FORMA DI CREDO NEL DIVINO?
È la mia ambizione e non ci vedo niente di male. So comunque che esistono credenti irriducibili che non cambieranno mai opinione.
NON È MAI STATO IN CIMA A UNA MONTAGNA PROVANDO UN SENSO DI STUPORE PER CIO' CHE VEDEVA O UN SENSO DI SPIRITUALITA'?
Sicuramente, ma è un senso molto diverso rispetto alla spiritualità religiosa. Anche Einstein contemplava l'Universo ma questo non ha nulla a che fare con Dio che vede tutto ciò che fai, i peccati che compi, che resuscita i morti e via dicendo.

Ottobre 05, beliefnet.com
PERCHE' VORREBBE CHE LE PERSONE CONOSCESSERO MEGLIO L'EVOLUZIONE UMANA?
Comprendendo l'evoluzione umana è più facile dare un significato oggettivo all'uomo. Recentemente ho incontrato due esponenti religiosi che mi hanno detto: 'Crederò nell'evoluzione quando vedrò una scimmia dare vita a un essere umano'. In questi casi è sicuramente più facile aggrapparsi alla religione, ma si è ben distanti dalla corretta analisi del cammino dell'uomo.
L'ATEISMO PERO' NON OFFRE SPERANZE. SARA' PIU' DIFFICILE VIVERE SERENAMENTE.
Non è vero. Io non mi sento affatto depresso. Mi sento esultante. L'idea di poter contemplare e studiare l'universo, la storia geologica della Terra, la complessità delle forme viventi, mi basta per stare sereno e per dare un significato pieno alla mia esistenza.

domenica 3 ottobre 2010

Cassoeula, busecca e risotto giallo. Ecco come mangia(va)no i milanesi

L'autunno è una stagione magica non solo per i meravigliosi colori delle foglie che cadono e per il piacevole romanticismo che evoca, ma anche per i particolarissimi piatti che lo caratterizzano, più di ogni altro periodo dell'anno. Nel milanese da sempre l'autunno è rappresentato, dunque, da vivande che nonostante il trascorrere dei secoli, non smettono mai di rendere eccezionalmente invitante una tavola che si rispetti. Il piatto doc? Sicuramente la cassoeula (chiamata anche casoeula, casoela, cazzuola, verzata, o botaggio, dal francese 'potage' che significa 'minestra'). Il riferimento è a un alimento assai calorico (quindi occhio alla linea) basato sull'impiego delle verze, prodotto orticolo tipico dei primi freddi: la verza o cavolo verza (Brassica oleracea) è detta non a caso 'cavolo di Milano', è una variante del più noto e diffuso cavolo cappuccino ed è coltivata dalla notte dei tempi. La cassoeula è un piatto amato da tutti i milanesi. Ne andava matto anche il grande direttore d'orchestra Arturo Toscanini di origine parmense. È l'ideale per chi ha poco tempo per mangiare e ha bisogno di un cibo nutriente e sostanzioso. Dal mese di ottobre è, dunque, un'usanza tipica della zona contattare amici e parenti e - magari attorno al fuoco di un camino - consumare il tipico piatto lombardo. Spesso si formano tavolate enormi come quella del 24 agosto 2002 a Ossona, nei pressi di Magenta, dove - nel corso della festa di San Bartolomeo - venne preparata una cassoeula per 2mila persone: ci vollero 3.700 litri d'acqua, mille chili di costine, cento chili di verze, 25 chili di carote e sedano. Eppure preparare una cassoeula come si deve non è facilissimo. Ci vuole una certa dimestichezza fra i fornelli. Si parte facendo bollire l'acqua per circa un'ora in una pentola riempita con piedini di maiale, cotenne e orecchie; a fuoco lento si prepara il burro e si soffrigge un po’ di cipolla affettata. In seguito si aggiungono le costine di maiale e le cotenne tagliate a piccole strisce al condimento, e si fa rosolare ben bene la carne con un po’ di sedano, carote e vino bianco. Si copre la pentola, mentre, a parte, si cucinano le verze che devono essere lavate, tagliate a pezzi e cotte a fuoco basso per una decina di minuti, per poi unirle alla carne. La ricetta standard può subire delle varianti in base alla zona geografica in cui ci troviamo a consumare il piatto tipico. Nel novarese, per esempio, si è soliti aggiungere alla pietanza anche carne d'oca. La cassoeula - per come la conosciamo oggi - nasce all'inizio del Novecento, ma le sue vere radici culinarie risalgono a centinaia di anni fa. Le leggende narrano di un soldato spagnolo che s'innamorò di una milanese, alla quale insegnò l'arte di preparare la cassoeula. La donna - apprezzando oltremisura il buonissimo piatto - rivelò la ricetta a tutti i suoi amici e parenti, diffondendone il "culto" per l'intera regione. Gli storici la vedono diversamente e fanno riferimento al culto popolare di Sant'Antonio abate, festeggiato il 17 gennaio, data che segnava la fine della macellazione dei maiali. In questo ambito venivano utilizzate le carni di maiale avanzate e unite alle foglie di verza dando vita al caratteristico piatto lombardo. Ricordare l'origine della cassoeula serve anche a mettere in luce il fatto che, un tempo, l'alimentazione lombarda e meneghina era assai diversa da quella odierna, figlia dei numerosi popoli che hanno attraversato il territorio, dai celti prima di Cristo, alle ultime dominazioni austriache e francesi poco più di cento anni fa. Oggi, in generale, in Italia, si distinguono due tipi di cucina: quella mediterranea, figlia dell'olio, e quella continentale, che non utilizza l'olio (o lo utilizza solo in parte, soprattutto per condire le insalate). Ebbene, la cucina milanese appartiene sicuramente a quest'ultimo gruppo, basando i suoi piatti - similmente ai francesi - sul burro come grasso ideale per insaporire i cibi. Nell'XI-XII secolo l'arte culinaria è banalmente rappresentata da pappe e passati. Il pasto base è rappresentato dal frumento tritato e da cereali vari, impastati per farne pane e focacce. Ci si basa soprattutto su vegetali e latticini: frutta fresca e secca, verdure e legumi, uova, sono consumanti avidamente. La carne nutre solo i nobili che hanno tanto tempo libero per scorrazzare nelle foreste a caccia di cinghiali, lepri, caprioli, pernici, fagiani. I meno abbienti si devono accontentare della carne di maiale una volta l'anno, durante il periodo della macellazione, dalla quale ricavano anche gli insaccati, lonze, prosciutti, salami, salsicce conservate sotto pepe e spezie. Lo zucchero è pressoché inesistente. Viene sostituito dai fichi secchi e dalle castagne. Più avanti nel tempo - con l'arrivo dei pomodori, della patata e del mais - compaiono altre prelibatezza come la cotoletta alla milanese (cuteléta), l'ossobuco e la busecca. La prima corrisponde a una fetta di lombata di vitello con l'osso, impanata e fritta nel burro. Due le varianti: l'orecchia di elefante, in cui prevale la croccantezza, e quella con l'osso, tipica per la sua tenerezza. L'autenticità del piatto è provata anche da una missiva indirizzata al conte Attems - aiutante di campo di Francesco Giuseppe - dal famoso maresciallo Radetzky, in cui il militare descrive la ricetta, sottolineandone la bontà. Anche se c'è chi sostiene che derivi dalla Wiener Schnitzel viennese. La busecca - o trippa alla milanese - a base di frattaglie, è un piatto dalle umili origini contadini. I milanesi di una volta ne andavano ghiotti tanto da essere soprannominati "busecconi". Era un piatto tipico anche della notte di Natale, quando, dopo la messa di mezzanotte, ci si ritrovava nelle stalle per festeggiare la nascita del Creatore. L'ossobuco è ricavato dal garretto posteriore del vitello e servito con il risotto alla milanese. Il famoso risotto alla milanese compare presumibilmente nel Cinquecento. È, infatti, menzionato nell'opera di Bartolomeo Scappi, fra i più importanti cuochi rinascimentali. Carlo Emilio Gadda descrive eccezionalmente bene il risotto nell'opera "Le meraviglie d'Italia". L'idea del cosiddetto "risotto giallo" proviene verosimilmente dai Mori e dai Saraceni che approdarono in Italia dopo il XIII secolo. Il contatto fra Aragonesi e Sforza sancisce la diffusione del nuovo alimento. Il vero risotto alla milanese compare, però, nelle ricette del 1800, anche se alcuni storici rimandano la sua nascita ufficiale all'8 settembre 1574, in occasione di un banchetto organizzato per la festa della cattedrale di Santa Maria Nascente. Indispensabili per un risotto coi fiocchi: cipolle, brodo di manzo (con carote e sedano), burro, zafferano. In aggiunta si può pensare alla midolla di osso di bue, vino rosso, e parmigiano grattugiato.