lunedì 26 settembre 2011

Amici per la pelle

Una scena del film 'Amici miei' di Mario Monicelli (1975)

Gli opposti si attraggono, si dice, in amore e... in amicizia. In realtà questa opionione viene oggi scardinata da uno studio condotto da esperti americani, secondo i quali una vera amicizia è tale solo se i due amici sono pressoché "uguali" fra loro. Quindi: stessi interessi, hobby, desideri, gusti, etc. E così si dà credito a un altro famoso detto: "chi si somiglia, si piglia". Gli scienziati hanno visto che fare amicizia con chi "la vede come noi" è molto più facile e predispone a un affetto duraturo; al contrario durano meno e si formano con maggiore difficoltà i legami con persone diverse, i classici "opposti". Per arrivare a questi risultati Angela Bahn del Wellesley College, con Chris Crandall e Kate Pickett dell'University of Kansas, ha confrontato i piccoli college del Midwest (con una media di circa 500 studenti) con un maxi-college da oltre 25mila studenti. I ricercatori hanno seguito coppie di studenti che interagivano in pubblico, interrogandoli poi su atteggiamenti, credenze e stile di vita. Così è emerso che, per quasi ogni atteggiamento e comportamento 'nel mirino', gli amici del campus più grande erano molto più simili tra loro rispetto a quelli che studiavano nei college più piccoli. Questo, dicono i ricercatori, perché nel primo caso c'era una maggior possibilità di scelta. Dunque fare amicizia con persone più simili a noi diventa una 'missione possibile', rispetto alle chance di trovare un'anima gemella fra appena 500 studenti. "La gente preferisce fare amicizia con persone simili a se stessi. Ma si può solo scegliere tra le alternative disponibili, un po' come in un supermercato", concludono i ricercatori. Insomma, maggiore è la varietà e il numero, più gli amici finiscono per assomigliarsi.

giovedì 22 settembre 2011

Il rimpicciolimento di Mercurio


Arriveranno a ottobre i dati più importanti della sonda Messenger, che serviranno a svelare la vera natura di Mercurio. Il primo pianeta del Sistema Solare potrebbe nascondere molti segreti, fra cui una notevole attività geologica che starebbe, in pratica, “rimpicciolendo” il corpo celeste. Resta inoltre da capire le caratteristiche della sua atmosfera molto rarefatta e le ripercussioni delle fortissima escursione termica. 

L'uomo arriva per la prima volta su Mercurio con una sonda nel 1975. È la Mariner 10, che giunge a poche centinaia di chilometri dalla superficie mercuriana, trasmettendo almeno 6mila fotografie e mappando quasi la metà del suolo del corpo celeste. Con Messenger, lanciata dalla NASA nel 2004 e da poco entrata nell'orbita di Mercurio (marzo 2011), si entra dunque nella seconda fase dell'esplorazione del pianeta, quella che dovrebbe svelare i segreti più reconditi del piccolo oggetto spaziale. Ma cosa si cerca su Mercurio? Il primo scopo della missione è quello di far luce sulla cosiddetta “teoria della contrazione”. Si tratta di un processo geodinamico che starebbe “rimpicciolendo” il pianeta. Stando, infatti, alle fotografie effettuate dalla sonda Mariner 10, sulla superficie planetaria esisterebbero delle scarpate, in certi casi profonde anche vari chilometri, dove la crosta verrebbe inglobata, alterando le caratteristiche geomorfologiche di Mercurio. La Discovery Rupes, per esempio, è profonda due chilometri e lunga 650 chilometri. I geologi la riconducono a una faglia inversa, analoga a quelle terrestri. Alla base di questi processi ci sarebbe il progressivo abbassamento di temperatura nel cuore di Mercurio. Questo dato è stato confermato anche da Messenger. Da una distanza di circa 200 chilometri, la sonda ha evidenziato che la superficie planetaria si sta raggrinzendo, creando i presupposti per la nascita di nuove catene montuose. I vari rilievi compiuti hanno messo in luce che il diametro del pianeta si sarebbe già ridotto di un decimo dalla sua nascita a oggi. Si sarebbe, in particolare, ridimensionato di cinque chilometri rispetto ai 4.880 misurati in passato. Da un punto di vista chimico, il processo deriva dal raffreddamento del ferro liquido che, solidificando, provoca la diminuzione del volume del pianeta. Dall'attività di Messenger si intende anche far luce sul campo magnetico di Mercurio. Le primi immagini fornite dalla sonda hanno già messo in luce che quest'ultimo è determinato dal nucleo metallico e non da un strato superficie ferroso, come ritenuto per lungo tempo. Nuove importanti verifiche arriveranno, in ogni caso, per ottobre, quando Messenger sorvolerà da vicino il pianeta, cercando anche di capire se e in quale forma stanno avvenendo processi di natura magmatica. Mercurio è il pianeta più vicino al Sole, con un diametro che è la metà di quello terrestre e una superficie fortemente “butterata”, simile a quella lunare. Anche qui manca l'atmosfera e i corpi celesti provenienti dallo spazio si abbattono sul suo suolo provocando la formazione di grossi crateri. Nell'aria sono presenti esigue quantità gassose riconducibili a minime percentuali di potassio, sodio, ossigeno atomico, argon, elio e anidride carbonica. Su Mercurio è altissima l'escursione termica, con temperature che oscillano costantemente fra i 426 gradi centigradi e i – 183 gradi centigradi. Durante il giorno è impossibile osservarlo per via dell'irraggiamento solare, e di notte, è identificabile solo per un breve periodo, per via del suo moto di rivoluzione di 88 giorni, inconciliabile con la posizione dei telescopi terrestri.

martedì 20 settembre 2011

Le foto di Plutone svelano i ghiacci di Caronte

Plutone e Caronte

Casi di serendipity, ossia scoperte casuali, in astronomia, sono tutt'altro che rari. Anzi, si può tranquillamente dire che moltissimi oggetti spaziali siano stati individuati fortuitamente, puntando gli occhi verso il cielo, quasi sempre “attrezzati” con un cannocchiale o un telescopio. Una delle ultime scoperte “accidentali” riguarda l'unico satellite di Plutone, Caronte, messo a fuoco per la prima volta nel 1978. Protagonista l'astronomo statunitense James Christy. È il 22 giugno quando lo studioso analizza alcune immagini fortemente ingrandite dell'ultimo pianeta del sistema solare, con lo scopo di dare risalto a nuove caratteristiche di questo misterioso oggetto cosmico, all'estrema periferia del campo gravitazionale della nostra stella. Nel fare ciò, però, si rende conto che le lastre fotografiche sono “sporcate” da una minuscola protuberanza che periodicamente si evidenzia sul bordo del disco planetario. Non è un fenomeno normale. Significa che in quel punto potrebbe esserci un corpo roccioso che gravita attorno al pianeta. Christy esamina altre lastre fotografiche risalenti agli anni Sessanta e, in effetti, si rende conto che imprigionato dalla gravità di Plutone c'è un corpo roccioso che viene battezzato S/1978 P1. La sigla, però, non dura a lungo. Christy, infatti, decide di nominare il satellite Caronte, combinando l'appellativo “Charon”, dal personaggio della mitologia classica, al nome della moglie Charlene, detta “Char”: il nuovo nome verrà accettato ufficialmente dall'Unione Astronomica Internazionale nel 1985. Caronte ruota intorno al pianeta in 6,387 giorni. Il rapporto dimensionale fra i due corpi celesti è di 1 a 9, un'inezia se paragonato ad altre realtà planetarie, compresi Terra e Luna divisi da un rapporto 1 a 81. La sua superficie parrebbe rivestita da uno strato di ghiaccio d'acqua, a differenza di Plutone, contraddistinto da strati di ghiaccio di azoto. Ancora oggi permangono dubbi sulla sua formazione. Secondo le ipotesi più accreditate, Caronte si sarebbe formato in seguito a un impatto fra un corpo proveniente dalla cintura di Kuiper e Plutone. L'evento risalirebbe a 4,5 miliardi di anni fa, e non sarebbe molto dissimile da quello che avrebbe dato origine alla Luna. Un'altra teoria, invece, parla del possibile scontro ad alta velocità fra due protopianeti, che però avrebbero mantenuto le rispettive identità. Questa tesi è avvalorata dal fatto che il satellite presenta un'alta percentuale di materiale roccioso, non riscontrabile nella geologia plutoniana. 

venerdì 16 settembre 2011

Come la cannabis aiutò gli USA a vincere la guerra

GATTI TRANSGENICI


Un gene di medusa innestato in un gatto e ualà: ecco la discendenza del felino trasformarsi in un batuffolo fluorescente. Passatempi per scienziati frustrati? Niente affatto. Da qui si intende, infatti, partire per dare una mano alla ricerca sul virus HIV e moltissime altre malattie. Gli esperti della Mayo Clinic di Rochester dicono che uomini e gatti condividono circa 250 patologie, ed hanno un corredo genetico molto simile. Perciò pensano che sia possibile agire in modo analogo per debellare mali e infezioni. Si è avuta la prova proprio dalla colorazione dell'animale: l'attivazione del gene ha, infatti, permesso di verificare l'azione di un altro gene che, innestato nei macachi rhesus, rende gli animali resistenti al virus dell'Aids. Per la procedura sono stati utilizzati dei vettori virali, all'interno di ovociti felini, poi fecondati. Da qui sono nati tre gattini che godono di ottima salute e potranno fornire importanti informazioni sulla risposta biologica dei mammiferi all'HIV. Qualcosa di simile è accaduto anche con i cani. Si chiama, infatti, Tegon, un beagle creato in questi giorni nei laboratori dell'Università di Seul, il primo cane transgenico; il suo scopo sarà quello di facilitare lo studio di malattie degenerative come l'Alzheimer e il Parkinson. Ma insorgono gli animalisti. Ecco cosa dice Ilaria Ferri dell'ENPA: “Cani, gatti, topi, cavie e tutti gli altri esemplari reclusi nei laboratori sono condannati a vivere una condizione doppiamente innaturale. Infatti, oltre ad essere 'prodotti' artificialmente dall'uomo sono costretti a vivere la loro intera esistenza tra le quattro pareti di un laboratorio, sopportando atroci sofferenze. Ma il problema non è soltanto di ordine etico, è anche di natura scientifica. Sebbene le dichiarazioni dei padri del micio transgenico siano trionfalistiche, il vero punto debole della loro ricerca è la differenza sostanziale, e ineliminabile, tra il modello umano e quello animale”.

giovedì 15 settembre 2011

L'evoluzione dell'occhio


Uno dei più grandi misteri della biologia umana, che ha spesso indotto i creazionisti a fomentare ulteriormente la teoria relativa alla genesi della vita per via dell'intervento divino, riguarda la complessa fisiologia e anatomia dell'occhio. In pratica la domanda che ancora oggi molti scienziati si pongono è la seguente: come si è arrivati a un organo così sofisticato e importante, tenuto conto del fatto che non ci sono tracce concrete che confermerebbero la sua evoluzione? In effetti, mentre per i reperti ossei si può evidenziare un processo evolutivo costante, perscrutabile per via dei numerosi fossili ritrovati, per i cosiddetti organi molli – che si conservano con molta difficoltà – è assai più complicato pensare di osservare tutte le tappe della loro affermazione biologica. Lo stesso Darwin era convinto del processo evolutivo dell'occhio, tuttavia non trovò mai prove vere della sua supposizione. Oggi, però, qualcosa di diverso sta accadendo. E si sta cominciando a capire qualcosa di più dei vari passaggi che hanno portato allo sviluppo di un organo così complesso. Secondo le ultime ricerche il nostro occhio ha acquisito le caratteristiche odierne in circa 100 milioni di anni, partendo da un semplice sensore luminoso dei ritmi circadiani e stagionali risalente a circa 600 milioni di anni fa. Gli esperti dicono che ora ci sono le prove dell'evoluzione oculare, riconducibili a particolari “cicatrici”. Ma andiamo con ordine. Il nostro cammino evolutivo, in realtà, parte quasi 4 miliardi di anni fa, con lo sviluppo delle prime forme di vita unicellulare. Un miliardo di anni fa si affermano gli organismi pluricellulari che presto di dividono in due rami: quello concernente la cosiddetta “simmetria bilaterale” ha dato origine agli animali che tutti conosciamo e all'uomo. 600 milioni di anni fa un nuovo step che porta allo sviluppo degli invertebrati e dei vertebrati; mentre fra i 540 e i 490 milioni di anni fa inizia il lungo processo che porterà all'affermazione dell'occhio. Con la famosa esplosione del cambriano si affermano due tipi di occhio: quello composto, ancora oggi tipico di insetti e ragni; e quello “a fotocamera”, ideale per animali di grosse dimensioni. In questo tipo di occhio i fotorecettori condividono un'unica lente che concentra la luce e sono disposti come una lamina (a retina) che delimita la superficie interna della parte dell'occhio. Ci sono poi curiose vie di mezzo come quelle dei calamari e polpi: questi animali hanno un occhio a fotocamera, con però fotorecettori analoghi a quelli che si trovano negli esapodi. Nei dettagli l'occhio evoluto possiede coni e bastoncelli, per la visione diurna e notturna. La conferma evolutiva dell'occhio si è dunque avuta osservando animali primitivi come la lampreda, un pesce anguilliforme con una bocca a imbuto costruita per succhiare e non per mordere. Questo animale possiede un occhio sostanzialmente simile al nostro con una lente, un'iride, e i muscoli oculari. La retina ha perfino tre strati proprio come la nostra. Altro animale preso come riferimento è la missina, simile alla lampreda, detta anche anguilla bavosa. Gli occhi di questa specie sono privi di cornea, di iride, di lente e dei muscoli; per di più la retina la retina è costituita da due soli strati cellulari. Perché allora è così importante? Perché avrebbe un antenato in comune con la lampreda, dal quale l'avventura oculare ha avuto inizio, valutando il fatto che alcuni animali, come il caracide, possono andare incontro a degenerazione oculare nel giro di 10mila anni. Inoltre s'è osservato che l'impianto oculare subisce una trasformazione tipica durante il periodo embrionale, assimilabile a quella umana. In particolare, Detlev Arendt, dello European Molecular Biology Laboratory a Heidelberg, afferma che il nostro occhio è associabile ai discendenti dei fotorecettori rabdomerici, in contrapposizione ai ciliati, considerati appannaggio dei vertebrati. Ma è più probabile che derivino da un mix di entrambe le componenti cellulari. La lente, comunque, è il punto chiave dell'argomento, perché con la sua acquisizione, la capacità visiva aumenta enormemente. Nasce nel momento in cui si afferma a livello evolutivo un ripiegamento su se stesso della retina nella fase post embrionale. Sicché oggi possiamo affermare che il disegno intelligente con lo sviluppo dell'occhio non c'entra nulla. Lo dimostrano le “cicatrici”. Fra i difetti che confermerebbero l'evoluzione dell'occhio ci sono una retina invertita che costringe la luce a passare attraverso i corpi cellulari e le fibre nervose prima di colpire i fotorecettori; vasi sanguigni che si distendono nella superficie interna della retina; fibre nervose che si raggruppano per attraversare una singola apertura nella retina e formare il nervo ottico, creando una macchia cieca.


I due rami evolutivi dell'occhio

mercoledì 14 settembre 2011

L'uomo fedele? Un trucco evolutivo

La struttura chimica del testosterone
 
Eh no che l'evoluzione non lascia nulla al caso. Ci si è mai domandati perché subito dopo essere diventati papà gli uomini tradiscono meno del solito? La risposta è semplice: perché il loro livello di testosterone cala sensibilmente, rendendoli meno aggressivi sessualmente e meno inclini, di conseguenza, alle scappatelle. Il motivo di ciò risiede nel fatto che, subendo questa alterazione fisiologica, il maschio resta più vicino alla madre della sua creatura, la affianca nelle cure parentali e in pratica assume le sue responsabilità dinanzi a quel che sarà la sua discendenza. Un meccanismo perfettamente collaudato. Ora gli scienziati scoprono che il calo di testosterone nei maschi è direttamente proporzionale al tempo speso per i propri figlioli. In particolare quelli che dedicano gran parte del loro tempo all'accudimento dei figli, assumendosi anche premure come quella di cambiare i pannolini, sono coloro che rischiano meno di finire fra le lenzuola di un'altra partner. Lo studio condotto da esperti della Northwestern University su 624 giovani ha messo in luce che il calo di testosterone è fisiologico col passare degli anni, ma è più accentuato in chi diventa padre. Inoltre si è constatato che le persone che abbandonano il letto coniugale subiscono un incremento dell'ormone sessuale, confermando, al contrario, la tesi avanzata dagli scienziati. Ma cos'è esattamente il testosterone? È l'ormone sessuale maschile per eccellenza, espressamente legato alla libido sessuale. È fondamentale anche per la produzione di sperma, per lo sviluppo della massa muscolare e della prostata, per la sua predisposizione a favorire depositi di calcio che tengono lontani l'osteoporosi. In piccole dosi è riscontrabile anche fra le donne, conferendo loro un carattere più mascolino del solito. Si ritiene che dopo i 40 anni l'ormone cali di circa l'1% all'anno. Non è solo una diminuzione della sua produzione, ma anche un iper-produzione di proteina SHBG che annulla l'effetto ormonale. Il grafico illustra bene l'andamento della concentrazione di testosterone libero e totale e l'andamento della proteina SHBG. 


Utilità del testosterone

venerdì 9 settembre 2011

Scoperto l'anello mancante fra il genere Homo e l'Australopithecus

Reperti di Australopithecus sediba

Uno dei dilemmi che da sempre caratterizza i paleoantrolologi è il cosiddetto anello mancante fra le forme australopitecine e il genere Homo. Si è sempre pensato a Lucy, l'Australopithecus afarensis dal quale si sarebbe evoluto l'uomo moderno; ma ora, che succede, se si valuta il fatto che l'Australopithecus sediba proviene con ogni probabilità dall'Australopithecus africanus? L'albero evolutivo dell'uomo da una parte porta a nuove interessanti rivelazioni, ma dall'altra si complica sempre più. Sicché oggi si ha un'ulteriore conferma della nostra derivazione dal sediba, grazie a una scoperta notevole avvenuta a Malapa, in SudAfrica. I paleoantropologi hanno infatti individuato i resti di cinque individui (in tutto almeno 200 ossa), un'intera famiglia risalente a circa 2 milioni di anni fa e riconducibile, appunto, ai sediba. “Penso senza dubbio che questo sia lo scheletro più completo dei primi esseri umani mai scoperto”, dice Lee Berger dell'Università di Witwatersrand. “Dobbiamo riscrivere interi libri di testo”. I resti si sono conservati fino a noi, in seguito alla caduta accidentale del gruppo famigliare in un anfratto di 40 metri dal quale nessuno è più riuscito a riemergere. Le caratteristiche del sediba comprendono un cervello di 440 metri cubi (contro i 120 dell'uomo moderno), lunga dita sottili, ossa pelviche corte e piatte (come le nostre), piedi che indicano la postura eretta. “In particolare, il cervello”, dice l'antropologo della Sapienza di Roma, Giorgio Manzi, “nonostante la piccole dimensioni, rappresenta l'indizio di una capacità raffinata di manipolare gli oggetti, confermata dal pollice opponibile”. Si è potuto, dunque, stimare l'età degli scheletri tramite il decadimento degli atomi di uranio intrappolati nelle rocce che ospitano i reperti e constatando l'inversione del campo magnetico terrestre avvenuto fra 1,97 e 1,98 milioni di anni fa. “Si tratta di un buon candidato per una specie di transizione fra Australopithecus africanus e Homo habilis se non addirittura un diretto predecessore di Homo erectus, come il 'ragazzo di Turkana', l'uomo di Giava o quello di Pechino", ha concluso Berger. 

Il nuovo albero evolutivo

giovedì 8 settembre 2011

Ibrido come una biricoccola

Strasberry a volontà...

Frutti strani, assurdi, mai sentiti. Mix originali per soddisfare il palato di tutti, bambini che con la frutta vanno spesso poco d'accordo e anziani dai gusti sofisticati. Così si sta facendo sempre più strada la voglia di distribuire sul mercato prodotti 'meticci', figli dell'ibridazione fra frutti ormai presenti su ogni tavola. Ecco qualche nome interessante. Il boysenberry deriva dall'incrocio fra il lampone e la mora del Pacifico; il tayberry, fra il lampone e la mora selvatica. Troppo esotici? Nessun problema, eccone altri più “caserecci”. C'è per esempio la cilegugna, incrocio fra ciliegia e prugna, la biricoccola, mix fra albicocca e susina, la jostaberry, derivante dall'ibridismo fra ribes nero e uva spina. Per il consumatore americano, sempre alla ricerca di nuovi sapori e sensazioni, è una vera manna. Spiega David Karp, critico della rivista «Gourmet magazine», bibbia dei buongustai USA: “Un tempo i fruttivendoli offrivano tre o quattro varietà di mele, mentre oggi ne hanno almeno venti”. Non sempre, però, i nuovi ibridi sono azzeccati” dice Karp. “Per alcuni è come incrociare un alce a un formichiere. Ti fanno rimpiangere la frutta semplice e buona che mangiavi da bambino”. Qualcuno storce il naso, intravedendo pratiche terrificanti di ingegneria genetica, appannaggio di sedicenti frutticoltori, seguiti da fantomatici scienziati. E invece è tutto assolutamente regolare, benché gran parte di questi frutti siano oggi disponibili in USA e non ancora in Italia. Derivano da scientificissimi incroci fra specie diverse, seguendo processi di impollinazione assai complessi, che nelle stragrande maggioranza dei casi non portano ad alcun risultato: per ogni frutto come la pescarina (incrocio fra pesca tradizionale e pesca noce) che riesca a farsi spazio nel mercato, ci sono mediamente 999 tentativi falliti. Come dire... Quel che conta è la purezza di intenti. “Tutto quello che facciamo noi è assecondare Madre Natura, aiutarla a fare ancora meglio quello che ha sempre fatto”, dice Leith Gardner, che lavora presso la Zaiger Genetics. Certo, se poi viene il successo commerciale non lo si butta via. In California una sola società specializzata genera 20mila varietà di frutti ibridi, con investimenti di 700mila dollari all'anno per ogni neo-frutto che giunge sul mercato. Per ottenere questo tipo di prodotti si procede specificatamente con l'impollinazione artificiale, consistente nel trasferimento manuale del polline per mezzo di appositi pennelli o strofinando i fiori maschili sugli stigmi dei fiori femminili. L'alternativa è l'impollinazione incrociata, basata sul trasporto del polline dallo stame di un fiore al pistillo del fiore di un individuo differente della stessa specie. Infine si può giocare la carta dell'innesto a gemma: le gemme della varietà del frutto desiderato sono raccolte da un albero e innestate nei rami di un altro vegetale. Con questi sistemi, peraltro, si protegge l'ambiente, facilitando il cosiddetto commercio a “chilometro zero”. In pratica si annulla la produzione di CO2 derivante dal trasporto della frutta, che viene, in questi casi, prodotta da rivenditori attivi nella propria zona. Tutti convinti?

mercoledì 7 settembre 2011

TERREMOTI VIRTUALI


Gli importanti eventi sismici che hanno contraddistinto il mondo negli ultimi tempi, in primis il terremoto giapponese dell'11 marzo 2011, portano ancora una volta a riflettere sull'importanza dell'elaborazione di progetti e strutture che possano proteggere l'uomo dalle scosse telluriche. Considerato che nelle condizioni attuali non siamo ancora in grado di prevedere con certezza un fenomeno sismico, resta solo un modo per difendersi dai capricci della geosfera: costruire case capaci di sopportare anche i movimenti tellurici più potenti. A questo scopo, il 18 maggio, presso il Laboratorio di Eucentre - Centro Europeo di Formazione e Ricerca in Ingegneria Sismica, con sede a Pavia - è avvenuto un importante esperimento, su una casa di tre piani (alta circa dieci metri), interamente realizzata in legno. L'edificio, montato sulla tavola vibrante per test sismologici più potente d'Europa, è stato sottoposto a una scossa sismica superiore a quella che ha devastato L'Aquila nel 2009. Ma non è alla magnitudo che si deve fare riferimento per esperimenti di questo tipo, bensì alla forza che si sprigiona su un certo edificio sottoforma di oscillazioni orizzontali, durante il terremoto abruzzese pari a 0,65 grammi. Prima di arrivare alla scossa più elevata sono state fatte varie prove per calibrare adeguatamente parametri come la rigidezza dei materiali e la distribuzione delle masse. In seguito, il test, il primo in Italia di simile portata, ha provato la resistenza della costruzione, consentendo agli studiosi di comprendere importanti dinamiche legate all'elasticità del legno, in relazione alle sollecitazioni provocate dalle onde sismiche. «I test antisismici hanno evidenziato le notevoli capacità della struttura portante di sostenere accelerazioni orizzontali simili a quelle dei terremoti più intensi», ha spiegato Alberto Pavese, direttore di TREES Lab, il laboratorio per la simulazione sismica di Eucentre. La struttura pavese, sorta nel 2003, offre anche l'opportunità di partecipare a seminari di approfondimento per la progettazione degli edifici situati in aree sismiche. Ha, inoltre, contribuito alla nascita della Fondazione Global Earthquake Model (GEM), avente come obiettivo lo sviluppo di standard e strumenti per il calcolo del rischio sismico a livello mondiale. Collabora con oltre cento organizzazioni sparse per il mondo ed è rappresentata da più di cento ricercatori e docenti. La tavola vibrante il suo fiore all'occhiello: «Disporre di uno strumento capace di simulare violente scosse sismiche è essenziale per testare l’efficacia di nuove tecniche costruttive e migliorare la capacità di progettazione degli edifici in chiave antisismica», ci spiega Gian Michele Calvi, professore di ingegneria sismica alla Scuola Superiore Universitaria IUSS di Pavia e direttore di Eucentre. «In un’ottica di riduzione dell’impatto dei terremoti, è importante non solo che gli edifici resistano alle scosse ma che mantengano anche la loro funzionalità: dopo un sisma è essenziale ad esempio che gli ospedali funzionino e che energia elettrica, acqua e fognature subiscano solo brevi interruzioni». Progetti per il futuro? «Il prossimo autunno gli stessi test saranno ripetuti sullo stesso edificio completato con impianti, serramenti, pavimenti e rivestimenti», chiude Pavese. «Lo scopo è di investigare la capacità del sistema di proteggere parti non strutturali il cui collasso potrebbe essere rilevante per il possibile riutilizzo o la riparazione post sisma».

lunedì 5 settembre 2011

La ragazza che dipinge... baciando

La Marylin di Irish

Un'artista dà vita ai suoi quadri baciando la superficie dei fogli e delle tele su cui lavora. Sta in questo l'originalità di Natalie Irish, pittrice di Houston, Texas. L'artista s'è fatta strada tramite Youtube, dopo aver pubblicato dei video (accelerati), nei quali mostra la sua particolarissima tecnica basata sull'impiego delle labbra. Per gli esperti d'arte è un personaggio dotato di grande “senso artistico”, maturato anno dopo anno, in seguito ai promettenti risultati ottenuti fin da piccina. Una sera, all'improvviso, dopo essersi messa il rossetto, s'è resa conto che l'impronta lasciata sul fazzoletto, poteva essere affiancata da altre, fino a creare delle immagini di cose e persone. Da questa brillante intuizione ha poi sviluppato la sua personalissima arte, partendo dal ritratto di Marylin Monroe. Nel tempo s'è raffinata, al punto di creare soggetti che nulla hanno da invidiare ai risultati ottenuti dall'uso tradizionale del pennello. E le sfumature? Per quelle basta variare la pressione della bocca sulla tela, così da ottenere i chiaro scuri che si desiderano. Ma la Irish non si ferma qui, visto che fra le sue opere figurano anche prodotti ottenuti dalla “digitazione” delle impronte digitali (la tecnica si chiama “thumbprints”). Non è l'unica artista originale che si sta affacciando al mondo internazionale dell'arte.

Un'opera di Kyle Bean

C'è anche l'inglese Kyle Bean, che ritrae i collaboratori della rivista Wallpaper per il numero The Handmade Issue 2011, utilizzando trucioli di pastelli, assemblati fra loro con una pinzetta. Non solo. “Dando uno sguardo approfondito al portfolio di Kyle Bean, non si può che restare affascinati dalla maestria con la quale costruisce – usando prevalentemente carta e cartone – immagini dal carattere inconfondibile e dalla notevole forza espressiva”, si legge su designaside.com. “Kyle, che sarebbe più corretto definire un visual designer, ha visto pubblicati i suoi progetti per clienti del calibro di Diesel, Wired, New York Times, BBC, GQ Magazine e Louis Vuitton”. E in Italia? Da noi possiamo citare Fabrizio Vendramin, vincitore della seconda edizione di Italia's Got Talent. Classe 1962, Fabrizio lo si è visto in tv per la sua grande capacità di creare a tempo di musica il ritratto del cantante ascoltato dipingendo. La sua tecnica è chiamata “paintjam”. 

Natalie Irish al lavoro: