mercoledì 28 agosto 2013

Alla scoperta di Adamo ed Eva

Un ipotetica ricostruzione di Adamo
Un’indagine da veri detective molecolari ha permesso a un team di scienziati italiani di fare luce sulle nostre radici e comprendere in che modo le caratteristiche genetiche maschili e femminili si sono differenziate. Il riferimento è al cromosoma Y maschile e al Dna mitocondriale femminile, due parametri chiave per la storia evolutiva dell’Homo sapiens, tenuto conto del fatto che il primo si trasmette solo dai padri ai figli maschi, mentre il secondo viene ereditato esclusivamente dalla madre. In altre parole, grazie a questo studio, siamo ora in grado di stabilire la “contemporaneità” di Adamo ed Eva e, soprattutto, i numerosi processi genetici e mutazionali che si sono accavallati nel corso dei millenni.
Sappiamo, infatti, senza dubbi che l’uomo proviene dall’Africa, ma in che modo la genetica abbia contribuito nei dettagli a questo risultato, è sempre stato un argomento piuttosto spinoso: «Siamo passati da una visione nebulosa a una visione impressionista», rivela Francesco Cucca, coordinatore dello studio, membro del Cnr italiano e professore dell’Università di Sassari. «Grazie ai progressi della tecnica e all’approfondimento dello studio della sequenza del Dna del cromosoma Y, abbiamo potuto rilevare con una precisione senza precedenti la storia genetica del maschio moderno, muovendoci a ritroso, fino a raggiungere un periodo compreso fra 180mila e 200 mila anni fa».
Il risultato ottenuto da Cucca e colleghi è stato messo a confronto con altre ricerche effettuate sul Dna mitocondriale, già studiato in passato perché molto più piccolo del cromosoma Y e più facile da analizzare. Così è emersa la “contemporaneità” fra le due realtà evolutive, maschile e femminile, e la presunta data in cui degli ipotetici Adamo ed Eva possano essersi scambiati il primo bacio. «Lo studio, però, non deve trarre in inganno», spiega Cucca. «Non si tratta infatti di evidenziare tanto la contemporaneità dei nostri antichi progenitori maschili e femminili - ovviamente coevi visto che ci riproduciamo solo per via sessuata - bensì la nostra capacità di sapere leggere il passato con sempre maggior nitidezza, utilizzando il Dna come un registro molecolare capace di farci “viaggiare” nel tempo, verso epoche sempre più distanti dalla nostra realtà».
L’Africa, in ogni caso, è senz’altro l’angolo terrestre in cui i nostri progenitori hanno mosso i primi passi per raggiungere l’Asia, l’Oceania, il Medio Oriente, l’Europa e il resto del mondo. Gli scienziati ritengono che l’Homo sapiens – e quindi i nostri Adamo ed Eva – provengano dalle regioni dell’Africa subsahariana di 200mila anni fa. A Kibish, in Etiopia, nei pressi del fiume Omo, sono state trovate prove concrete risalenti a 195mila anni fa. «Non è solo la genetica a condurci in questa parte del mondo, ma anche altre discipline come l’archeologia e l’antropologia», dice Cucca. «Le migrazioni dell’uomo sono “scritte” nel suo DNA, e ora possiamo finalmente dire di disporre degli strumenti idonei per disegnare l’intero cammino evolutivo umano».
I ricercatori hanno esaminato i dati genetici del cromosoma Y di 1200 individui di origine sarda,  “portatori” di un corredo cromosomico rimasto inalterato per secoli e secoli: «I nostri studi stanno evidenziando come i sardi rappresentino la popolazione contemporanea con caratteristiche genetiche più simili a quelle dei proto-europei, gli antichi abitanti dell’Europa», conclude lo studioso italiano. «Abbiamo trovato conferma anche da una serie di analisi compiute comparando l’assetto genetico di tutte le popolazioni europee contemporanee, con quello ottenuto dal Dna estratto da ossa preistoriche, incluse quelle provenienti dalla mummia bolzanese di Similaun, il famoso Otzi, vissuto 5mila anni fa in Val Senales». 

(Pubblicato in prima pagina su Il Giornale, il 27 agosto 2013) 

lunedì 26 agosto 2013

La dieta anti-zanzara


Da quando sono giunte in Italia e in Europa, una ventina di anni fa, le zanzare “esotiche”, in grado di pungere durante l’intera giornata (e non solo all’imbrunire come quelle “tradizionali”), è divenuta una sorta di ragione di vita individuare lo stratagemma ideale per cercare di tenerle lontane. Ai vari zampironi si affiancano, infatti, cedronelle, vasi di gerani, braccialetti antizanzara, prodotti chimici, e chi più ne ha, più ne metta. Eppure si trascura il fatto che, il primo passo da fare per cercare di contrastare la loro azione fastidiosa, non contempla ritrovati particolari dell’industria, bensì gli alimenti di cui ci nutriamo e le bevande che consumiamo. «Solo una persona su dieci, del resto, è particolarmente suscettibile all’azione delle zanzare», rivela Jerry Butler, dell’Università della Florida.
In base a ciò che ingeriamo, infatti, i ditteri trovano più o meno gradevole il nostro sangue. Un esempio. Gli alimenti caratterizzati da alte concentrazioni di vitamine del gruppo B (B1 e B6) e vitamina C hanno il potere di alterare la “qualità” del sudore, rendendoci “inappetibili” alle zanzare. Lo stesso accade con l’aglio o pietanze particolarmente ricche di spezie. In Messico sono convinti che chi si nutre abbondantemente di peperoncino piccante è praticamente immune dalle punture dei culicidi. È una credenza (che la scienza non smentisce) che risale all’epoca dei Maya, anche se ancora nessuno è in grado di stimare la quantità di cibo che andrebbe assunto per poter trascorrere serenamente una sera d’estate sulle rive del lago o del fiume preferito.
Di contro ci sono prodotti che attirano le zanzare, come la birra. Più studi hanno infatti messo in luce che chi beve molte “medie”, si difende con più difficoltà dalla punture di zanzare. «Sappiamo per certo che esiste una relazione fra le punture di zanzare e l’abitudine di bere molta birra», spiega Leslie Vosshall, ricercatrice americana della Rockfeller University di New York, «tuttavia non sappiamo bene perché ciò accada». La nuova tesi trova conferma in uno studio del Centro di Ricerca IRD di Montpellier, con il coinvolgimento di 25 volontari (invitati a bere un litro di birra) e 2.500 zanzare appartenenti alla specie Anopheles gambie. Gli esperti hanno capito che le zanzare non solo sono attratte dal sudore alterato dei bevitori, ma hanno anche imparato ad associare lo stato di ebbrezza a una maggiore “vulnerabilità” dell’uomo da punzecchiare. A loro modo sono tutt’altro che stupide, essendo in grado di muoversi abilmente verso la preda preferita anche in piena notte e giungendo da cinquanta metri di distanza, zigzagando, magari, fra altri mammiferi potenzialmente attaccabili.
Al di là di ciò che mangiamo e beviamo, gli scienziati hanno scoperto che c’è un altro parametro che le zanzare osservano prima di colpire: il sistema immunitario. Vosshall ha chiarito che le zanzare amano il “sangue cattivo” (altrochè quello dolce che, peraltro, dal punto di vista scientifico non significa nulla), quello cioè tipico di una persona con un sistema immunitario meno efficiente contro il potere anticoagulante del siero iniettato dagli insetti. Gli studiosi di New York hanno indirizzato sciami di zanzare contro alcuni volontari, evidenziando che i ditteri pungono un po’ tutti, prediligendo, però, coloro che erano caratterizzati da questa “firma” ematica. E sempre a proposito di sangue, si è visto che anche il gruppo sanguigno influenza la possibilità di essere presi o meno di mira dalle zanzare. Si è infatti visto che le persone caratterizzate dal gruppo sanguigno 0 vengono attaccate in una percentuale del 50% superiore a quella di chi ha un gruppo sanguigno A, mentre quelli appartenenti al gruppo B non interessano ai ditteri. Analogamente è stato possibile assimilare le persone preferite dai culicidi, agli individui con un’alta concentrazione di batteri a livello epidermico o con alti valori lipidici.

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Peperoncino: secondo i Maya tiene lontano le zanzare. Gli scienziati non smentiscono, ma non esistono prove concrete del suo potere insetticida.

Aglio: vale lo stesso discorso del peperoncino. In questo caso, però, è stato scientificamente provato l’effetto repellente dell’allicina, già noto antibatterico.

Birra: chi ne beve troppa attira gli insetti, e in particolare le zanzare. Causa infatti una sudorazione peculiare, gradevole al “palato” dei ditteri; diminuisce la prontezza di riflessi, facilitando l’azione dei culicidi.  

Gruppo sanguigno 0: è il gruppo sanguigno preferito dalle zanzare. Al contrario gli insetti snobbano le persone con gruppo sanguigno B. Intermedio il gradimento legato ai portatori del gruppo A.  

Colesterolo alto: i culicidi sembrano gradire le persone oversize e chi presenta alte concentrazioni di grasso nel sangue. Amano anche alti livelli di acido lattico e urico. 

(Pubblicato su Il Giornale il 10 agosto 2013) 

domenica 18 agosto 2013

Dal dentista "senza" anestesia


Si chiama odontofobia, ed è la paura che insorge, talvolta con veri e propri attacchi di panico, quando dobbiamo recarci dal dentista. Si stima che ne soffrano, solo in Italia, milioni di persone. Fra le procedure odontoiatriche più temute c’è l’anestesia locale, alla quale siamo praticamente costretti a sottoporci per evitare di sentire dolore durante operazioni come l’otturazione o la devitalizzazione. Ma fra poco potremo dirle addio, per via di un prodotto rivoluzionario in grado di garantire gli stessi risultati senza dover patire alcuna sofferenza fisica. È uno spray nasale anestetico, messo a punto da Sebastian G. Ciancio, dell’Università di Buffalo e già approvato dalla Food And Drug Administration (FDA), l’ente statunitense che permette la distribuzione e l’utilizzo dei farmaci.
Deriva da un anestetico nebulizzato, usato di solito per interventi di otorinolaringoiatria, il cui effetto collaterale è quello di rendere insensibili i denti dell’arcata superiore. Basa la sua azione sull’attività di due molecole, la tetracaina e l’oximetazolina. La prima è ben nota in ambito medico, serve per anestetizzare il cavo orale durante le gastroscopie, ed è impiegata anche in oftalmologia. L’oximetazolina è utilizzata, invece, come decongestionante delle vie nasali, ed è la risorsa ideale per curare sinusiti e riniti allergiche.
Tramite la loro azione combinata, Ciancio è riuscito ad “addormentare” le aree anatomiche tipicamente interessate dalle mani del dentista,  assicurando nel 90% dei casi esaminati lo stesso risultato offerto dall’anestesia tradizionale. È multiplo, in realtà, il beneficio. Perché con l’azzeramento della paura, si ha anche un annullamento dei rischi legati alle lesioni ed esposizioni ad agenti patogeni che talvolta insorgono con le normali iniezioni. «Il nuovo prodotto consente peraltro di sopperire ai rischi legati all’eventuale, ma non rara, inefficacia della anestesia standard», spiega Ciancio. 45 gli adulti coinvolti, età media, 39 anni. «Durante i test abbiamo tenuto costantemente monitorato la soglia del dolore dei pazienti», dice Ciancio, «ed eravamo pronti a intervenire nel caso in cui lo spray non fosse sufficiente a ridimensionare il dolore». Lo scienziato ha stabilito una “scala del dolore”, da 0 a 170, verificando che gli interventi erano quasi sempre ben tollerati.
Ma non è l’unico stratagemma di nuova generazione messo a punto per curare l’“ansia da dentista”. Recentemente è stato introdotto anche il “trapano musicale”, impiegato prevalentemente per spazzare via le carie. Il nuovo strumento odontoiatrico è collegato a un lettore mp3 e consente di far ascoltare la musica preferita al malato, per distrarlo e rendergli più sopportabile la “seduta”. Per ridurre, invece, in modo drastico la paura del dentista è stata testata la cosiddetta “sedazione cosciente”, o analgesia sedativa, improntata sull’azione di una miscela di ossigeno e ossido di azoto che, somministrata tramite un’apposita mascherina, è in grado di assicurare al paziente  in pochi minuti un senso di benessere e rilassamento, tale da permettendogli di affrontare con serenità qualunque intervento. 

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Fra le nuove proposte odontoiatriche che promettono di curare le carie senza sentire dolore c’è anche l’ozonoterapia. Consiste nell’utilizzo del noto elemento chimico (una forma di ossigeno presente nell’aria che ci difende dai raggi solari nocivi), al posto del trapano e dell’anestesia, per debellare i batteri responsabili delle carie dentarie e stimolare le difese naturali dei tessuti vivi del dente. È indicata per le carie nei primi stadi di sviluppo (quindi va benissimo anche in ambito pediatrico), ma anche quando l’infezione ha intaccato la polpa dentale: in questi casi si può operare per cercare di evitare la devitalizzazione, salvaguardando il dente e riducendo drasticamente la sensazione dolorosa.  

(Pubblicato su Il Giornale il 4 agosto 2013) 

lunedì 12 agosto 2013

"L'uomo non sa far niente". Parola di donna, finché non c'è una ruota da cambiare


Le prime lotte per l’emancipazione femminile sono iniziate oltre un secolo fa, con il termine “femminismo” introdotto nel 1881 da Hubertine Auclert, paladina del movimento e giornalista. L’apoteosi a cavallo fra gli anni Sessanta e Settanta, con il femminismo radicale e l’attività delle Redstockings, gruppo “militante” newyorkese, convinto che “tutti gli uomini hanno oppresso le donne” e che fosse necessario rivendicare definitivamente i propri diritti. Oggi le cose sono decisamente migliorate e la parità dei sessi (perlomeno in Europa e in USA) può essere considerata un dato di fatto. Ma fino a che punto? L’interrogativo sorge spontaneo dopo la pubblicazione ieri di uno studio inglese diffuso dal Daily Mail, nel quale le donne affermano senza mezzi termini che “l’uomo non serve a nulla”; a meno che non ci siano lavori stupidi e ingrati da assolvere... o bere. Il 60% delle donne ritiene, infatti, indispensabile “il potere maschile” quando c’è da eliminare ragni, opilionidi e affini, responsabili di crisi di aracnofobia, guarda caso particolarmente diffuse fra il gentil sesso; il 73% quando salta una ruota e non si intravede nemmeno l’ombra di un meccanico o un gommista; il 56% se c’è da preparare il barbecue per una “cenetta in giardino”. Pochi, invece, i dubbi relativi alle potenzialità dell’uomo-bevitore, per alcune “un vero campione”. Per il resto, l’insofferenza femminile nei confronti del maschio standard, domina sempiterna: l’uomo parrebbe un inetto per natura, incapace di cucinare, stirare, seguire la moda, scegliere i mobili per la casa, fare un regalo appropriato e, naturalmente, ricordarsi gli anniversari. Lo studio è comprensibilmente sindacabile dal punto di vista maschile, poiché il sesso forte è da sempre convinto che l’eguaglianza fra i sessi emerga solo quando torna comodo alle donne; in sostanza se c’è da far da mangiare, lavare i piatti, o cambiare un pannolino, non ci sono dubbi sull’attendibilità e lungimiranza della parità dei diritti; ma poi le cose cambiano drasticamente nel momento in cui c’è da sgominare una banda di famelici topini di campagna o rimboccarsi le maniche per qualunque pesante e frustante lavoro domestico. Non è un caso che “la spazzatura” spetti sempre al capofamiglia. Come dire, la parità dei sessi funziona solo in precisi contesti, per il resto può essere considerato un optional. In realtà, le donne coinvolte nel test, un briciolo di spiraglio lo lasciano, rivelando (nel 76% dei casi) che gli uomini sono “abbastanza bravi” ad affrontare le cose che hanno a cuore e che rispetto alle generazioni precedenti, qualcosa – in meglio – è cambiato. Ma subito precisano che sono anche quelli che con maggiore frequenza perdono l’aereo, dimenticano a scuola i bambini, e si fingono malati per non andare al lavoro. Eppure si dovrebbe guardare a questi risultati con indulgenza, poiché non sono altro che il frutto di migliaia di anni di evoluzione. L’uomo e la donna, per quante battaglie sociali potranno essere nuovamente benedette, rimarranno sempre mondi a se stanti, predisposti per compiti precisi, con cervelli “tarati” per sensibilità diverse e fisici con competenze distanti anni luce. Il corpo maschile, dalla notte dei tempi, per via di dinamiche fisiologiche peculiari, è predisposto per la lotta e per il combattimento; quello femminile per procreare. Il cervello degli uomini è essenzialmente “monotematico”, riesce a elaborare un solo pensiero alla volta, ma può raggiungere livelli di concentrazione che le donne possono solo sognarsi; ecco perché gli uomini eccellano coi numeri, e le donne con le parole (anche grazie alla simultanea attività dei due emisferi cerebrali). Le donne, infine, sono imbattibili nel ricordare date e anniversari. Non si perdono un compleanno, un matrimonio, una ricorrenza. Ma è anche questa una strategia evolutiva: dimostra il loro alto indice emotivo, fondamentale per la cura e la crescita dei figli. 

(Pubblicato su Il Giornale l'8 agosto 2013)

giovedì 8 agosto 2013

La (vera) storia del piccolo Buddha


La bilocazione, ossia la capacità di mostrarsi in più posti contemporaneamente, sarebbe solo uno dei tanti prodigi che contraddistinguerebbero il Piccolo Buddha, prerogativa anche di molti santi della tradizione cattolica, come Padre Pio, Sant'Antonio da Padova e San Francesco. Stando, infatti, ai vari documenti che circolano sul suo conto, sarebbe inoltre in grado di vivere senza mangiare e bere e di resistere alle fiamme. Piccolo Buddha è il soprannome dato a Tamang Tulku Rinpoche, un giovane nato in Nepal il 9 aprile 1990, che dal 2005 si comporta come una specie di Buddha reincarnato, osservando lunghi periodi di meditazione e predicando la pace. Scompare e ricompare nei posti più diversi, attirando migliaia e migliaia di fedeli. Ma lui stesso smorza i toni relativi alla sua presunta soprannaturalità, sostenendo di non poter essere il Buddha reincarnato per il semplice fatto che, chi raggiunge l'illuminazione (il nirvana), non può più tornare a respirare nel corpo di un vivente. «Io non ho la sua energia», rivela, «posso "solo" essere considerato un rinpoche», importante figura del macrocosmo religioso tibetano; o un bodhisattva, individuo che dedica tutto il suo tempo alla meditazione. In ogni caso Tamang Tulku si mostra fin da piccolo diverso dai coetanei, teso a traguardi che normalmente non caratterizzano i più giovani. Il piccolo Buddha si isola, evita di giocare con gli altri bambini, ha un rispetto assoluto per gli animali, e dal compimento del quinto anno di età si nutre solo degli avanzi di cibo. I genitori, dapprima preoccupati, intuiscono le sue potenzialità e lo spingono a entrare in un monastero. Tmang Tulku si dimostra un ottimo allievo, pacifico e dedito come nessun altro alla meditazione, ma è anche molto determinato e ama fare di testa sua, per esempio rifiutandosi di tagliare i capelli. Dopo una visita nel luogo di nascita del principe Siddharta Gautama si ammala gravemente e torna a vivere con i genitori. Ripresosi, fugge da casa il 16 maggio 2005, rifugiandosi ai piedi di un gigantesco Ficus religiosa. Assume il nome buddista di Palden Dorje e inizia a meditare giorno e notte, mostrando doti incredibili, fra cui resistere al veleno di due cobra e restituire la parola ai muti. Arriva l'inverno, particolarmente rigido in Nepal, e ancora una volta il piccolo Buddha mostra le sue eccezionali virtù, auto-riscaldandosi accumulando calore; un fenomeno chiamato "tummo", appannaggio esclusivo dei maestri tibetani più dotati. I media e l'opinione pubblica pressano, lo filmano le telecamere e davanti a tanto frastuono trova una sola soluzione: sparire di nuovo. Dato per morto, divorato da qualche predatore della giungla, ricompare il 25 dicembre 2006; e poi ancora il 10 novembre 2008, per benedire 400mila persone. Oggi il suo mito è sempre più in voga, ma ancora in molti si chiedono se sia davvero una figura "in odore di santità" o un sedicente "venditore di fumo". C'è anche chi suppone che gli introiti derivanti dalla sua fama finiscano nelle mani dei ribelli maoisti. Qualcosa di strano c'è: nel 2012 i suoi seguaci hanno catturato una donna slovacca (che dice di essere stata violentata) e potrebbe non essere stata l'unica. La scienza, intanto, indaga. Nel 2006, Discovery Channel ha filmato il ragazzo in meditazione per 96 ore, durante le quali, in effetti, non si è mosso, non ha bevuto, né mangiato. Gli esperti s'interrogano dicendo che in simili condizioni chiunque morirebbe per insufficienza renale. Ma ci sono ancora molti aspetti da chiarire, non ultimo il pannello che tutte le sere cala sul suo corpo, nascondendolo dalla vista di chiunque. Per i più scettici è la prova che durante la notte ricarica le batterie rifocillandosi e accumulando energia per nuove "prove del fuoco".

(Pubblicato sul 4° numero del settimanale "Miracoli") 

lunedì 5 agosto 2013

Elogio (?) alla monogamia


Estate, tempo di tradimenti. Durante la bella stagione sempre più coppie scoppiano perché uno dei due partner flirta con un estraneo. Il fenomeno è tanto diffuso da riaccendere un quesito mai sopito: davvero la monogamia è una prerogativa della specie umana? Secondo varie religioni non c’è dubbio, tuttavia il modernismo, la rivendicazione dei diritti femminili, e numerose altre conquiste a livello sociale da parte di ambo i sessi, hanno scardinato completamente questo principio, arrivando a sospettare che la monogamia sia una forzatura, e che la specie umana non sia “programmata” per avere un solo compagno/a nella vita. Ora, però, un nuovo studio sembra ridare animo al vecchio paradigma, rivelando che la nostra specie è arrivata così in alto nel suo cammino evolutivo, proprio perché a un certo punto dell’evoluzione è entrata in gioco la monogamia. Senza sarebbe rimasto allo stato brado, vivendo né più né meno come i numerosi altri vertebrati e invertebrati che caratterizzano il nostro pianeta. La monogamia, infatti, ha creato i presupposti per evitare che individui esterni a un determinato nucleo familiare, potessero sterminare un clan, accanendosi in particolare sui più piccoli, il futuro della specie; per evitare gli infanticidi.
A queste conclusioni è giunto Christopehr Opie, antropologo dell’University College of London, dopo aver analizzato il comportamento di 230 specie di primati e valutato il numero di infanticidi. È emerso che un terzo di essi osserva la monogamia e che laddove è presente, le chance di sopravvivenza per i più piccoli sono maggiori. Secondo Opie la monogamia è una conquista evolutiva relativamente recente, essendosi affermata su per giù 16 milioni di anni fa, circa 40 milioni di anni dopo l’avvento del primo primate. La scoperta di Opie trova conferma negli studi di Sergey Gavrilets, biologo evoluzionista dell’Università di Knoxville, secondo il quale «la “parità dei sessi” ha rappresentato la maggior transizione in termini di evoluzione, che ha fortemente alterato la traiettoria evolutiva della nostra specie». Mentre uno studio condotto dalla University of British Columbia, ha evidenziato che la poligamia è direttamente proporzionale all’incremento della criminalità (poiché solo i più abbienti possono ambire a un ampio parterre femminile).
Il discorso trova un’ideale corrispondenza antropologica con la menopausa femminile, tipica della nostra specie. A un certo punto dell’evoluzione è comparso anche questo aspetto fisiologico, per consentire l’affermazione sociale della nonna, in grado di dedicare tutte le sue forze ed energie alle cure parentali, incrementando progressivamente le possibilità di sopravvivenza della propria discendenza; è stato dimostrato da uno studio condotto nel 2003, da un team di ricercatori della UCLA di Los Angeles, che ha osservato per lungo tempo il comportamento delle sessantenni degli Hazda, tribù della Tanzania, che si sarebbe già estinta senza il contributo di energiche e instancabili vecchiette. La cosiddetta “teoria della nonna” è però stata messa in discussione proprio pochi giorni fa, in seguito a una ricerca che dice che la menopausa sarebbe sopraggiunta in seguito alla tendenza naturale del maschio di accoppiarsi con donne giovani: a lungo andare il fenomeno avrebbe portato all’infertilità della donna matura, per consentire accoppiamenti teoricamente più “produttivi”.
In ogni caso, senza la monogamia e la menopausa, l’uomo conserverebbe ancora oggi i caratteri primitivi di specie che alla “qualità procreativa”, dalla notte dei tempi sostituiscono la quantità. Ecco perché pesci e anfibi (e naturalmente tutti i taxa inferiori come gli insetti), comparsi molto prima dei mammiferi, producono un numero eccezionale di uova da cui nascono molti piccoli che, però, solo in una bassissima percentuale raggiungono l’età adulta. Le eccezioni riguardano gli uccelli, dove, nel 90% dei casi, la monogamia è routine. Ma è ammesso il “tradimento”, fondamentale per aumentare la fitness riproduttiva. Dopo una scappatella la coppia si ricompone senza problemi, assicurando alla prole un degno futuro.

Specie monogame:

Pinguino

Sono state osservate coppie fedeli per più di dieci anni (16 anni, il record). Il fenomeno è stato studiato molto bene nei pinguini di Magellano, specie tipica delle coste marine del Sud America.  Per giungere a questo risultato gli studiosi hanno utilizzato bande elettroniche direttamente collegate ai satelliti, in grado di monitorare gli spostamenti di singoli individui.

Lupo

È la specie monogama per eccellenza, un’eccezione nell’ambito dei mammiferi (esclusi i primati). La coppia di lupi può durare anni, e in certi casi un’intera vita. Alla morte del “partner” è difficile che l’animale formi una nuova famiglia. Diviene spesso misantropo o un capo branco, ma raramente “tradisce” il primo amore.

Aquila

È fra gli uccelli più fedeli in assoluto, arrivando a legarsi a un compagno/a per tutta la vita. È una strategia indispensabile alla loro sopravvivenza: mentre uno dei due caccia, l’altro cura la prole. Quando, però, uno dei due partner muore, l’altro ci mette pochissimo a riformare una nuova famiglia.

Cavalluccio marino

La curiosissima forma dell’animale trova corrispondenza nell’attitudine del cavalluccio marino a formare coppie stabili, che nel mondo dei pesci è pressoché inesistente. È una questione di sopravvivenza, poiché le uova, dopo la deposizione, vengono protette dal “marsupio” maschile, fino al momento della schiusa.

Panda

La loro monogamia è dettata anche dal fatto che abitano un territorio molto vasto, ma in pochissimi esemplari; di conseguenza i casi di coppie stabili e consanguinee sono molto frequenti. Il panda gigante ha peraltro un periodo riproduttivo che dura solo un paio di settimane all’anno, parametro che contribuisce a incrementare il suo rischio di estinzione.

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La monogamia? No, grazie

La pensa così un ampio numero di persone coinvolte in uno studio condotto dall’Università dell’Iowa. Un terzo circa, dei 783 adulti eterosessuali intervistati fra i 18 e i 60 anni, ha rivelato di avere tradito il partner e di non ritenere “naturale” la monogamia. Per le donne è più facile tradire con un amico, per un uomo, con una sconosciuta. È la stessa filosofia di pensiero che emerge dagli studi di Eric Anderson, sociologo americano, autore di “The Monogamy Gap – Men, Love, and Reality of Cheting”, secondo il quale la monogamia è “contro natura”, soprattutto per il maschio. Anderson ha intervistato 120 uomini e nel 78% dei casi è emerso che sarebbero disposti a mentire (o hanno già mentito) pur di poter avere rapporti con altre donne. La monogamia per essi, e si presume per la maggior parte degli uomini del mondo, è decisamente un optional.  

(Pubblicato su Il Giornale il 3 agosto 2013)