lunedì 30 dicembre 2013

I segreti dell'emodieta


Lo scrittore nipponico che si firma con lo pseudonimo Jamais Jamais ritiene che ogni gruppo sanguigno sia riconducibile a un certo di tipo di carattere; e che quindi in base alla firma ematica che differenzia ognuno di noi sia possibile stabilire con chi andremmo più d'accordo. Una guida sull'argomento è letteralmente andata a ruba. In Italia siamo lontani da questo tipo di "teorie", tuttavia anche da noi sta facendosi largo l'affascinante ipotesi che il gruppo sanguigno possa suggerire il tipo di dieta più idonea per il nostro benessere e la nostra salute. Seguendola potremmo tenere a bada obesità, allergie e sindromi metaboliche. Solo per citare alcune delle tante disfunzioni legate all'alimentazione. Si chiama "emodieta" e, piano piano, contemporaneamente al diniego di molti specialisti, sta coinvolgendo sempre più italiani. Di che cosa si tratta?
Il riferimento è a una serie di alimenti altamente consigliati (o sconsigliati) per specifici gruppi sanguigni e a un particolare gruppo di proteine, le lectine, che reagirebbero con il sangue in modo diverso provocando, per esempio, incompatibilità alimentari. Peter J. D'Adamo, il naturopata americano che per primo ha sviluppato l'emodieta dice che ogni gruppo sanguigno è relazionabile a un preciso status sociale che rimanda alla preistoria. Il gruppo zero, il più antico, discenderebbe dai primi uomini che vivevano di caccia e raccolta; il gruppo A dai primi agricoltori che cambiarono anche stile di vita divenendo sedentari; il gruppo B sarebbe rappresentato dal DNA tipico dei pastori asiatici e si sarebbe differenziato circa 10mila anni fa, fra le popolazioni mongole e caucasiche; il gruppo AB, infine, sarebbe il più recente, il più diversificato e includerebbe un po’ delle caratteristiche di tutti gli altri. Sulla base, dunque, di un preciso gruppo sanguigno sarebbe possibile formulare diete peculiari, rimandando a usi e costumi nutrizionali che affondano le loro radici agli albori della civiltà.
Gli appartenenti al gruppo zero, per via dell'attitudine a correre e a cacciare dei propri avi, possiedono un metabolismo veloce, figlio di progenitori che si nutrivano di carne e vegetali spontanei. Oggi dovrebbero stare lontani dai cereali, "sconosciuti" ai loro stomaci, e fare qualcosa per migliorare il proprio sistema immunitario, più fragile e delicato rispetto agli altri. Gli individui del gruppo A sono predisposti per consumare abbondantemente alimenti vegetali, come accadeva ai propri antenati, dediti esclusivamente all'attività agricola. Gli appartenenti al gruppo B, i nomadi, avevano una dieta diversificata; mangiavano un po’ di tutto, con una predilezione particolare per carne e latticini. L'AB è il più complesso e recente, riguarda una piccola fetta dell'umanità, compresa fra il 2 e il 5%; si sarebbe formato dalla "fusione" fra il gruppo A e B ed è riconducibile a individui che possono nutrirsi un po’ di tutto, ma con moderazione.
Nonostante la curiosità suscitata in molti italiani dall'emodieta (anche grazie a figure come il dottor Piero Mozzi, autore di vari libri sull'alimentazione), l'intellighenzia scientifica insorge, ritenendola poco attendibile per non dire del tutto sconclusionata. Seguendola, infatti, ci sarebbe il rischio di nutrirsi malamente, finendo per andare incontro a patologie anche serie. Gli appartenenti al gruppo 0, per esempio, potrebbero accusare problemi articolari; quelli del gruppo A, ammalarsi di anemia e disturbi epatici; il gruppo B potrebbe essere suscettibile al diabete e l'AB a disfunzioni cardiache. Spara a zero sull'emodieta anche l'American Journal of Clinical Nutrition, prestigiosa rivista statunitense, secondo la quale non esiste prova scientifica in grado di avvalorare la sua attendibilità.  

Potrà Google sconfiggere la morte?


Non ha nulla a che vedere con l'omonima città fantasma californiana, né con il famoso pirata britannico Calico Jack. La California Life Company (da cui l'acronimo Calico) avrà, peraltro, un ritorno d'immagine molto meno sinistro, se sarà possibile rispondere affermativamente alla domanda comparsa in questi giorni sulla copertina del Time: "Potrà Google sconfiggere la morte?". Domanda a dir poco sensazionalistica, ma solo apparentemente velleitaria e presuntuosa, se si pensa che alle sue spalle si celano due figure di massimo grido dell'intellighenzia globale: Larry Page, co-fondatore e attuale ceo di Google, e Arthur Levinson, chairman ed ex-ceo di Genentech, società di biotecnologia specializzata in studi sul Dna ricombinante, e membro del Consiglio di amministrazione di Apple. Il riferimento è una nuova società, battezzata, appunto, Calico, che intende raggruppare le migliori menti internazionali impiegate nel campo della biologia molecolare, della fisiologia umana, della gerontologia, per far luce su tutti i meccanismi che determinano l'invecchiamento, e quindi la morte. Attraverso il loro lavoro congiunto, sostenuto, prevedibilmente, da budget di tutto riguardo, si spera di poter entro una decina di anni, massimo una ventina, individuare una sorta di "elisir di lunga vita", che possa di fatto annullare gli effetti della vecchiaia, trasformandoci tutti in rispettabili highlander. Come? Questo è ancora da vedere, tuttavia si sa da dove partire, per esempio dalle tartarughe, dalla specie Emydoidea blandingii, le cui femmine, a ottanta anni suonati, depongono ancora le uova, senza mostrare alcun cedimento "strutturale". Non sono gli unici animali dotati di simili prerogative. Anche fra i pesci e gli anfibi ci sono specie che sembrano non conoscere l'invecchiamento. E lo stesso accade in creature "inferiori" come le meduse, tipo la Tuttitopsis dohrnii che, dopo la fase riproduttiva, anziché morire, scivola in fondo al mare ritornando allo stadio iniziale di polipo (un po’ come se una farfalla, prima di spiccare l'ultimo volo, si ritrasformasse in bruco). I topi, certo, non sono altrettanto longevi, tuttavia è grazie ai test condotti su questi roditori che è stato possibile valutare l'opportunità di modificare un solo gene per allungare la loro vita del 65%. Lo conferma Cynthia Kenyon, luminare della University of California di San Francisco, interessata soprattutto all'universo dei nematodi; i Caenorhabditis elegans vivono in media due o tre settimane, ma alterando la loro genetica è possibile farli andare avanti per sei settimane. E non è un caso che la Kenyon sia anche a capo della Elixir Pharmaceuticals, azienda che mira a "estendere la durata e la qualità della vita umana". Ma per l'uomo è sicuramente tutto più complicato, partendo dal presupposto che siamo una specie complessa, e che è inverosimile pensare che possa esistere una sorta di semplice e banale interruttore molecolare che - "pigiando" off - possa annullare gli effetti della senescenza. C'è chi, addirittura, è convinto che non si arriverà da nessuna parte, come Leonard Hayflick, gigante della gerontologia mondiale, secondo il quale «nessun intervento rallenterà, arresterà, o invertirà il processo di invecchiamento negli esseri umani». Contrario alle tesi della Kenyon, sostiene che gli studi della scienziata non spiegano la possibilità di annullare la vecchiaia, ma solo il rafforzamento fisico di determinate specie, prerogativa essenziale per difendersi dalle malattie e campare più a lungo. Ma Google, evidentemente, non vuol farsi condizionare e va avanti per la sua strada: «Con una speranza di vita più lunga, pensando in grande riguardo a salute e biotecnologia», dice Page, «credo che possiamo migliorare milioni di vite». 

sabato 28 dicembre 2013

Italia, futuro deserto


L’Italia si trasformerà in un deserto e le sue coste finiranno inghiottite dal mare. Sono le ipotesi catastrofiche che si evincono dalle ultime ricerche condotte da Vincenzo Ferrara, climatologo dell’Enea. Le sue conclusioni sono state commentate alla tavola rotonda “L’alba del giorno dopo” organizzata da Modus Vivendi. Secondo l’esperto entro il 2090 il Mediterraneo salirà di 18 – 30 centimetri (con picchi di 70 cm nell’Alto Adriatico), e 4.500 chilometri quadrati di aree costiere verranno letteralmente spazzate via dalle acque. Contemporaneamente l’innalzamento delle temperature e l’inaridimento del clima porteranno alla desertificazione di mezza Italia: da vent’anni a questa parte il fenomeno è addirittura triplicato e ora è il 27% del territorio nazionale a correre seri rischi in tal senso. I dati relativi ai cambiamenti climatici in atto sostengono che negli ultimi 100 anni la temperatura nel Bel Paese è mediamente salita di 0,6 – 0,8 gradi centigradi. Mentre la piovosità da cinquant’anni a questa parte si è ridotta del 14%.
Il pericolo per le coste italiane e per le zone dove il deserto avanza inesorabile riguarda differentemente specifiche aree regionali, ed è il risultato di ciò che Ferrara ha definito il “momento ballerino dell’Italia che sprofonda al nord e si solleva al sud”. Il 62,6% delle terre del meridione, dal Golfo di Manfredonia alle zone del Golfo di Taranto, il 25,4% di quelle del nord Italia, soprattutto dell’Alto Adriatico, il 6,6% di quelle sarde e il 5,4 % di quelle del centro Italia, stanno perdendo di giorno in giorno porzioni di roccia e sabbia. In alcuni casi il fenomeno è addirittura ulteriormente amplificato per l’azione naturale di eventi geologici come la subsidenza: un processo che porta all’abbassamento del suolo e che prelude a movimenti di natura orogenetica. L’“assottigliamento” progressivo dei litorali non coinvolgerebbe quindi solo l’area veneziana, ma anche tutta la costa del nord Adriatico da Monfalcone a Rimini. Stesso problema riguarderebbe anche le zone di foce di fiumi come l’Arno, il Tevere e il Volturno; zone lagunari come l’Orbetello; i laghi costieri di Varano e Lesina.
Infine c’è il discorso della desertificazione. Secondo lo scienziato infatti il caldo porterà a una migrazione degli ecosistemi da sud a nord, e dalle valli all’alta montagna: le caratteristiche ambientali legate ai regimi pluviometrici, alle temperature, e all’umidità, subirebbero quindi una traslazione di 150 chilometri verso settentrione e di 150 metri dalle zone più basse a quelle più elevate. Del resto è un fenomeno che è già evidente anche oggi: basti pensare a ciò che rimane dei ghiacciai alpini di cento anni fa, e alle palme che ora vengono coltivate anche oltre gli 800 metri. La Puglia è la regione più colpita dalla desertificazione: il fenomeno riguarda il 60% del suo territorio. A seguire ci sono la Basilicata con il 54% e la Sicilia con il 47%. Fulco Pratesi, presidente del WWF, conclude dicendo che dietro a tali ipotesi funeste c’è anche la mano dell’uomo, e che in particolare va tenuto conto di due fattori come l’alto consumo idrico destinato all’agricoltura, e la cementificazione che annualmente mangia 40 – 50 ettari di territorio. 

Cura Google per il mal di schiena



Sarebbero 15 milioni gli italiani che convivono con il mal di schiena. Il problema è in gran parte dovuto alla cattiva postura che osserviamo stando seduti al pc (ma anche alla guida o a tavola), ma non solo; c'è in parte anche un retroscena di natura antropologica: non sappiamo, infatti, più misurarci correttamente con il nostro corpo, avendo dimenticato le basi del cosiddetto "portamento primitivo" che contraddistingueva i nostri avi, pressoché immuni dai dolori lombari. E' la teoria di una nuova luminare nel campo della lotta al mal di schiena, Esther Gokhale, alla quale gran parte dei dipendenti dei più grandi siti mondiali (Google, Facebook, Yahoo) si appellano per vincere le loro pene: con successo. La studiosa ha iniziato a occuparsi di schiena dopo un'operazione di ernia al disco non andata a buon fine. I continui dolori e pellegrinaggi da un esperto all'altro, senza risultato, l'hanno infine convinta a dedicarsi da sola al proprio corpo; studiando l'anatomia e la fisiologia umana, ma affidandosi anche a discipline giudicate spesso dall'intellighenzia medica borderline, come l'agopuntura. Con il suo lavoro non solo ha vinto i propri disagi, ma inventato un metodo per far guarire tutti dal mal di schiena, in particolar modo coloro che per lavoro rimangono piegati per ore davanti al monitor di un computer. In che modo Gokhale promette un simile risultato? Innanzitutto rispettando la "postura primitiva", quando si è seduti: spingere in avanti la parte alta del bacino, indietreggiare le spalle, cercando di distendere la colonna vertebrale e raddrizzare il collo. A questo punto si può cominciare ad approfondire il "metodo Gokhale", riportato anche in un testo che sta andando a ruba in mezzo mondo, "Otto passi per liberarsi dal mal di schiena".
Spesso sono sufficienti sei sedute con l'esperta americana, e non sono previste chissà quali rocambolesche pratiche mediche, né farmacologiche, ma solo una serie di "buoni consigli posturali" che nei millenni abbiamo completamente dimenticato. Con ciò Gokhale suggerisce e insegna come si dorme, si mangia, ci si alza o ci si siede. E come si cammina, "spremendo", per esempio, i glutei e rafforzando i muscoli del basso schiena, o riflettendo sul modo in cui muoviamo i piedi. Tanti piccoli accorgimenti che nell'insieme assicurano la vittoria sulle dorsopatie più comuni, riequilibrando la sinergia fra i vari comparti anatomici. A quanto pare in modo definitivo. «Molti di noi stanno seduti assumendo la tipica forma a "c", con la schiena piegata in avanti», spiega Gokhale, «ma è una posizione deleteria per la colonna vertebrale; simile il discorso per la postura a "s", con la zona lombare inarcata dovuta magari a tensione e nervosismo». Qual è, allora, l'alternativa?
Una postura che rispetta la naturale predisposizione della schiena a rimanere "dritta", ma allo stesso tempo rilassata, sviluppando il disegno di una "j": con la parte alta del bacino e quella dorsale attaccata allo schienale e quella intermedia dorsale staccata, senza dimenticare le gambe che devono cadere perpendicolarmente alla linea disegnata da una schiena bella dritta. Così facendo muscoli, nervi e scheletro sono perfettamente "in sintonia" fra loro, garantendo benessere e comodità.  

lunedì 16 dicembre 2013

Pechino conquista la Luna


Si chiama Chang'e 3 ed è la sonda cinese a sei ruote sbarcata ieri sul suolo lunare per fare luce su una zona precisa del satellite, il Mare Iridium. Un allunaggio perfetto avvenuto in dodici minuti, partendo da quindici chilometri di altezza. La notizia è stata diramata con clamore dalla televisione di Stato cinese, la Cctv. Un grande risultato per la Cina, e (in teoria, se vengono messi da parte gli interessi geopolitici) per il mondo intero, se è vero che l'ultimo oggetto meccanico a posarsi "morbidamente" sulla superficie lunare è stata la sonda sovietica Luna 24, nel lontano 1976. Ma che ci fa la Cina sulla Luna? Semplicissimo: sta studiando la sua geologia per poter mandare entro pochissimi anni i suoi astronauti e capire in che modo sfruttare al meglio le risorse del satellite. Fa gola ai cinesi soprattutto l'elio-3, isotopo rarissimo sulla Terra, ma molto abbondante sulla Luna. Composto da due protoni e un neutrone, potrebbe essere utilizzato come combustibile per la fusione nucleare. Una panacea. Chi per primo saprà farlo suo, risolverà qualunque problema economico e ambientale. Ecco perché i cinesi si stanno muovendo con tanta premura. E lo stanno facendo conoscendo molto bene le proprie eccezionali possibilità, se è vero che la capacità spaziale di una nazione va di pari passo con la sua potenza economica. E non serve ricordare che la Cina è fra le nazioni che sta crescendo a maggiore velocità. In una città come Shangai la produzione industriale su base annua aumenta del 24%, le esportazioni del 67%, gli investimenti immobiliari decollano ed è solo uno fra i tantissimi esempi. La Cina ha l'occhio lungo e già da un pezzo si è mossa per far valere le proprie ragioni in campo spaziale. Prima di Chang'e 3 ci sono stati Chang'e 1 e Chang'e 2. Il primo, lanciato nel 2007, ha realizzato una mappa tridimensionale ad alta risoluzione di tutta la superficie lunare; il secondo, spedito nello spazio tre anni dopo, ha condotto ricerche soprattutto in orbita, a un centinaio di chilometri dalla superficie, preparando il campo per la terza missione. Il cosiddetto Progetto 921 risale, invece, al lontano 1992. Con esso Pechino dà vita a una navicella vagamente simile alla Soyuz russa, quasi ottomila chili di peso e un'altezza di circa nove metri. Le cose vengono elaborate al dettaglio, e la nave spaziale pechinese è in grado di attraccare perfettamente alla Stazione Spaziale Internazionale. Il 15 ottobre 2003, dopo vari test, la Cina lancia nello spazio il primo uomo: ha 38 anni e si chiama Yang Liwei. Ma non finisce qui. Perché è dal 2011 che i cinesi stano lavorando anche alla prima stazione spaziale. Durante l'anno, infatti, grazie all'azione del razzo "Lunga Marcia-IIF", viene lanciato il Tiangong-1 dal centro spaziale di Jiuquan, il primo modulo della futura base, che secondo le previsioni potrebbe essere pronta nel 2020. Sarà lunga 18 metri e peserà 60 tonnellate. I tecnici e gli ingegneri cinesi viaggiano con gran dimestichezza, anche perché sanno elaborare i propri progetti sulla base dei tanti errori compiuti da USA e URSS nelle rispettive storie spaziali. Con un obiettivo ben preciso: lanciare un equipaggio umano entro il 2025 e poter vincere, in pratica, la nuova corsa allo spazio. Ma non sono solo i cinesi a guardare alla Luna e indirettamente al fantasmagorico Marte. Ci sono anche gli indiani, arrivati sul satellite nel 2008, grazie al MIP (acronimo di Luna Impact Probe); e gli iraniani, che nel giro di due anni hanno lanciato nello spazio due scimmie a bordo di una capsula, riportandole a casa sane e salve. 

martedì 10 dicembre 2013

Romantici come un delfino


Rose rosse per te, e una ghirlanda di alghe per la delfina del cuore. L'uomo, certo, possiede gusti diversi per ciò che riguarda la scelta del bouquet ideale da regalare all'amata, tuttavia pensare che anche i delfini possano darsi da fare per omaggiare con specie vegetali la compagna preferita, ha dell'incredibile. Benché si conoscano da tempo le prerogative "intellettuali" di molti cetacei, stupisce venire a sapere che anche in campo "sentimentale" i delfini possano essere ricondotti all'uomo; sottolineando una prerogativa emozionale tipica della nostra specie: il romanticismo. La conferma arriva da un documentario promosso dalla BBC, in onda dal 2 gennaio, nel quale vengono filmati alcuni di questi animali che, per far breccia nel cuore della potenziale partner, mostrano un mazzo di… alghe.
Le riprese sono avvenute in Mozambico, grazie all'azione di tredici strumenti a forma di tartaruga e del tutto innocui per i mammiferi acquatici. «E' la prima volta che la vita quotidiana dei delfini viene studiata così da vicino», rivela Rob Pilley, zoologo e regista, a capo della produzione televisiva. I maschi scelgono il "fiore" più bello, lungo, e robusto e lo esibiscono alla femmina, "palleggiandolo" con le pinne, la coda e il naso. «Se alla femmina piace, accetta di giocare con il maschio», continua il ricercatore, «dando luogo a un tira e molla seduttivo che non risparmia coccole e carezze a tutti gli effetti». E' una fase del corteggiamento che può prolungarsi per più di un'ora e che quasi sempre termina con l'accoppiamento; che, però, si risolve molto più velocemente, in media in tre secondi.
La conquista di giovani partner è tipica dei delfini maschi che, raggiunta la maturità sessuale (che di solito sopravviene verso il decimo anno di vita), si comportano né più né meno come uno squadrone di adolescenti con gli ormoni alle stelle, che fa di tutto per attirare le attenzioni delle esponenti del sesso opposto. I delfini possono vivere fino a 35 anni, ma già intorno ai vent'anni cominciano ad accusare i segni dell'età, e la spregiudicatezza giovanile lascia il posto al desiderio di pace e tranquillità. Le riprese hanno permesso di indagare anche altri aspetti dell'etologia dei cetacei fra cui tutto ciò che avviene dopo la fecondazione.
La nascita del piccolo (si parla al singolare perché i parti gemellari sono molto rari) si risolve entro dodici mesi, con parto podalico; misura circa un metro, e viene nutrito con latte materno per un paio di anni. Si è visto che l'amorevolezza materna è assoluta; le madri sono dolci e attente e con le pinne riempiono di carezze i piccoli. "Parlano" ai nascituri, cosicché questi ultimi possano riconoscere i suoni della madre anche quando la visibilità scarseggia. Il genitore insegna a essi ogni cosa, fra cui le tecniche per scovare il cibo. Nei filmati della BBC si nota una neo mamma che mostra al proprio piccolo il punto in cui si nascondono i pesci di cui i delfini vanno più ghiotti, su un fondo sabbioso dell'oceano Indiano.
Come gli uomini, infine, anch'essi hanno le loro preferenze, e si circondano di amici che possono durare per tutta la vita. Insieme vivono la quotidianità all'insegna dell'innata tendenza a procreare (come accade in sostanza in tutte le specie viventi), ma senza dimenticare il puro divertimento, che parrebbe appannaggio esclusivo delle forme di vita più evolute. Fra i passatempi più gettonati dai delfini c'è quello di cavalcare le onde a prua delle petroliere, a quasi cinquanta chilometri all'ora. 

giovedì 5 dicembre 2013

Potere alla nostalgia


Non a caso la pagina Facebook "Avere nostalgia di epoche mai vissute" conta 274mila iscritti e un lungometraggio come "The Artist", un film muto analogo a quelli girati nei primi anni del Novecento, ha ottenuto un grande successo in tutto il mondo. La nostalgia, dal greco "dolore del ritorno", contrariamente a quanto l'etimologia lasci intendere, fa stare bene. Ora arriva anche la conferma scientifica, da un team di studiosi dell'Università di Southampton: «La nostalgia aumenta l'autostima e migliora l'ottimismo», dice Tim Wildschut, coautore della ricerca. Gli esperti sono giunti a questi risultati attraverso due test. Nel primo veniva chiesto ad alcune persone di scrivere qualcosa di "nostalgico"; ad altre, di riportare un commento su un fatto qualunque. Risultato: le persone del primo gruppo componevano scritti in cui le parole ottimistiche erano maggiori rispetto a quelle del secondo. La controprova è arrivata dalla musica, dall'ascolto di brani più o meno nostalgici. Solo quelli in grado di rievocare il passato erano capaci davvero di sollevare l'umore. Lo studio pubblicato su Personality and Social Psychology Bulletin trova ulteriore conferma in una ricerca condotta in Cina, presso la Sun Yat-Sen University; dove è emerso che la nostalgia è un'ottima arma per vincere l'isolamento e la solitudine. Mali tipici dei nostri tempi, di cui soffrono soprattutto gli anziani. Anche per essi, dunque, l'attitudine a rievocare i "tempi andati", non può fare che bene alla salute. Vari test hanno peraltro provato un miglioramento cognitivo nelle persone più in là con gli anni, spinte a ricordare. "Il ricordo nostalgico" attiva aree del cervello altrimenti latenti, coinvolgendo distretti cerebrali chiave come l'amigdala e il talamo. Nelle coppie anziane aiuta a esorcizzare la morte, e a rinsaldare la relazione. Cosa ricordare del passato? Non è importante il tema, ma la volontà di dedicarsi a un pensiero che rimandi a un periodo della nostra storia personale. Può essere perfino il ricordo di un ex amante, assicurano gli studiosi inglesi. La nostalgia fa forza sul fatto che il tempo cancella le sfumature negative di un evento, e conserva solo quelle positive. La parafrasi di un recente film di Woody Allen, "Midnight in Paris", nel quale, alla fine, ci si rende conto che ogni altra epoca è migliore di quella in corso per il semplice motivo che il ricordo mantiene legami solo con le cose belle. Non si spiegherebbe altrimenti il fascino provato per periodi come, per esempio, l'Ottocento inglese, decantato per le dolci atmosfere alla Dickens e i romanzi delle sorelle Bronte, dove in realtà l'età media era di 41 anni, l'incurabile tubercolosi all'ordine del giorno e le fogne scorrevano a cielo aperto provocando frequenti e tragiche ondate epidemiche. Eppure c'è chi pensa che la nostalgia debba essere presa con le pinze, dando ragione ai mercenari e ai soldati del Settecento - i primi a soffermarsi sulla sua esistenza - che la imputavano a una forma strana di malinconia da cacciare al più presto. E ad Albano e Romina che cantavano "Nostalgia Canaglia" nel 1987, riferendosi a "quel nodo alla gola che ti prende quando rievochi strade, amici e bar". Di questo avviso sono anche gli scienziati dell'American Academy of Pediatrics, secondo i quali questo sentimento potrebbe tarpare le ali di un giovane, impedendogli di vivere tante esperienze e nei limiti imposti dalla coscienza, di rischiare quel tanto in più per raggiungere anche gli obiettivi che appaiono più irraggiungibili.  

lunedì 25 novembre 2013

La civiltà? Tutto merito della birra


Trovandosi intorno a un fuoco a discutere, scherzare, sognare, con un po’ di alcol in corpo: così sarebbe nata la civiltà. Leggeri stati di ebbrezza avrebbero, infatti, determinato una maggiore loquacità, un migliore rapporto fra le genti, indispensabile per l'evoluzione di un tessuto sociale più solido e funzionale. E' ciò che emerge da uno studio condotto in USA, presso l'University of California. Charlie Bamforth, a capo della ricerca, è ancora più prosaico: tutto ciò che ci circonda - dai computer, alle navicelle spaziali, dall'ultimo iPod, al nuovo disco del nostro gruppo preferito - è figlio della birra. Secondo lo scienziato americano prima che l'uomo venisse in sua conoscenza, conduceva un'esistenza nomade e vivendo di caccia, allevamento e raccolta, il suo livello sociale era piuttosto scarso. Poi ha scoperto che la fermentazione di un particolare vegetale, l'orzo, dava una bevanda che rendeva tutti un po’ più euforici e desiderosi di uscire dai tradizionali schemi comportamentali e da lì ha iniziato a consumarla metodicamente. Era l'optimum per affrontare dispiaceri, avversità, scontri con bestie feroci e per poter pianificare con un pizzico di sana incoscienza qualunque azione particolarmente insidiosa. Ma era anche il presupposto per la creatività e i guizzi geniali che avrebbero presto portato all'affermazione del cosiddetto "agglomerato sociale" e quindi alle prime forme di civiltà. Jeffrey P. Kahn, psichiatra di fama internazionale, non usa mezzi termini e rivela che «la birra ci ha letteralmente civilizzato», e che ancora oggi «abbiamo bisogno di birra». Pare una provocazione, ma non va confusa con un monito a darci dentro con la bottiglia. C'è un retroscena di natura antropologica che non può essere trascurato. Agli albori della civiltà ci fu davvero il bisogno di qualcosa che rendesse l'uomo meno primitivo e più umano, ma questo fondamentale passaggio non ci sarebbe stato senza un "elemento" che potesse rendere le persone più amichevoli. Oggi gli scienziati hanno capito bene cos'è: la birra, appunto, benché quelle primordiali fossero un po’ meno forti di quelle attualmente in commercio. La pensa così anche Brian Hayden, della Simon Fraser University, in Canada. Secondo lo studioso d'oltreoceano la coltivazione dei cereali, e quindi l'avvio della civiltà, corrispose con l'esigenza di produrre vegetali che fornissero al popolo bevande alcoliche. Solo in un secondo momento ci si rese conto che i cereali potevano costituire anche un elemento essenziale nella dieta. Ci aiuta peraltro il confronto con una delle più antiche civiltà della storia: quella dei sumeri, per i quali la birra era una bevanda sacra, che conferiva non solo gioia e coraggio, ma anche sapienza e pace. E' noto, infatti, che fra i vari dèi legati alla religiosità dei tempi, ci fosse anche Ninkasi, matrona della birra; il padre si chiamava Enki, il dio dell'acqua, la madre Ninti, la regina delle acque sotterranee. Non incarnava solo la bevanda ricavata dall'orzo, ma anche l'ebbrezza, la seduzione, l'attrazione sessuale, la fertilità. In Mesopotamia divenne presto una bevanda per ricchi. Poi conquistò i costumi egiziani, cinesi e romani. Fino a oggi, che riguarda ogni parte del mondo, con numeri record in paesi come la Germania, l'Austria e l'Irlanda. 

Intervista a Andrea Pincketts: 
                                                     
Le pare attendibile questa tesi?
Senza dubbio, e mi piace testimoniarla con la storia di Noè, che dopo avere raggiunto la terraferma, costruisce per prima cosa un altare dedicato a Dio, e subito dopo pianta una vigna. In pratica l'uomo delle caverne si trasforma in un uomo delle taverne.
Perché la taverna o l'osteria?
Perché sono i luoghi di socializzazione per eccellenza. In questi ambiti sono nati capolavori, sono state organizzate le rivoluzioni, movimenti di ogni genere.
Ne parla anche nel suo ultimo libro.
Che si intitola non a caso "Mi piace il bar".
Lo psichiatra americano Khan ritiene che ancora oggi abbiamo bisogno di birra.
Sono assolutamente d'accordo con lui.
Quando, però, l'assunzione di alcol diviene problematica?
Quando una persona non sa gestire il proprio bere, quando si diventa violenti o l'alcol diviene un rifugio dal resto del mondo. Anziché uscire, si rientra nella caverna del proprio inconscio malato.
Jack London ha scritto un bellissimo libro sull'alcol intitolato "John Barleycorn". In una recente edizione lei ha curato la prefazione.
E ne parlo abbondantemente anche nel mio ultimo lavoro. Il suo rapporto con l'alcol era quello che caratterizzò molti altri grandi scrittori. Colossali opere, partorite da epiche bevute. 

venerdì 22 novembre 2013

Il mistero della levitazione


Giuseppe Maria Desa nasce il 17 giugno 1603 in una stalla di Copertino, piccolo borgo del leccese. Il papà se ne va dopo pochi anni, e la famiglia costituita dalla mamma del futuro santo e altri sei fratelli, è costretta a lavorare duramente per ottenere il minimo indispensabile per sopravvivere. Il piccolo Giuseppe, incapace di svolgere gran parte dei lavori, fa il garzone in un negozio: viene soprannominato "boccaperta" per la sua sbadataggine. A 17 anni decide di consacrarsi a Gesù, ma non gli è facile: vieni, infatti, rifiutato da vari ordini perché giudicato "poco colto". Alla fine però riesce a essere accolto come terziario in un convento della Grottella, dove diviene sacerdote. Nonostante la scarsa acculturazione, riesce in poco tempo a farsi apprezzare per la sua intelligenza, anche se lui si definirà per sempre "il frate più ignorante dell'ordine francescano". «L'ho sentito parlare così profondamente di misteri religiosi, che potrebbe essere messo al livello dei migliori teologi del mondo», racconta un professore dell'Università francescana di San Bonaventura di Roma.
E' in questo periodo che il suo nome comincia a circolare, per via di un fenomeno inspiegabile e miracoloso che lo riguarda in prima persona: la levitazione. Secondo i testimoni del tempo, frate Giuseppe "vola nell'aria come un uccello", ogni volta che sente pronunciare il nome di Gesù o della Madonna. Sono voci non apprezzate dalla chiesa, che cerca di marginalizzare il frate. Viene sottoposto al giudizio dell'Inquisizione di Napoli, che, però, lo assolve dall'accusa di abuso della credulità popolare. Tuttavia Roma lo obbliga a cambiare molto spesso convento, senza dargli modo di familiarizzare con le persone comuni che iniziano a parlare di lui come di una persona straordinaria. Alla fine interviene papa Alessandro VII che lo destina a Osimo, dove rimane fino alla fine dei suoi giorni. Muore il 18 settembre del 1663, per poi essere beatificato nel 1753 e proclamato santo nel 1767 da papa Clemente XIII.
La storia di Giuseppe da Copertino fa, dunque, luce su uno dei fenomeni più incredibili dell'universo miracolistico cattolico: la levitazione. Non riguarda solo il santo di origine leccese, ma anche altre figure cristiane come Tommaso d'Aquino, Francesco d'Assisi, Caterina da Siena e Giovanni della Croce. Le leggende riportano inoltre personalità estranee al cattolicesimo. Per esempio Serafim Sarovsky, arcivescovo ortodosso di Novgorod e Pskov: vive a cavallo fra il Settecento e l'Ottocento e ancora oggi è ritenuto uno dei massimi mistici della storia russa. Altrettanto viva l'esperienza di San Basilio, che levita sopra il fiume Moscova, davanti a una folla incredula. Testimonianze scritte parlano di almeno trecento personaggi storici che possedevano il dono di "volare"; senza contare le innumerevoli streghe che, anche per questo motivo, furono condannate al rogo. Ma cosa c'è di vero dal punto di vista scientifico?
Il caso di Giuseppe da Copertino è stato assimilato da alcuni studiosi al fenomeno della "catalessi" (disturbo di natura psicomotoria). Pare che le levitazioni del santo fossero dovute a "una forma di compensazione psicologica dovuta al desiderio di attenzione e autorealizzazione che gli furono negate durante l'infanzia". La parapsicologia associa questi casi alla psicocinesi, fenomeno paranormale tale per cui una persona è in grado di agire sull'ambiente utilizzando forze estranee alla scienza. Con la levitazione sussistono altri "miracoli", come la pirocinesi (facoltà di controllare il fuoco) e l'elettrocinesi (capacità di forgiare energia elettrica). La scienza tradizionale, però, è molto scettica. Gli studiosi in questo caso affermano che ancora oggi non esista prova concreta della levitazione. E fanno riferimento ad abili illusionisti che possono tranquillamente far credere di "volare". Gli esempi sono numerosi, a cominciare dai vari "performer" moderni, che proprio in questo periodo affollano varie piazze italiane, sfruttando una piattaforma metallica ricoperta da provvidenziali stoffe per mascherare il trucco. Nella storia hanno fatto rumore illusionisti come Ramana, nome d'arte di Wouter Bijdendijk, levitato davanti alla Casa Bianca e David Copperfield, che non ha bisogno di presentazioni.
Nonostante le perplessità, recentemente, un team di studiosi del Politecnico di Zurigo ha provato che, sfruttando la pressione generata dalle onde sonore, è possibile manipolare porzioni microscopiche di vari oggetti senza alcun contatto meccanico. Non è l'unico caso. Anche ricerche in campo magnetico, ottico ed elettrostatico, hanno provato la possibilità di contrastare efficacemente la forza di gravità. Presso la Duke University, in Usa, hanno dato vita a un dispositivo in grado di far scomparire un cilindro di rame situato al suo interno per qualche secondo. E' stato utilizzato un "metamateriale" (con proprietà elettromagnetiche non presenti in natura) capace di deviare le onde elettromagnetiche: da qui gli esperti sono convinti di poter partire per spiegare scientificamente il mistero della levitazione.

(Pubblicato sul numero 18 di Miracoli)  

venerdì 15 novembre 2013

ELOGIO (?) ALLA MONOGAMIA


Una vecchia teoria sostiene che se si ascolta qualcuno rivelare il numero di esperienze amorose, occorre moltiplicare per tre se si tratta di una donna e dividere per lo stesso numero se il riferimento è a un uomo. Solo così, infatti, si arriverebbe a comprendere il numero esatto di partner "vissuti" da una determinata persona. La spiegazione è ovvia: gli uomini per natura tendono a eccedere, sottolineando di avere avuto più incontri di quelli reali; le donne, a ridimensionare il numero di esperienze. E' un risvolto evolutivo: così facendo le donne sottolineano il loro dovere di madre e la predisposizione alla cura della prole, e gli uomini marcano, invece, la loro innata necessità di procreare. Tuttavia c'è una categoria che pare non avere nulla a che fare con questo tipo di persone; sono le donne che "ufficialmente" hanno diviso il letto con una sola persona in tutta la loro vita: il proprio marito. Sembrerebbe una cosa d'altri tempi, tuttavia ci sono ancora parecchie esponenti del gentil sesso che ammettono di non avere mai avuto esperienze sessuali al di là del compagno con cui si è giunti all'altare. Un dramma? Per niente.
Stando, infatti, all'opinione di queste signore, chi ha avuto in tutta la vita un solo compagno, è più felice di qualunque altro. «Perché si tratta di due persone che si amano e rispettano veramente», dichiara Julia Hubbard, una donna inglese di 37 anni, fiera di essersi sposata vergine e di non aver mai avuto nessun altro uomo nei 13 anni trascorsi fino a oggi con il proprio marito. «Molti miei amici hanno avuto altre storie, ma le loro relazioni sono più precarie della mia». Spiega inoltre che, dal suo punto di vista, il sesso prematrimoniale può essere fonte di gravi dispiaceri: «Cito, per esempio, il caso di una mia amica che, rimasta incinta dopo un incontro occasionale, ha poi abortito». E il marito è dello stesso avviso. «Mia moglie è una donna attraente e non è stato facile soddisfare le sue volontà», rivela Craig Hubbard, «tuttavia ho rispettato la sua decisione, scoprendo un modo per nulla scontato di apprezzare la profondità dei sentimenti».
Il caso di Julia e Craig è, però, raro, mentre era la norma fino a una cinquantina di anni fa. Oggi, in media, una donna ha quattro esperienze intime nella sua vita, con uomini diversi. E solo il 24% rivela di non avere mai avuto altri partner oltre al coniuge, in gran parte over sessanta. I motivi rispecchiano una società che ha ben poco a che vedere con le generazioni del dopoguerra, partendo dal fatto che si vive di più, si hanno contatti con un maggior numero di persone, e ci sono mille motivi per credere che oggi anche a "una certa età" il sesso rappresenti un aspetto preponderante di una relazione di coppia. Il 40% delle ragazze ha avuto un'esperienza di sesso occasionale in vacanza; il 42% dei matrimoni finisce con il divorzio; in un Paese "avanguardista" come la Francia, oltre la metà dei nuovi nati viene al mondo fuori dal matrimonio. Tuttavia sbaglia chi bolla queste donne come "puritane", poiché non è solo la religione a "sponsorizzare" il loro comportamento (come si potrebbe facilmente sospettare), ma anche e soprattutto la psicologia.
«Alcune mie pazienti pensano che se non hanno avuto sufficienti rapporti sessuali con uomini diversi, significa che sono sessualmente inibite», dice Paula Hall, psicoterapeuta anglosassone e autrice di vari libri sull'argomento, «ma si sbagliano: non è la quantità che conta, ma la qualità». L'idea della Hall è affiancata da molti altri studi. Nel testo "Premarital sex in America", i sociologi Mark Regnerus e Jeremy Uecker, dicono che la monogamia è sinonimo di felicità; al contrario, la tendenza alla promiscuità, va a braccetto con la depressione. E il fenomeno parrebbe più evidente proprio nelle donne. «Ci sono prove empiriche del fatto che sia uomini che donne sono più felici se hanno avuto un solo partner sessuale», spiega Andrew Oswald, docente di Economia e Scienze del Comportamento presso l'University of Warwick, «ma è anche un principio del tutto intuitivo: chi trova la persona giusta, semplicemente, non ha bisogno di altri partner». 

martedì 12 novembre 2013

La leggenda di Imbersago


Era già da qualche anno che girava la voce per le contrade di Imbersago, piccolo centro brianzolo: nei pressi della "Sorgente del Lupo" - storico luogo dove andavano ad abbeverarsi i lupi - in corrispondenza di tre grandi castagni, compare ripetutamente una bellissima signora, incoronata da un anello di luce e accompagnata dal delicato sottofondo di una musica armoniosa e suggestiva. Il fenomeno si ripresenta il 9 maggio 1617. Protagonisti tre pastorelli che si aggirano con il proprio gregge ai piedi dei colossali alberi; si fermano a contemplarla. Pietro, il più sveglio dei tre piccoli, si avvicina alla misteriosa creatura, mentre la sua attenzione è catturata da un riccio che, nonostante la stagione, pare già maturo. E, infatti, per sua grande meraviglia, le castagne al suo interno, con cinque mesi di anticipo, sono già pronte per essere mangiate. Quando torna in paese e annuncia il fatto, è chiaro a tutti che la Madonna del Bosco ha scelto proprio Imbersago per regalare ai popolani la sua misericordia.
Di lì a poco accade un secondo miracolo. Nello stesso posto occupato dai tre pastorelli si trovano a girovagare una mamma, un papà e i loro figlioletti, inconsapevoli del fatto che un branco di lupi li sta tenendo d'occhio. E' un attimo e il bimbo più piccolo finisce fra le fauci di un canide particolarmente affamato. I genitori, sconvolti, invocano la Madonna del Bosco che, istantaneamente, interviene per ordinare al lupo di rilasciare il piccolo. Da questo momento i miracoli della Madonna di Imbersago si susseguono ripetutamente, ancora oggi testimoniati dai numerosi ex voto presenti nei pressi del santuario (alcuni accompagnati da disegni e dipinti che raffigurano le sciagure superate per intervento della Santa Vergine, per un totale di 112 tavolette). Uno dei più noti è riportato anche nel libro di Pietro Antonio Calcho (forse l'unico vero documento in grado di fornire dati "reali" sui presunti miracoli), il più importante notaio della zona, che esercita la carica Fiscale Reale Generale del ducato di Milano. Racconta di una tal Gorella, condotta dal marito in cima a una rupe per essere gettata nel fiume. La donna rischia di annegare, ma invocando la Madonna riesce a trovare la forza per vincere i mulinelli del corso d'acqua e raggiungere la riva dove in poco tempo si ristabilisce, tornando a vivere serenamente.
L'ultimo "miracolo ufficiale" risale all'8 dicembre 1896. Protagonista Teresa Secomundi, una donna figlia di poveri contadini, desiderosa di farsi suora ma osteggiata da forze "maligne". La tradizione vuole che la Madonna le sia comparsa più volte invitandola, infine, a raggiungere la chiesa di Imbersago, per dare inizio a una nuova vita all'insegna del messaggio cristiano. La donna - che da quattordici anni viveva segregata in casa, isolata in un mondo tutto suo - mossa da un impeto mai provato prima, abbandona la dimora dei genitori e raggiunge le porte del santuario, dove per la prima volta non prova più alcuna avversione per i luoghi di culto. Da qui inizia la sua missione: testimoniare negli altri grandi santuari lombardi - come quello di Ardesio e Stezzano - la bontà e la carità di Maria.
Ancora oggi il luogo mariano è molto frequentato, da pellegrini provenienti soprattutto dalla Lombardia; compresi personaggi illustri. Nella storia recente furono particolarmente devoti alla Madonna del Bosco due eminenti figure del clero italiano: Papa Giovanni XXIII e il cardinal Ildefonso Schuster. Del primo si può rimirare la statua di bronzo alta quattro metri, pesante trenta quintali, che lo ritrae in cima ai 349 gradini che separano il santuario dalla strada principale che conduce a Lecco, completati nel 1824 (e rimaneggiati nel 1981 per riparare i danni di una frana). «Quante grazie e quante ispirazioni debbo alla Madonna del Bosco», soleva ripetere il Santo Padre, «il sorriso della mia infanzia, la custodia e l'incoraggiamento della mia vocazione sacerdotale». Del secondo è, invece, custodita la sua camera, con alcuni abiti, suppellettili e oggetti personali, nei pressi dell'area degli ex voto, oltre il porticato che spalleggia uno dei tanti boschi di castagno che coprono la zona.
Il santuario risale a quasi quattrocento anni fa. Sorge grazie all'intraprendenza di Gaspare Brambilla, un popolano che ordinò l'edificazione di una cappelletta, lo "Scurolo", presto abbellita con eleganti affreschi, subito dopo i primi miracoli. E' il 1632, non a caso coincidente con la fine dell'epidemia di peste. In seguito, su progetto di Carlo Buzzi, fra i più riconosciuti architetti dell'epoca, vede la luce la chiesa vera e propria dedicata alla Madonna del Bosco, inaugurata il 9 maggio 1646, in occasione del ventinovesimo anniversario del miracolo del riccio. La rinomanza del posto è dovuta anche al cinema e alla letteratura. Ermanno Olmi girò nei suoi pressi "E venne un uomo", incentrato sulla figura di Papa Giovanni XXIII; e Luigi Santucci (considerato il principale narratore milanese della seconda metà del Novecento) ne parla nel suo libro "Brianza e altri amori". 

Goce, pericolo dallo spazio


Le probabilità che possa colpire qualcuno o arrecare gravi danni a uomini e abitazioni sono remote, tuttavia la Protezione civile non esclude il rischio che qualche frammento possa provocare feriti o crolli. Per questo motivo suggerisce agli italiani di rimanere in casa, soprattutto fra domenica e lunedì. Oggi, al Centro-Nord, meglio rimanere al riparo fra le 8.26 e le 9.06; in Valle d'Aosta, Piemonte, Liguria e Sardegna, fra le 19.44 e le 20.24. Lunedì, la finestra temporale più sensibile a eventuali impatti, è fra le 7.48 e le 8.28, benché i dati non siano ancora in grado di indicare le aree geografiche che potrebbero essere più suscettibili al fenomeno.
Cosa sta succedendo? Goce (acronimo di Gravity Field and Steady State Ocean Circulation Explorer), satellite lanciato il 17 marzo 2009 per elaborare una mappa gravitazionale e studiare le circolazioni oceaniche, ha terminato il suo servizio e sta per precipitare sulla Terra. Come detto, le probabilità di centrare qualche persona o palazzo sono estremamente remote, ma non pari a zero: gli scienziati stimano che siano 250mila volte inferiori alle chance di vincita di un primo premio a una lotteria. Precisano, però, che mai prima d'ora un frammento spaziale ha causato qualche danno a cose o persone e che ogni anno, senza che ce ne accorgiamo, ci "sfiorano" 40 tonnellate di pezzi di satelliti dimenticati o agonizzanti. La situazione è monitorata dai tecnici dell'Inter-Agency Space Debris Coordination Committee e dello Space Debris Office, preposti a questo tipo di problemi e alla gestione dei cosiddetti "detriti spaziali". I due organi, nonostante le avverse condizioni atmosferiche, sono riusciti a "fotografare" un aumento della temperatura in determinati punti del satellite, la prova che l'oggetto spaziale sta perdendo la sua autonomia. Anche l'ESA sta seguendo con grande attenzione i suoi movimenti, pronta ad aggiornare periodicamente la situazione ed eventualmente diramare indicazioni più precise che possano giovare ai cittadini e alla loro incolumità.
Non si poteva agire prima? No, dicono gli scienziati, perché Goce è un satellite particolare, che si muove su un'orbita molto bassa, ad appena 260 chilometri di altezza e non può essere spedito più in alto, dove potrebbe girare intorno al pianeta per secoli; ciò che accade con molti altri satelliti. Pesa poco più di mille chilogrammi, e si suppone che almeno 250 possano impattare in un punto della superficie terrestre. Dove? Impossibile dirlo, ma va tenuto presente che il 70% della geografia del pianeta è rappresentata da mari, oceani e deserti, ambienti disabitati.
Gli uomini della Protezione civile affermano che Goce ha esaurito il carburante e che il suo destino è ormai segnato: quando giungerà a 80 chilometri dalla superficie terrestre dovrebbe esplodere e spezzarsi in numerosi frammenti, alcuni dei quali, anche se piccolissimi, potrebbero raggiungere la terra. Basta poco, del resto, per fare male a qualcosa o qualcuno. Pochi anni fa un 14enne tedesco è stato colpito da un frammento meteorico inferiore a mezzo centimetro che, viaggiando a 50mila chilometri all'ora, gli ha procurato una ferita lunga sette centimetri. Ma dove è meglio cercare riparo? In casa, assicura la Protezione civile, e potendo scegliere, meglio optare per i piani più bassi. Non è escluso, infatti, che un frammento possa trapassare tetti e solai, raggiungendo gli appartamenti più alti di un condominio.

BOX

Non è la prima volta che viene lanciato un allarme del genere. E' accaduto anche nel 2011 con la caduta dell'Upper Atmosphere Research Satellite (UARS), 5900 chilogrammi di ingegneria spaziale al servizio degli studi atmosferici inerenti soprattutto il buco dell'ozono. Alla fine, però, non ci furono danni o vittime, poiché i resti dell'oggetto finirono in pieno oceano Pacifico. Nel 1979 precipitò Skylab, 74 tonnellate di peso. I suoi resti - frammenti fino a due metri di lunghezza - impattarono con la superficie marina dell'oceano Indiano. Più pericolosa fu la fine di Cosmos 1, un satellite russo a propulsione nucleare, che si disintegrò nei cieli canadesi nel 1978. In questo caso si temettero soprattutto i numerosi frammenti radioattivi sparsi su un'area di 100mila chilometri quadrati, per fortuna disabitata. Altrettanti problemi si sono verificati con l'utilizzo di razzi e navicelle. Il 22 gennaio 1997 il secondo stadio di un razzo Delta 2, pesante 250 chilogrammi, cadde nei pressi di Georgetown, in Texas; lo stesso accadde il 27 aprile del 2000, con il secondo stadio di un razzo Delta II, i cui resti colpirono alcune lande sudafricane. La stazione spaziale russa MIR, invece, durante il rientro programmato per il 23 marzo del 2001, perse 136 tonnellate di materiale potenzialmente pericolosissimo in una zona remota dell'Australia orientale, distribuita su 2mila chilometri quadrati. Per il momento, insomma, è sempre andata bene, ma ogni giorno è oggettivamente più difficile trascurare che intorno a noi orbitano 19mila oggetti spaziali, compresi centinaia di satelliti ormai in totale disuso. 

lunedì 4 novembre 2013

Schiavi della disattenzione


Metropolitana, ora di punta. Incontriamo un vecchio amico, col quale ci accomodiamo in attesa di salpare per la città. Scambiamo due chiacchiere e poi… uno dei due tira fuori lo smartphone e comunica con un altro. Chi di noi non ha mai vissuto un'esperienza del genere? Probabilmente chiunque, al punto che è stato addirittura coniato il termine "pizzled" - combinazione fra "puzzled" (perplesso) e "pissed off" (arrabbiato) - per definire il disagio che ne deriva. E che cela una grave conseguenza: senza accorgerci stiamo perdendo completamente la capacità di concentrarci; su una conversazione, sul libro che stiamo leggendo, sul file word che abbiamo appena aperto.
Eppure la concentrazione è un aspetto della nostra esistenza fondamentale, che ci consente di interagire al meglio con noi stessi e il mondo che ci circonda. Ne è convinto Daniel Goleman, psicologo di fama internazionale, autore del bestseller "Intelligenza emotiva" e ora in uscita con il suo nuovo lavoro "Focus: perché fare attenzione ci rende migliori e più felici". «L'attenzione rappresenta una risorsa mentale poco considerata e sottovalutata, ma che riveste un'importanza enorme rispetto al modo in cui affrontiamo la vita», spiega Goleman. Va, però, "alimentata" e tenuta in allenamento: «E', in effetti, come un muscolo», continua, «se la usiamo poco si infiacchisce, mentre se la facciamo lavorare bene acquista vigore».
Perché siamo sempre meno concentrati? Herbert Simon, premio Nobel nel 1977, fu il primo a mettere in relazione l'eccessiva quantità d'informazioni che abbiamo a disposizione, con la difficoltà di focalizzare la nostra attenzione su aspetti specifici del vivere quotidiano. Oggi sappiamo che aveva ragione. Lo vediamo tutti i giorni collegandoci alla Rete. Siamo bombardati da input che dobbiamo necessariamente scremare per poter "metabolizzare" qualcosa; benché, spesso, pur selezionando, ci rimanga in testa ben poco. «In genere, la mente di un lettore vaga per il 20-40% del tempo in cui legge un testo», racconta lo psicologo americano, ma con la tecnologia a disposizione, la percentuale incrementa in modo impressionante. Lentamente si sta avverando ciò che diceva il filosofo Martin Heidegger, secondo il quale "la rivoluzione tecnica" avrebbe presto minacciato l'umanità.
L'attenzione è importante perché quando la perdiamo, il nostro rendimento cala in maniera proporzionale. In ogni campo: a scuola, al lavoro, nello sport. Se siamo concentrati assimiliamo meglio. Un test condotto su atleti di alcuni college statunitensi ha individuato una correlazione significativa fra la loro minore o maggiore tendenza a lasciarsi distrarre dall'ansia e i risultati ottenuti. L'apprendimento scolastico è tanto maggiore, quanto minore è la distrazione provocata dal desiderio di navigare su internet o mandare un messaggio all'amico. «In assenza di concentrazione non viene immagazzinato nessun nuovo ricordo di quello che stiamo imparando», dice Goleman. Ne beneficia anche il cervello a livello fisiologico: «L'organo cerebrale mappa le informazioni su ciò che già conosciamo creando nuove connessioni neuronali».  
Non tutti, però, sono disattenti allo stesso modo. Gli emotivi sono più suscettibili. «Le persone che si concentrano meglio sono, infatti, relativamente immuni ai tumulti emotivi», rivela Goleman, «hanno minore difficoltà a mantenersi imperturbabili nei momenti di crisi e restano stabili in mezzo al flusso di emozioni della vita». La disattenzione può, pertanto, sfociare nella patologia, con l'evoluzione di stati ossessivi o fobici, in cui l'attenzione è catturata da un pensiero fisso che trasfigura la realtà. E' la stessa logica che accompagna i ragazzi che si "perdono" su Youtube, passando da un video all'altro, senza accorgersi che i genitori li stanno chiamando perché è "pronto in tavola". Gli stessi ragazzi "delle generazioni a venire", a cui Goleman ha scelto di dedicare il libro.


Intervista a Daniel Goleman

In che modo una persona emotivamente intelligente può farsi strada nella vita se è sempre distratta?
L'intelligenza emotiva include anche l'attenzione: se una persona è dotata d'intelligenza emotiva è anche in grado di gestire l'attenzione e ben sfruttarla.
Si dice che le donne siano più emotive. Questo significa che sono anche più distratte?
E' una domanda pericolosa! Penso che entrambi i sessi siano emotivi, forse su cose diverse. Le emozioni sono il tipo più potente di distrazione. Ecco perché l'intelligenza emotiva consente il migliore utilizzo dell'attenzione.
Il multitasking, dunque, non dovrebbe più essere visto come una prerogativa positiva…
Il multitasking è una finzione. Gli scienziati cognitivi hanno rilevato che non riusciamo a tenere in mente più cose contemporaneamente. In realtà, passiamo rapidamente da una all'altra, e il rischio del multitasking è che per lavorare bene occorre concentrarsi, prestare attenzione; è meglio mettere da parte le altre cose, se cerchiamo di fare tutto contemporaneamente cala l'attenzione su ciò che è veramente importante.
Se l'attenzione è sottovalutata, quali sono i parametri psicologici tenuti in maggiore considerazione?
L'errore che abbiamo commesso è di essere troppo indulgenti con le nostre distrazioni. La tecnologia seduce la nostra attenzione. Veniamo troppo facilmente tentati dalla suoneria dei nostri sms, dal suono della ricezione di un e-mail; se invece uno vuole concentrarsi deve attribuire una priorità e focalizzare l'attenzione su quanto è più importante.
Che tipo di adulto sarà l'adolescente di oggi che manda più di 3mila messaggi al mese?
E' un pericolo. Oggi gli adolescenti trascorrono troppo tempo a messaggiarsi e a giocare con i videogiochi. Forse più i ragazzi che le ragazze, ma in generale entrambi i sessi. Inevitabilmente dedicano meno tempo a rapportarsi con gli altri in modo naturale, ed è durante queste relazioni che il cervello impara l'empatia e a relazionarsi con gli altri.
Nel suo libro cita il riferimento a Mythology, il testo di Edith Hamilton, giudicato oggi dai ragazzi "troppo difficile". E' possibile che i più giovani stiano diventando sempre più superficiali?
Non direi che la superficialità sia il problema, il problema sta nella difficoltà di comprensione. Più si è distratti meno si comprendono le idee complicate. Anzi ritengo che la potenzialità di sviluppare un pensiero profondo tra i giovani sia più marcata che nel passato, ma la distrazione della tecnologia indebolisce la loro capacità di comprensione.
Il deficit di attenzione, però, è spesso messo in relazione a menti creative, in grado, per esempio, di focalizzare un problema da diverse angolazioni. Può, dunque, la disattenzione, in qualche caso essere positiva?
Sì, quando si tratta di creatività, ossia di unire due nuovi elementi, in applicazioni utili, il vagare della mente è utile, in quanto si riesce in questo modo a collegare idee lontane tra di loro. Coloro che sono affetti da disturbo dell'attenzione sono meglio rispetto a coloro che hanno capacità di concentrazione. Gli studenti affetti da disturbo dell'attenzione di base vengono puniti durante la loro carriera scolastica, ma nel mondo del lavoro possono diventare imprenditori di talento, se troveranno le persone in grado di mettere in pratica che loro idee.
E' corretto dire che le persone più abili in matematica sono anche quelle con una maggiore capacità di concentrazione?
La capacità di conentrazione è un requisito per poter imparare la scienza, la tecnologia, la matematica.
Quante persone, su una media di 1000 persone, riescono come Katrina (personaggio analizzato nel testo di Goleman), dotata di una sensibilità sociale molto spiccata (e quindi di grande disattenzione), a "leggere" cose che gli altri non vedono?
Non lo sappiamo, io ho incontrato solo Katrina, forse c'è ne sono altri.
A un certo punto del libro affronta il tema della "compassione". Può essere considerata una forma di attenzione per il prossimo, favorita dalla disattenzione? 
Direi il contrario: provare, esercitare una cura compassionevole richiede attenzione, sincronizzazione, conoscenza dell'altro. Solo così si sviluppa empatia e se la persona soffre la si può aiutare. Però, hai bisogno dell'attenzione per farlo.

martedì 29 ottobre 2013

Vita da bar. Perché gli uomini non possono farne a meno


Uomini e donne concepiranno il divertimento in modo diverso, ma è certo che gli appartenenti al cosiddetto sesso forte dovrebbero trascorrere almeno un paio di sere fuori con gli amici, per poter stare bene con se stessi e il mondo che li circonda. Solo così, infatti, migliorano psiche, umore e benessere generale. E' ciò che emerge da uno studio condotto in Inghilterra, che mette, dunque, in allarme gli over trenta di tutti i paesi civilizzati: si dedica troppo poco tempo agli amici, e a lungo andare tutto ciò può avere ripercussioni negative sulla salute. Stando, infatti, alla ricerca condotta dagli scienziati dell'Università di Oxford, solo in una piccola percentuale gli uomini riescono a soddisfare il desiderio di confrontarsi settimanalmente con individui dello stesso sesso, a cui siano legati da un sentimento; non, però, di natura sessuale, come designa correttamente il termine "bromance", che indica una forma di intimità omosociale che porta a dividere esperienze e pensieri senza coinvolgimenti erotici. «Ci vogliono almeno un paio di sere alla settimana per poter concretizzare qualcosa», racconta Robin Dunbar, a capo dello studio, «il tempo necessario per poter dare forma a chiacchierii che altrimenti rimerebbero fini a se stessi, e non porterebbero al miglioramento dello status sociale di un uomo». Non è importante ciò che si decide di fare con gli amici, ma la puntualità con cui ci si vede. Si può, pertanto, andare a giocare a calcetto o a tennis, ma anche semplicemente sedersi in un pub con una media davanti. Basterebbe così poco a rendere l'uomo più sano, saggio e rilassato. Gli uomini che vedono più spesso gli amici, peraltro, guariscono prima dalle malattie e sono mediamente più generosi e servizievoli degli altri. In sostanza ne beneficerebbero tutti, comprese, quindi, mogli e fidanzate che talvolta dissentono dalla volontà del proprio compagno di sgattaiolare via per qualche ora. 


La realtà, però, è molto meno affascinante. Solo due uomini su cinque riescono a dedicare agli amici il tempo che vorrebbero. L'attività sociale dell'uomo medio, si prende circa un quinto del tempo distribuito in un'intera giornata, ma si riflette solo sull'interfaccia offerta da social network e telefono; difficilmente ci si vede fisicamente. E invece è proprio il contatto fisico che serve a migliorare le cose. A cominciare dal riso, che sa essere contagioso solo nel momento in cui può essere vissuto collettivamente e a quattr'occhi; ridere attraverso Facebook è decisamente meno promettente. E significa molto, perché una sana risata apre le porte del benessere, incrementando la circolazione ematica di endorfine, gli ormoni legati all'euforia e alla contentezza. Il numero ideale di amici con cui darsi appuntamento il venerdì sera e magari un altro giorno infrasettimanale? «Quattro», asserisce Dunbar, sostenendo che è questo il numero giusto per incrementare il senso di appartenenza a un gruppo, e migliorare progressivamente lo spessore amicale. David Wallace, scrittore britannico, interpellato a proposito, non usa mezzi termini per sottolineare l'importanza di dedicare sempre più tempo agli amici: «La scienza ci sta dicendo che per stare meglio dobbiamo uscire di più. Bene, alla scienza non si può certo non obbedire». E i risultati si vedrebbero in fretta. A cominciare dai sintomi depressivi, così frequenti in questo periodo di grave crisi, soprattutto in campo maschile, che condivisi fra compagni, possono essere tenuti a bada meglio di tanti medicinali. Sane relazioni sociali determinano inoltre un abbassamento dei valori pressori e il miglioramento di vari aspetti fisiologici legati all'attività digestiva, fortemente compromessa dalla vita frenetica. 

lunedì 21 ottobre 2013

Pioggia o sole? Chiediamolo al nostro corpo


«Mi fanno male le ossa, vuol dire che il tempo sta cambiando». Chi di noi non ha mai sentito la nonna o qualche anziano pronunciarsi in questo modo? Ebbene, ora anche la scienza afferma che c'è davvero corrispondenza fra alcuni malanni fisici e la meteorologia. Il primo a teorizzare questo legame fu Ippocrate, quasi duemilacinquecento anni fa, mettendo in luce soprattutto la relazione fra reumatismi e clima ventoso e umido. In seguito s'è capito che anche molti altri mali dipendono "dal tempo che fa", come l'artrite e l'osteoartrite, sensibilissimi alle variazioni della pressione barometrica e ai cambiamenti repentini di temperatura. Lo stesso vale per disagi "minori", come il dolore pelvico, dentale, cefalico, e le nevralgie del trigemino. Una spiegazione c'è, ed è legata ai valori pressori dell'atmosfera che si ripercuotono su quelli delle articolazioni. Subendo un'alterazione pressoria, ossa, muscoli e tendini, infatti, vanno momentaneamente in cortocircuito, per via del disequilibrio che viene a crearsi all'improvviso fra i liquidi e i gas contenuti in particolari "sacche" anatomiche. Robert Jamison, professore di anestesia e psichiatria all'Harvard University, fa l'esempio di un palloncino pieno d'aria: «Un pallone gonfiato subisce una pressione dall'esterno e dall'interno. Se quella esterna cambia, il palloncino si dilata, ampliando la sua volumetria. Lo stesso accade all'interno delle articolazioni. Ma quando si ha un calo della pressione esterna, determinati tessuti premono sui nervi circostanti, riacutizzando il dolore». Accade soprattutto nei neuropatici. «Il fenomeno è, infatti, molto più comune nelle persone con questo tipo di problema, o anche, semplicemente, un nervo infiammato», afferma Patience White, reumatologa della George Washington University of Medicine. Il legame generale fra problemi fisici e clima e la capacità indiretta, quindi, di prevedere "che tempo farà" in base alle condizioni psicofisiche, è confermato dai dottori comuni, che dicono di ricevere molte più visite quando il clima cambia e la temperatura e la pressione subiscono grossi contraccolpi. «Tanto evidente è il repentino cambiamento climatico, tanto maggiore sarà l'incremento del dolore», dice Aviva Wolff, dell'Hospital for Special Surgery di New York, benché il clima influenzi in modo diverso ognuno di noi. Per esempio s'è visto che in Canada, quando soffia un vento particolare, in alcuni soggetti si ha un sopimento dei dolori nevralgici, in altri un aumento dei fastidi legati all'emicrania. I sintomi possono "accendersi" anche molte ore prima di un certo cambiamento climatico. Fino a tre giorni prima. L'arrivo di una perturbazione è preceduta da dolori che riguardano la colonna vertebrale, il nervo sciatico, qualunque tipo di articolazione. Anche il cuore e la psiche ne risentono. Tachicardia, palpitazioni e ansia, sono molto frequenti con il calo della pressione barometrica. Freddo e gelo sono, invece, collegati a casi di ictus, infarto, e morte cardiaca improvvisa. Il rischio d'ischemia incrementa del 7% per ogni calo di 10 gradi di temperatura. Alcuni malati, infine, dicono che le proprie articolazioni sono più affidabili dei bollettini meteorologici e non hanno tutti i torti. Il Wall Street Journal di ieri cita l'esperienza di Bill Bladeraz, trentottenne dell'Ohio, presidente di una società di digital marketing di Columbus. «Un giorno di sole splendente lasciava presagire a un dopopranzo eccezionale, ma io accusavo dolori fortissimi per via dell'artrite e avrei sfidato qualunque metereologo a dire che il tempo sarebbe rimasto lo stesso». Aveva ragione: il pomeriggio è sorto un potente uragano che si è abbattuto su tre stati americani, con venti fortissimi e piogge scroscianti.  

martedì 15 ottobre 2013

Donne e depilazione, una storia lunga 4000 anni


Le donne che si depilano di più? Le inglesi. Lo affermano vari studi europei raccolti dalla Wilkinson Sword. Gli esperti ritengono che le signore e le ragazze che abitano aldilà della Manica tengono di più delle altre europee all'igiene e alla moda, ed è per questo che eliminano con più facilità i peli superflui dal proprio corpo. Il 90% delle inglesi si depila. A seguire ci sono la Spagna, dove le donne si depilano nel’80% dei casi, la Francia (75%), l’Italia (73%), e il Belgio (67%); mentre per le tedesche la depilazione non sembra essere una priorità: in Germania solo 4 su 10 si affidano a questa consuetudine. Ma con quali tecniche e strumenti si depilano le donne? Dipende dalle usanze e dalle mode che caratterizzano ogni nazione. In Gran Bretagna, per esempio, le donne ricorrono abitualmente alle lamette, così come in Germania. In Belgio invece si è soliti usufruire di creme e rasoi. In Spagna, oltre alla rasatura con lametta, sono molto utilizzate le pinzette e la cera. Le italiane, invece, impiegano soprattutto le lamette, ritenendo la ceretta troppo dispendiosa in termini di tempo e denaro. Rasoi elettrici e pinzette, in generale vengono utilizzati meno. La depilazione non è cosa recente. Le prime donne che hanno iniziato a svolgere questa pratica risalgono al tempo degli Egizi, 4mila anni fa. Erano solite rasarsi le parti pubiche: un corpo liscio e senza peli (con l’eccezione dei capelli) rappresentava lo standard della bellezza, della giovinezza e dell’innocenza. Il risultato era ottenuto attraverso creme particolari, a base di miele e oli. Anche in Grecia il costume fu mantenuto. Le donne con peli pubici erano considerate detestabili e la depilazione era in voga soprattutto nei ceti più elevati. A Roma le ragazze eliminavano i peli non appena questi apparivano utilizzando apposite pinzette. Questa abitudine proseguì nel tempo e cadde in disuso solo con l’avvento della famiglia dei Medici,  in particolare di Caterina de Medici la quale proibì la depilazione alle donne in gravidanza. Il boom della depilazione è riscoppiato con la pornografia negli anni Sessanta. 

lunedì 7 ottobre 2013

Frequente, ma troppo veloce: la "sociologia" del sesso in Italia

10 min il tempo necessario per sesso

Correva l'anno 1986, quando la pop star Madonna esordì con il video singolo Papa Don't Preach, nel quale compariva con una tshirt riportante la frase "Italians do it better" (gli italiani lo fanno meglio). Il riferimento, chiaramente, era all'idea che gli abitanti del Belpaese fossero i migliori a letto. Sarà davvero così? Non proprio, stando a uno studio condotto da DoxaPharma, che verrà discusso l'8 ottobre nel corso del congresso nazionale della Società Italiana di Urologia (Siu) e dell'Associazione Ginecologi Ospedalieri Italiani (Aogoi). Emerge, infatti, un dato che lascia qualche dubbio: nel 25% dei casi la durata media di un rapporto sessuale in Italia dura meno di due minuti; mentre un famoso studio condotto dalla Society for Sex Therapy and Research di Washington ritiene che, per essere veramente appagante, dovrebbe essere compreso fra i 7 e i 13 minuti. E' vero che la qualità ha più importanza della durata, tuttavia psicologi e andrologi concordano nel dire che sotto i due minuti non c'è nemmeno il tempo "fisiologico" per provare vero piacere. Sono gli italiani stessi a lamentarsi, pur ammettendo in media di fare l'amore nove volte al mese (per un totale di 108 rapporti all'anno), un parametro superiore allo standard mondiale.
Altri dati confermano un certo malcontento: il 70% degli abitanti dello Stivale lamenta una generale insoddisfazione fra le lenzuola, e almeno 800mila coppie rischiano il patatrac proprio per questi motivi. Ma le difficoltà a letto potrebbero anche dipendere da un fattore psicofisico ben preciso: l'eiaculazione precoce. Secondo l'indagine di DoxaPharma molti italiani soffrono di questo disturbo (dal 30 al 70%) e solo in rari casi sanno affrontare adeguatamente il problema. Procastinare l'intervento del medico, in particolare, dell'andrologo, può essere deleterio per la coppia che si logora e perde sempre più fiducia in sé: l'uomo smarrisce l'autostima e la donna, non sapendo come gestire il limite del partner, spesso diviene insofferente, incrementando il disagio maschile.
Quando si può parlare di eiaculazione precoce? L'International Society of Sexual Medicine indica un problema reale quando, durante la maggior parte dei rapporti, l'eiaculazione avviene entro uno o due minuti dalla penetrazione. Si parla di eiaculazione precoce grave, quando l'uomo eiacula dopo tre movimenti coitali o ancor prima della penetrazione. Può essere dovuta a deficit organici, riguardanti l'attività prostatica, tiroidea, uretrale; ma anche l'azione masturbatoria, in determinati contesti, può favorire l'evoluzione di una particolare muscolatura a discapito della capacità di raggiungere l'orgasmo in tempi idonei al soddisfacimento della coppia. Spesso l'handicap sessuale è di origine nervosa, psicosomatica. Per Freud era riconducibile a "pulsioni sadiche, intense e inconsce dell'uomo nei confronti della donna". Molto più prosaicamente la psicologia riconduce il problema all'ansia da prestazione, ossia alla difficoltà di molti maschi di affrontare in modo maturo e consapevole un'esperienza sessuale. Qualunque sia la causa, assicurano gli esperti, l'eiaculazione precoce può essere facilmente sconfitta: con l'ausilio di antidepressivi, la circoncisione, l'impiego di creme anestetiche, la fitoterapia, la terapia cognitivo-comportamentale.


BOX

Contro il declino cognitivo o, in generale, la perdita di freschezza mentale, è molto più efficace il sesso che non la "ginnastica cerebrale", legata all'abitudine di cimentarsi in passatempi come il sudoku o l'enigmistica. E' il parere di Barry Komisaruk, della Rutgers University, in USA. Lo scienziato, che da anni lavora sull'orgasmo femminile, dice che il piacere sessuale ha ripercussioni benefiche sull'intero cervello, mentre i tradizionali "esercizi per la mente", riflettono solo specifiche aree cerebrali. «Durante l'orgasmo si ha un enorme incremento di afflusso sanguigno», afferma Komisaruk, «il sangue porta i nutrienti e garantisce l'omogenea ossigenazione dell'organo cerebrale». 

(Pubblicato su Il Giornale il 30 settembre 2013)