martedì 30 ottobre 2012

La storia della Legge di gravità


Isaac Newton ha tredici anni e segue con vivo interesse dei lavoratori intenti a edificare un mulino a vento nei pressi della città di Grantham. Da poco ha fatto la sua comparsa questo tipo di costruzione, e il piccolo Isaac ne è entusiasta: torna a casa e annota su un taccuino tutto ciò che ha visto, oltre a fabbricare un modello in miniatura del mulino con cui lascia ammutoliti i coetanei. Dopo qualche giorno giunge alla fine dell'opera, ma gli manca il “mugnaio” che possa attivare la ruota. Lo trova pensando al topolino che gli gira per casa, obbligandolo a percorrere un tragitto ben preciso. È un piccolo affresco che racconta la quotidianità del genio secentesco, che grazie a questa sua attitudine a studiare e indagare la funzionalità delle “cose” arriverà addirittura a comprendere il funzionamento dell'universo. A ciò, naturalmente, arriva per gradi, appassionandosi innanzitutto della filosofia naturale, la materia che lo strappa dalla convinzione di essere un reietto, un individuo inadatto al mondo e per questo facilmente attaccabile dai compagni e dalle istituzioni. In casa dei Clark, dove è stato affidato dalla madre per frequentare le scuole secondarie, trova tre autori che rivoluzionano il suo pensiero: René Descartes, autore di una teoria sui colori dell'arcobaleno; Giovanni Keplero, scopritore della tesi secondo la quale un pianeta ruota intorno al Sole tanto più lentamente quanto più è lontano; Christiaan Huygens, che inaugura il concetto di forza centrifuga. Porta a termine con successo il primo ciclo scolastico, ma incalzato dalla madre viene, in pratica, obbligato a prendersi cura della tenuta ereditata dal reverendo Barnabas Smith, col quale era convolata a nozze anni prima; ma il lavoro in una fattoria non si addice al giovane scienziato. Sono, infatti, più i disastri che combina, che non le azioni che possano concretamente giovare alla tenuta. Troppo sbadato per dedicarsi all'agricoltura e all'allevamento, un giorno, mentre è intento a collaudare una piccola ruota idraulica, non si accorge che i maiali sono scappati e che stanno divorando il mais del vicino. La madre, per l'inadempienza del figlio, viene multata e, per l'ennesima volta imbufalita dall'apparente inettitudine del figlio, rispedisce Isaac a Grantham, dove è, invece, accolto con grande calore dai vecchi professori, consci del suo immenso talento. Da lì a poco raggiunge le aule del Trinity College, il collegio più prestigioso di tutta l'università di Cambridge. È un “subsizar”, ossia uno di quei ragazzi che per studiare deve lavorare. Il suo genio, nel frattempo, progredisce: seziona il cuore di un anguilla per capire come funziona e si punge l'occhio con un bastoncino per capire la genesi dei colori, rischiando di ferirsi malamente. Nel 1664, però, per le troppe ore strappate al sonno, crolla ed è costretto a letto per un lungo periodo. Riesce comunque a passare con successo gli esami di fine anno, prima che la peste sconvolga l'Inghilterra, portando alla chiusura dell'università. Durante l'estate del 1665 Isaac gode, dunque, di molto tempo libero, che trascorre in giardino a riflettere sulle meraviglie della natura. Ed è presumibilmente in questo periodo che si sofferma per la prima volta sul problema della gravità, in relazione, per esempio, alla caduta di un frutto dall'albero o al sorgere e tramontare della Luna (da cui sono state tratte numerose leggende sul suo conto). Da qui partono una serie di interrogativi che lo stuzzicheranno per gli anni a venire: perché la mela cade orizzontalmente e non obliquamente? E che cosa sarebbe successo se fosse precipita da un punto più alto? Per esempio dalla Luna? Ha subito, però, una mezza risposta. Tutto ciò dipende dal fatto che la forza centrifuga di Huygens trascina la Luna lontano dalla Terra. Iniziano così i calcoli che porteranno a una delle più rivoluzionarie leggi della scienza: la legge della gravità universale, termine che rimanda al latino “gravis”, pesante. Prende spunto dalle leggi di Keplero. La prima dice che T2=costante x d3. Significa che un anno planetario T elevato al quadrato equivale al multiplo della distanza del pianeta dal Sole elevata al cubo. Ciò spiega perché Mercurio, il pianeta più vicino al Sole, possiede un anno di 88 giorni, contro i 90.410 giorni di Plutone, alle periferia del Sistema solare. La seconda legge dice che i pianeti proseguono lungo la loro orbita a velocità irregolari; mentre la terza si riferisce alle orbite ellittiche dei corpi planetari, e non sferiche come si era sempre creduto. Torna, dunque, ai frutti del suo giardino e alla cascola e rimugina sul fatto che la Luna non cade al suolo come la mela perché, evidentemente, la forza gravitazionale della Terra si oppone alla forza centrifuga della Luna. Valuta che il tutto debba dipendere dalla distanza fra le due masse e dalla velocità con cui il satellite si muove intorno al pianeta di riferimento. Riprende, quindi, la prima legge di Keplero elaborando che la forza centrifuga della Luna possa essere data dalla costante x m x d diviso la costante x d elevato al cubo. Da ciò ricava che la forza gravitazionale terrestre è uguale alla forza centrifuga lunare, a sua volta corrispondente alla costante x m diviso d al quadrato. È la conferma che l'attrazione gravitazione terrestre si indebolisce con l'aumentare della distanza dalla Terra, esattamente del quadrato della distanza. E spiega il motivo per cui una mela che si trova a una distanza due volte maggiore dalla Terra subisce un quarto dell'attrazione. A questo punto si fa largo nella mente del fisico un nuovo quesito: qual è la causa della forza gravitazionale? E per risolverlo si sofferma sul fatto che la forza gravitazionale non è unilaterale, poiché ogni corpo esercita una gravitazione su un altro (anche se piccolo); altrimenti non si spiegherebbero, per esempio, le maree. La sua prima teoria deve, quindi, essere rintuzzata introducendo un nuovo elemento, la massa 2. Si ottiene che la forza gravitazionale terrestre è data dalla costante x M (massa grande) x m (massa piccola) diviso d al quadrato, dove il termine 'costante' può ora essere sostituito con G, la costante gravitazionale di Newton; la misura precisa di G risale agli studi di Cavendish, che utilizza una bilancia di torsione, caratterizzata da due sfere di piombo fissate alle estremità di un'asta lunga due metri. Con questa formula si aprono moltissime prospettive. Si possono compiere calcoli su qualunque rapporto fra due masse, per esempio Galileo e Giove o il Sole e una cometa che ruota intorno ad esso. Nel 1682, quando compare nei cieli di Londra una cometa, per Newton l'universo non ha più misteri. È la stessa vista da Keplero nel 1607, e quella che passerà di nuovo dalla Terra nel 2061. Un'ulteriore prova della legge gravitazionale è data dalla possibilità di ipotizzare l'esistenza di Nettuno, senza osservazioni empiriche, ma solo con calcoli matematici. Oggi abbiamo modo di verificarla osservando il comportamento delle sonde interplanetarie, tipo quelle che hanno consentito all'uomo di atterrare sulla Luna, di visitare Marte e Titano. Va, infatti, tenuto conto del fatto che a dirigere questi mezzi verso l'obiettivo prefisso non sono tanto i motori collaudati dagli ingegneri spaziali, bensì la forza di gravità di questo o quell'altro corpo celeste in grado di attrarre verso la sua superficie qualunque massa che si trovi nella adiacenze. La legge di gravitazione universale ci consente anche di capire perché un corpo come la Luna possiede una gravità inferiore a quella di un pianeta come la Terra; e spiega il motivo per cui un astronauta sulla Luna può compiere balzi di dieci metri con il minimo sforzo, al contrario di ciò che accade sulla Terra e che accadrebbe con ancora maggiore difficoltà su realtà cosmiche come Giove, dotato di un campo gravitazionale molto forte. Nei dettagli sappiamo che, rispetto alla superficie terrestre, la Luna dista dal cuore della Terra di una misura 60 volte maggiore; e che il quadrato di 60 è 3600. La legge di Newton ci dice che l'attrazione gravitazionale terrestre sulla Luna è inferiore di 3.600 volte rispetto alla gravità di superficie. Dati che trovano conferma nel fatto che la gravità superficiale è pari a 9,8 m/s al quadrato, mentre l'accelerazione della Luna indotta dalla Terra è di 0,0027 m/s al quadrato; e in effetti 9,8/0,0027 fa proprio 3.600. Recentemente, però, è stata avanzata l'ipotesi che non tutte le parti del cosmo rispettano la forza di gravità. Uno studio ha infatti evidenziato che le galassie ellittiche sfuggono a questa legge; in questi casi gli scienziati ritengono che la loro esistenza possa essere giustificata soprattutto da un'estensione della teoria della Relatività di Einstein. Per questo sono state battezzate “galassie disobbedienti”.

Sandy, la tempesta (im)perfetta


Qualcuno ci sta già riprovando a ribadire che la fine del mondo è vicina. L'uragano Sandy ne è l'ennesima dimostrazione. In realtà ci troviamo di fronte a un fenomeno naturale assai facile da spiegare, benché caratterizzato da prerogative molto particolari. La più importante riguarda le sue dimensioni. La supertempesta ha un diametro di 289 chilometri ed è attraversata da venti che spirano a 144 chilometri all'ora. Secondo gli esperti è la più grande tempesta mai avvenuta – a memoria d'uomo – nel punto segnalato dell'oceano Atlantico. Viene classificato come un uragano di categoria 1. Ma il dato che stupisce di più, appunto, è la sua traiettoria: è infatti rarissimo che un uragano che nasce nell'oceano si spinga direttamente contro la città di New York. Sembrerebbe un'azione davvero premeditata da misteriose forze climatiche. Il punto è che si sta verificando un fenomeno atmosferico diverso dal solito, con l'innesco di una corrente di aria fredda da nord, e le bizzarrie delle correnti a getto provenienti da ovest. Mark Saunders, del Dipartimento di Fisica dello Spazio e del Clima presso l'University College di Londra ha chiaramente ammesso che “non esistono nei registri degli uragani riferimenti a fenomeni di questo tipo alle latitudini analizzate”. E i dati riguardano un ampio range temporale, andando fino al 1851. Sicché la tempesta potrebbe coinvolgere anche zone del tutto impreparate all'azione degli uragani, come quelle che circondano i Grandi Laghi. Gli ultimi bollettini diramati dagli USA parlano di milioni di persone, lungo la costa orientale degli Stati Uniti, del tutto impotenti di fronte alla furia della supertempesta. Con essa sono, infatti, arrivati piogge fortissime, inondazioni ed è caduta la neve negli stati a nord-est. Nel Queens, quartiere di New York, sono scoppiati vari incendi che hanno distrutto completamente delle abitazioni. Sette milioni di persone sono rimaste senza elettricità. Ancora adesso sono in azione duecento vigili del fuoco. Durante il suo cammino Sandy ha già ucciso diciassette persone in sette stati e rovinato pesantemente sei milioni di case. (Mentre una settimana fa ha fatto sessantasei vittime nei Caraibi). 5.700 i voli annullati: LaGuardia, Newark e John F. Kennedy dovrebbero riprendere la loro regolare funzione da domani pomeriggio. Per alcuni scienziati è, comunque, una situazione figlia dell'effetto serra e dei fenomeni ad esso legati. Il riferimento è a eventi atmosferici sempre più estremi che non risparmierebbero anche il nostro paese. Il ministro dell’Ambiente, Corrado Clini, intervistato dai microfoni di Tgcom24 ha rivelato che “negli ultimi venti anni dobbiamo purtroppo prendere atto che si stanno manifestando eventi descritti dai climatologi come conseguenze dei cambiamenti climatici. Bisogna considerare che dal 1980 i climatologi dicono che è in atto un cambiamento con l’intensificazione di fenomeni estremi, che non erano nella memoria, nelle zone temperate, anche in Italia”. 

Video: New York invasa dalle acque
 

martedì 23 ottobre 2012

L'origine del sorriso: Spigolature intervista Andrea Tintori

Area di scavo in Cina medirionale, coordinata da Andrea Tintori

In occasione della scoperta diffusa da Nature, relativa all'ipotetica “nascita del sorriso”, Spigolature Scientifiche ha avuto l'occasione di intervistare uno dei più importanti paleontologi italiani, Andrea Tintori, docente presso l'Università degli Studi di Milano. Attualmente Tintori si trova in Cina per lo studio di un pesce volante risalente a 240 milioni di anni fa.
Possiamo realmente dire di avere scoperto le origini del sorriso?
I denti in realtà compaiono già nel siluriano, almeno quando fanno la loro comparsa gli attinotterigi (pesci ossei) e i condritti (classe di pesci comprendente oltre 1100 specie diverse fra cui squali e razze): anche se i placodermi sono più 'primitivi' evidentemente non inventano nulla. D'altra parte l'evoluzione è piena di convergenze adattative. E volendosi attenere a questo studio, non sono i primi denti segnalati nei placodermi.
La nuova ricerca scardina l'ipotesi delle cosiddette 'piastre gnatali'?
Credo si debba aspettare a scardinare vecchi modelli. È probabile che i nuovi metodi di indagine chiariscano la situazione in molti altri generi, ma non credo si debbano buttare gli gnatali nel cestino.
Cos'hanno ancora di interessante da raccontarci i placodermi sulle nostre origini?
Dipende cosa si intende per nostre origini: mammiferi, tetrapodi, vertebrati? Come tutti i gruppi che hanno avuto un grande successo, ma si sono estinti, incuriosiscono molto, i pochi specialisti di pesci che riescono a sopravvivere in un mondo dominato dai dinosaurologi... Penso che i placodermi rimarranno comunque in una 'nicchia' costituendo un ramo laterale del grande albero dell'evoluzione.
Come proseguono gli scavi in Cina?
Ci stiamo occupando di un pesce volante vissuto 240 milioni di anni fa. Interessante sarebbe capire come mai i pesci volanti ricompaiono in un gruppo molto diverso (gli attuali teleostei) 200 milioni di anni dopo l'esistenza degli animali da noi presi in esame. Questi sono i veri misteri dell'evoluzione... alla faccia dei creazionisti! 

Il professore con alcuni studenti

Chi è Andrea Tintori: 

Nato a Milano il 4 marzo 1953 e residente a Malgrate, è Professore Ordinario di Paleontologia presso il Dipartimento di Scienze della Terra 'A. Desio' dell'Università degli Studi di Milano dal 2001.  Docente di Paleontologia dal 1991, insegna attualmente nel corso di laurea triennale in Scienze Naturali e nella laurea specialistica in Paleobiologia e Storia della Vita. La sua attività di ricerca verte soprattutto sui Vertebrati Fossili del Triassico Italiano e Svizzero ai quali recentemente si è aggiunto materiale cinese scavato in collaborazione con l'Università di Pechino nella Provincia del Guizhou (Cina meridionale). E' responsabile di numerosi scavi paleontologici sia in Italia che in Svizzera e si occupa anche di alcuni piccoli musei locali cercando di rendere accessibili al pubblico le notevoli scoperte scientifiche di questi ultimi anni. Sovraintende la parte scientifica anche del dossier per l'inserimento della parte italiana del compartimento paleontologico del Monte San Giorgio (Besano, VA) nel Patrimonio mondiale dell'Umanità, dopo che già la parte svizzera è stata inserita nel 2003. Coordina altresì un piccolo gruppo di ricerca sui pesci mesozoici che comprende specialisti in modo da coprire la maggior parte delle necessità relative alle principali faune fossili a vertebrati del Mesozoico italiano: si tratta dell'unico gruppo italiano che lavora con continuità su tali argomenti e uno dei pochissimi al mondo. Ha partecipato anche a diverse spedizioni extraeuropee in Himalaya (India e Nepal), Karakorum (Pakistan), Montagne Rocciose (Canada), Sultanato dell'Oman (Penisola Arabica), Cina Meridonale, occupandosi sia di pesci che di vari gruppi di invertebrati. E' stato finora autore di circa 100 articoli scientifici. E' attualmente Presidente della Società Italiana di paleontologia per la quale ha organizzato nel 2007 il convegno annuale a Barzio in Valsassina presso la sede del Parco regionale della Grigna Settentrionale, ente che finanzia anche le nuove campagne di scavo nel Triassico medio della Formazione di Buchenstein.

lunedì 22 ottobre 2012

Le origini del sorriso

Il sorriso di "Amelie"

E' noto che per dar sfoggio a un sorriso elegante e suadente sono indispensabili due requisiti fondamentali dell'anatomia umana: i denti e le mascelle. Tuttavia regna il buio assoluto sull'origine del primo sorriso, o meglio, sulle prime caratteristiche morfologiche che avrebbero condotto all'acquisizione delle espressioni facciali, argomento che è stato da poco ripreso in mano da un team di studiosi inglesi di Bristol, utilizzando i raggi x e i resti di un pesce morto da milioni di anni. Ma andiamo con ordine. Tutti i vertebrati che conosciamo possiedono spina dorsale, denti e ganasce. Ma si pensava che le forme primordiali possedessero, al posto della dentatura, delle mascelle particolarmente rinforzate, ossute, in grado di assolvere egregiamente (e un po’ orribilmente) il compito della masticazione. Evidentemente è una teoria superata, visto che le analisi condotte su un fossile di Compagoposcis (un pesce ancestrale) dimostrano che l'evoluzione della mascella è andata di pari passo con l'acquisizione della dentatura. "Siamo stati in grado di visualizzare ogni linea di tessuti e cellule dei fossili testati e la crescita all'interno delle ganasce ossee", rivela Martin Ruecklin, dell'Università di Bristol. "Elementi che ci hanno permesso di determinare lo sviluppo delle mascelle e dei denti, dimostrando così che i placodermi possedevano i denti. I risultati risolvono il dibattito annoso sull'origine dei denti e quindi del nostro sorriso". I test sono stati condotti presso il Paul Scherrer Institut, in Svizzera, coinvolgendo addirittura un sincrotrone, e quindi dando vita a un'originale sinergia fra il mondo della fisica e quello della paleontologia: "Con la radiazione da esso prodotto abbiamo, infatti, studiato in 3D il campione ittico, senza il rischio di romperlo o danneggiarlo". Per arrivare a ciò sono state compiute delle sostanziali modifiche nella procedura standard, di solito utilizzata per analizzare parti anatomiche molto piccole. In questo caso, invece, si è intervenuti su un'ampia superficie, sfruttando al meglio la potenza dell'acceleratore di particelle. Zerina Johanson, co-autore dello studio, riporta l'attenzione sul fatto che, da questa ricerca, si aprono nuovi spiragli per ciò che riguarda l'affermazione della struttura anatomica che ha dato origine al sorriso. Si riferisce ai cosiddetti pesci gnatostomi, animali provvisti di mascella e mandibola, con un carapace osseo molto sviluppato. 


Fondamentale, quindi, la disponibilità di ottimi reperti fossili scoperti negli ultimi anni in Australia. Rappresentano una classe di vertebrati completamente estinta, strettamente rapportabile ai pesci moderni: i placodermi (un esempio, nel disegno sopra), vissuti fra il siluriano superiore e il devoniano superiore. Sul loro conto s'è sempre fatta un po’ di confusione, relativamente, appunto, all'acquisizione della dentatura: di solito i paleontologi, fanno, infatti, riferimento a strutture simili ai denti, dette piastre gnatali. Ora, però, le cose sembrerebbero confermare che i denti si sarebbero sviluppati prima del previsto, conferendo ai nostri antichissimi progenitori un sorriso molto più romantico di quello supposto finora. Va, in ogni caso, precisato che il sorriso vero e proprio è una prerogativa della primatologia. Lo conferma uno studio pubblicato sull'American Journal of Primatology, condotto da due ricercatrici, Lyndasay Cherry e Bridget M. Waller dell’università di Portsmouth. Gli esperti hanno seguito il comportamento di un gruppo di gorilla durante il gioco. Da ciò è stato possibile risalire al “sorriso” del gorilla inteso come somma tra un atteggiamento “play face” (che suggerisce la predisposizione a giocare con il compagno) e un atteggiamento “bared teeth” (“denti scoperti” riconducibili a situazioni di presentazione e affiliazione), che sarebbe l’antenato del sorriso così come lo conoscono gli esseri umani: una sorta di messaggio in cui si dichiara al "vicino" che non si hanno intenzioni bellicose, ma solo l'intenzione di comunicare la voglia di divertimento. Ma la ricerca di Bristol resta comunque un buon motivo per approfondire i retroscena di questa meravigliosa acquisizione dell'uomo, che non ha lasciato indifferente nemmeno il padre dell'evoluzione, sua maestà Charles Darwin: "Il sorriso potrebbe essere considerato come il primo stadio nello sviluppo del riso; (…) l'abitudine di emettere suoni fragorosi e ripetuti per il piacere portò in un primo tempo alla retroazione degli angoli della bocca e del labbro superiore e alla contrazione dei muscoli che circondano gli occhi, (…) ora, a causa dell'associazione e della lunga abitudine, quegli stessi muscoli vengono messi in leggera attività ogni volta che vengono suscitati in noi, per una qualsiasi causa, quei sentimenti che, se fossero più forti, ci porterebbero al riso; e il risultato è il sorriso".



I tipi di sorriso

SORRISO DI DUCHENNE: spontaneo e genuino
CIVETTUOLO: simile a un ghigno
TIMIDO: appena accennato, quasi "serio"
D'AMORE: con la testa inclinata e lo sguardo dolce
INTERESSATO: si effettua sollevando le sopracciglia e sollevando leggermente le labbra all'insù
IMBARAZZATO: si esprime abbassando lo sguardo e a volte anche la testa


lunedì 15 ottobre 2012

Voyager 1, il viaggio infinito


È una storia cominciata 35 anni fa che nessuno avrebbe mai immaginato potesse andare così bene. È la storia delle sonde Voyager, in viaggio nello spazio dal 1977 e ancora oggi perfettamente funzionanti, benché si trovino ormai oltre i confini del sistema solare. Sono decollate a bordo di un razzo Titan IIIE-Centaur. Ancora oggi nel centro di ascolto del Deep Space Network della NASA a Goldstone, arrivano, infatti, costantemente messaggi dalla sonda Voyager 1, raccontandoci di mondi lontanissimi e condizioni di vita pressoché impossibili. Usano ancora registratori a nastro, concetti tecnologici già ampiamente superati, ma ancora, in questo caso, incredibilmente “vitali”. Complice il fatto che, dal 1990, sono stati disattivati tutti gli strumenti “ottici” - idonei per fotografare i miracoli di Giove e Saturno, ma non le profondità monotone del cosmo - per recuperare energia preziosa. Attualmente Voyager 1 si trova a 18 miliardi di distanza dalla Terra, circa 120 volte la distanza che separa il nostro pianeta dal sole. La lunga antenna della base americana capta segnali particellari, figli del vento solare. Ad agosto, per esempio, i messaggi parevano più turbolenti del solito, dimostrazione che la sonda stava attraversando un'area del cosmo particolarmente “insidiosa”. La situazione è cambiata il mese successivo, passando da 25 particelle al secondo a 2 particelle al secondo. La NASA fa inoltre sapere che da queste osservazioni sarà possibile stabilire il limite esatto dell'eliopausa, con la formazione della tipica bolla formata dallo spazio interstellare. In generale, per giungere sul nostro pianeta, i dati raccolti dalla sonda spaziale impiegano 16 ore e 38 minuti. Voyager 1 è in azione da 35 anni, 1 mese e 10 giorni (dato riferibile al 15 ottobre 2012). Il viaggio interstellare di Voyager è, invece, iniziato il 15 giugno 2012, diventando il primo oggetto umano a lasciare il sistema solare. La sua prima missione ufficiale risale al 1980, con l'esplorazione di Giove e Saturno. Per l'esattezza la sonda iniziò a fotografare Giove nel gennaio 1979. Le scoperte iniziarono fin da subito, con l'individuazione dei vulcani di zolfo su Io e l'approfondimento delle caratteristiche degli anelli di Saturno. Secondo i dati raccolti da Nature, Voyager 1 ha superato il cosiddetto “termination shock” (in corrispondenza del rallentamento delle particelle del vento solare), nel 2003. Oggi si muove a 17mila chilometri al secondo, alimentata da una batteria RTG – un generatore termoelettrico a radioisotopi. Dovrebbe andare avanti così fino al 2025, anche se la corrispondenza con la Terra potrebbe bloccarsi nel 2016, con l'avaria del giroscopio, non più in grado di puntare i suoi occhi verso il pianeta blu. Ma la sua corsa non si arresterà. Davanti a sé c'è il muro di idrogeno (fra l'eliopausa e il bow shock, fenomeno particolare della magnetosfera) che potrebbe superare intorno al 2040 e la costellazione dell'Ofiuco: fra 40mila anni Voyager 1 si troverà dalle parti di AC+793888, una stella dalla quale disterà “appena” 1,6 anni luce. Alla luce di queste considerazioni suonano incredibili le parole da poco pronunciate da Ed Stone, scienziato del progetto Voyager presso il Caltech: «Quando le sonde Voyager furono lanciate, nel 1977, l’era dell’esplorazione spaziale aveva appena 20 anni», spiega il ricercatore. «Molti di noi del team sognavamo di arrivare allo spazio interstellare, ma non avevamo idea di quanto esattamente poteva durare il viaggio o se le due sonde in cui abbiamo investito così tanto tempo ed energia sarebbero rimaste operative per abbastanza tempo da arrivarci». Un messaggio, quindi, per E.T.: Voyager 1 porta con sé un disco registrato di rame e placcato d'oro che contiene immagini e suoni terrestri, assieme a qualche istruzione su come suonarlo... 

martedì 9 ottobre 2012

Intelligenza carnivora

La Gola di Olduvai, Tanzania

Il mistero dell'intelligenza affascina da sempre l'uomo, tuttavia non è mai stato chiarito in che modo e perché questa prerogativa del sistema nervoso abbia cominciato a progredire proprio nella nostra specie. Ora tentano di dare una spiegazione esaustiva degli studiosi sulla rivista PLOS ONE. Si riferisce alla scoperta di un frammento di teschio rinvenuto in Tanzania e risalente a 1,5 milioni di anni fa. Secondo gli studi emersi da questa ricerca le dimensioni del cervello – e quindi l'incremento intellettivo – sarebbero andati di pari passo con l'acquisizione della dieta carnivora. Il reperto riportato alla luce appartiene a un bimbo di due anni e mostra chiari segni di iperostosi porotica, associata ad anemia, condizioni assimilabili a carenze nutrizionali e in particolare alla privazione di carne. Probabilmente il bimbo dopo lo svezzamento avrebbe patito la carenza di vitamina B12 e B9 (presenti in abbondanza nei prodotti di origine animale). Secondo gli scienziati, la necessità di cacciare carne, avrebbe favorito l'ingegno e quindi l'ingrandimento del cervello, con tutte le sue conseguenze. «Mangiare carne è sempre stata considerata una delle cosa che ci ha resi umani, grazie alle proteine che contribuiscono allo sviluppo del nostro cervello», rivela Charles Musiba, dell'Università del Colorado. «Il nostro lavoro di ricerca mostra che 1,5 milioni di anni fa non eravamo dei carnivori opportunisti: ci siamo dedicati attivamente alla caccia per mangiare carne». Una prova è fornita dal fatto che agli scimpanzé, a noi fileticamente simili, manca il nostro livello di intelligenza proprio perché la loro dieta non è mai cambiata. «Questo ci distingue dai nostri lontani cugini», prosegue Muisba. «Il punto è: che cosa ha innescato il nostro consumo di carne? Un cambiamento ambientale? L'espansione del cervello stesso? In realtà, non lo sappiamo». Su PLOS ONE si legge che la necessità di cacciare prede di grosse dimensioni stimolò l'aggregazione tra famiglie ed individui diversi, lo sviluppo di strumenti complessi e di tattiche (e metodi di comunicazione) sofisticati. Tutti gli elementi che porteranno poi alla nascita della società in senso moderno. Ora però le cose sembrerebbero cambiate. L'uomo ha evoluto anche una coscienza e sentimenti di natura etica. Ad essi si appellano soprattutto i vegetariani, convinti che la dieta carnivora non sia una prerogativa umana. Secondo varie ricerche - compresa una recente effettuata dagli esperti della Majo Foundation For Medical Education and Research, Minnesota, USA - gli alimenti carnei sono ricchi di fenilalanina e di tirosina e stimolano due neurotrasmettitori, la dopamina e la norepinefrina; entrambi provocherebbero il comportamento aggressivo e violento e la propensione alla lotta, tipico degli animali predatori. D'altra parte, invece, i vegetali possiedono grandi quantità di amido e fibra che influenzano la concentrazione di triptofano nel cervello, aumentandone la disponibilità ad essere trasformato in serotonina, che ingenera nel comportamento umano tendenza alla serenità, alla socialità, al gioco. È il caso di tornare alle usanze dei nostri antichi predecessori? 

Il reperto proveniente dalla Gola di Olduvai
 

giovedì 4 ottobre 2012

FUORI DAL MONDO


Si chiudono in camera e dicono addio al mondo. Gli amici salutati per sempre e sostituiti da realtà virtuali. Mamma e papà obbligati a farsi da parte e far finta che non siano mai nati. Rappresentano una fetta di preadolescenti, adolescenti, ventenni e in certi casi addirittura trentenni che, in pratica, rinunciano a vivere per dedicarsi esclusivamente a passioni solitarie come playstation, tv, social network, fumetti. Vengono chiamati hikikomori: il termine, di origine giapponese, introdotto per la prima volta dallo psichiatra nipponico Saito Tamaki, significa “stare in disparte, isolarsi”. Secondo alcuni studiosi è il frutto di un mix educativo derivante da una società dove i rapporti umani sono sempre più aridi, e da genitori che crescono i propri figli all'insegna della competitività e dell'arrivismo. Sotto accusa anche alcuni sistemi scolastici giudicati troppo rigidi e severi. Se non ci sono caratteri predisposti a questo tipo di insegnamento, si ha, dunque, l'effetto opposto, con giovanissimi che anziché lottare per ritagliarsi un posto della società, si fanno definitivamente da parte, calandosi in un mondo irreale dove, in qualche modo, ritrovano se stessi. Sembrava una tendenza tipica del Sol Levante, con il 20% dei giovanissimi coinvolti nel fenomeno, dove numerose discipline spronano all'isolamento e alla meditazione, e invece ora si scopre che questa tipologia di ragazzi si sta diffondendo sempre più anche in Europa, Italia compresa. Anche se vere e proprie stime non si possono fare, si parla di centinaia di ragazzi in gravi condizioni e migliaia in situazioni critiche: «Nel nostro Paese abbiamo circa otto milioni di adolescenti, molti dei quali dediti a un'attività internauta esasperante, con una media di otto ore davanti al computer», dice Roberto Cavaliere, psicologo e psicoterapeuta, presidente dell'Associazione Italiana Lotta alle Dipendenze Affettive e relazionali. «Non sono riconducibili alla realtà giapponese, soprattutto per via di un background sociale differente, ma anche in questo caso ci si riferisce a ragazzi affetti da un disturbo che abbisogna di cure, assimilabile alle patologie della fobia sociale e/o ossessivo-compulsiva». Gli psichiatri lanciano l'allarme e parlano ufficialmente di “ritiro dal sociale in forma acuta”. Il male viene spesso associato e confuso con la fobia sociale e con la sindrome di Asperger, un forma blanda di autismo; di fatto non è ancora stato incluso nel Diagnostic and Statistical Manual for Mental Disorders (DSM IV-TR), la Bibbia delle patologie psichiatriche. «Probabilmente la forma mentale che si avvicina di più a questo disturbo è la fobia sociale», racconta Cavaliere, «che può essere considerata alla stregua di una timidezza eccessiva. In Italia può essere assimilata a giovani che passano tutto il loro tempo appiccicati al pc o a un videogioco. Mi piace parlare anche di “anoressia relazionale”. Chi soffre di questo disturbo, infatti, rifiuta il mondo, il contatto con l'esterno, proprio come un anoressico tradizionale evita il cibo». Ma mentre l'anoressia tipica riguarda soprattutto il gentil sesso, in questo caso il male si riferisce in particolar modo ai maschi. Il fenomeno è infatti ascrivibile ad essi nel 90% dei casi. Un altro parametro è rappresentato dall'agiatezza della famiglia colpita dal problema. I figli dei meno abbienti difficilmente si auto-isolano: le ristrettezze economiche non consentono a un individuo adulto di poter essere mantenuto incondizionatamente; semmai subentrano altre patologie legate al bullismo, alla droga e alla criminalità. Ma quando si può oggettivamente parlare di un hikikomoro? Quando l'isolamento sociale prosegue per più di sei mesi, compromettendo severamente le relazioni sociali. E l'attività scolastica. Gli hikikomori, infatti, spesso rifiutano di andare a scuola, anche se il loro grado intellettivo è spesso superiore alla norma e così la loro creatività. Inizialmente la vittima del disturbo può sentirsi genericamente a disagio nei confronti del mondo che lo circonda; fatica a socializzare, a comunicare, a trovarsi a proprio agio fra i simili. Poi il disagio si trasforma in un vero e proprio malessere esistenziale, con la comparsa di sindromi depressive e ansiogene. L'isolamento è sempre più totale. Nei casi estremi si rifiuta perfino il contatto con i propri familiari. I genitori si ritrovano a dover lasciare il cibo sull'uscio della camera del figlio e raccogliere l'ennesima lista di cose da fargli avere. Il giorno viene scambiato con la notte e il tempo perde di significato. Si parla sovente di letargia, con rallentamento psicomotorio e alterazioni più o meno gravi del metabolismo. A questa situazione si arriva per gradi, non si può, quindi, pensare di risolvere il problema con un semplice richiamo o una sgridata: «Per riuscire ad aiutare questi ragazzi occorre utilizzare la loro stessa arma: il mondo virtuale», spiega Cavaliere. «Si seleziona una persona, un parente o un amico, che entri in relazione via web con il malato, per cercare di ottenere un primo contatto. Da qui, poi, si può lavorare per instaurare una “alleanza terapeutica” che porti il ragazzo dall'interno della sua stanza al mondo esterno, il tutto con estrema cautela e gradualità. Ogni piccola forzatura può interrompere tale percorso». In Italia non esistono centri specificatamente tarati per questo tipo di cura, ma ci si può riferire a strutture specializzate nel recupero di individui soggetti alla dipendenza da internet o da altre “compulsioni”. A Parma gli hikokomori vengono curati con successo già da vari anni. «Ottimi risultati vengono ottenuti anche al Policlinico Gemelli di Roma», chiude Cavaliere, «dove risiedono centri che curano con successo le dipendenze da internet o social network».

mercoledì 3 ottobre 2012

Le canzoni di oggi? Sempre più tristi


Le canzoni moderne sono più tristi di quelle del passato? Secondo numerosi studi parrebbe di sì. È necessario innanzitutto partire dal presupposto che l'allegria e la tristezza di un brano dipendono da due aspetti chiave: la tonalità, minore o maggiore, e il tempo, più o meno accelerato. Una canzone è, dunque, triste, tanto più il suo tempo è rallentato in tonalità minore. Sulla base di ciò gli studiosi hanno rivelato che negli ultimi cinquant'anni le canzoni sono divenute più malinconiche poiché questi parametri si sono riscontrati sempre più spesso. Basta dare un'occhiata all'immagine seguente. I pallini blu indicano le melodie in minore, quelli rossi, in maggiore. Come si può notare, col passare degli anni, i pallini blu aumentano, suggerendo che, sostanzialmente, le canzoni sono sempre più tristi. 


In generale s'è visto che nel periodo compreso fra il 1965 e il 1969 la tonalità maggiore era utilizzata nell'85% delle canzoni, con un tempo medio di 116,4 bpm (battiti per minuto). Oggi, invece, s'è visto che la tonalità maggiore è scivolata al 42,5%, con un rallentamento dei tempi, in media di 99,9 bpm. Un'altra curiosità riguarda gli interpreti delle canzoni. Cinquant'anni fa il 79% dei cantanti era di sesso maschile, a differenza del 61,7% della situazione attuale. Sicché, parlando di canzoni tristi, viene utile spolverare uno studio condotto dalla SIAE inglese – coinvolgendo quasi duemila persone - incentrato sulle canzoni più tristi di tutti i tempi. In testa ci sono i REM con “Everybody Hurts”, seguiti da Eric Clapton con “Tears In Heaven” di Eric Clapton e Leonard Cohen, con “Halleluja”. Sarebbe bello fare la stessa cosa per le canzoni italiane...