venerdì 17 giugno 2016

Polo Sud, operazione salvataggio


Robert Falcon Scott alla fine non poté far altro che alzare bandiera bianca e arrendersi al gelo tremendo del Polo Sud. Era arrivato secondo alla meta, il punto più meridionale della Terra conquistato da Amundsen, e ormai non c'era più nulla da fare: finiti i viveri e le forze e davanti a sé ancora troppa strada per raggiungere il campo base. Scott e i suoi uomini furono trovati privi di vita poco tempo dopo da una missione inglese andata in loro soccorso. Su un foglio l'esploratore britannico aveva scritto: «Fossimo sopravissuti avrei avuto una storia da raccontare sull'ardimento, la resistenza e il coraggio, che avrebbe commosso il cuore di ogni persona». Erano i primi giorni di gennaio del 1912. Fosse stato oggi, Scott e i suoi uomini sarebbero tornati a casa sani e salvi. Eppure il Polo Sud continua a fare paura. E lo dimostra un'incredibile missione che sta avvenendo in queste ore: il salvataggio di un ricercatore gravemente malato (di cui per motivi di privacy non si possono conoscere le generalità), ospite della base americana Amundsen Scott South Pole. Ci vivono una quarantina di persone, dedite allo studio del clima estremo e della volta celeste, con il contributo di due supertelescopi. Due aerei bimotore Twin Otter sono decollati da Calgary, in Canada, il 14 giugno. Entrambi giungeranno alla base inglese di Rothera, alla "periferia" dell'Antartide; poi solo uno proseguirà fino a quella americana, atteso per il 19 giugno. L'operazione è considerata la più pericolosa nella storia dell'uomo nell'ambito delle missioni per salvare la vita di una persona. E non potrebbe essere altrimenti, se si considera che l'inverno australe al Polo contempla temperature fino a -83 gradi centigradi e il buio perenne; peraltro la base sorge a quasi tremila metri di quota, dove atterrare non sarà uno scherzo. L'aereo canadese destinato all'ultimo approdo utilizzerà gli sci, scivolando avvolto dalle tenebre su una pista che non potrà definirsi tale, essendo una semplice distesa di ghiaccio compatto. E poi c'è tutto il viaggio di ritorno, che come insegna l'esperienza nei climi più rigidi (vedi le principali missioni in alta montagna) è talvolta più ostico di quello dell'andata. Ecco perché da febbraio a ottobre nessun aereo supera certe latitudini. In altre occasioni c'erano stati salvataggi simili, ma condotti durante la bella stagione, che al Polo Sud va da ottobre a febbraio; per esempio nel 2001 e nel 2003. Ma oggi è tutto diverso. All'Amundsen Scott South Pole chi sta male viene curato da un medico che però non può fare miracoli; se non connettersi con un computer col mondo per avere qualche dritta. Qui, invece, serve più di un medico e c'è, dunque, un solo modo per salvare il malato: riportarlo a casa. Come nella trama del noto film Salvate il soldato Ryan. A tal punto la questione assume sfaccettature di natura filosofica e morale. Qual è la molla che porta più persone a rischiare la vita per una soltanto? Si arriva a questi traguardi perché è insito nella natura umana. Tutti, in sostanza, nasciamo altruisti, con la volontà intrinseca di rischiare per gli altri; il problema è che spesso le condizioni sociali, i contesti ambientali, l'educazione ricevuta, compromettono questa attitudine. Gli antropologi sociali e gli psicologi parlano di empatia, ossia la capacità di sapersi mettere nei panni di un'altra persona; di rivivere i suoi patimenti e le sue difficoltà. Ma la verità è molto più prosaica. Dietro a tutto ciò infatti si cela un unico incontrovertibile scopo: creare i presupposti perché la nostra specie possa sopravvivere nel tempo. Certo, nessuno andando a salvare qualcuno ragiona in questi termini; tuttavia la spinta che porta a compiere missioni limite come questa, va al di là del semplice amor del prossimo: è una sorta di programmazione biologica per andare avanti, la stessa che ha consentito alle forme australopitecine di trasformarsi in habilis, e agli habilis di diventare erectus. Insomma, l'anticamera dell'umanità.  

Antibiotici ultraresistenti


Era nell'aria da tempo. Ma solo ora ne abbiamo la conferma: gli antibiotici non sono più la soluzione ideale per fronteggiare le malattie. Stando infatti a una ricerca diffusa dalla rivista dell'American Society for Microbiology esiste un batterio che è ufficialmente in grado di resistere anche all'antibiotico più potente. E' stato individuato nelle urine di una quarantenne americana (che, grazie a un po' di fortuna, è stata salvata): si tratta di un ceppo riconducibile all'Escherichia coli, microrganismo assai noto all'uomo del quale ci si serve anche per condurre esperimenti scientifici. Ma la nuova ricerca mette giustamente in allarme: dall'invenzione della penicillina è la prima volta che si ha a che fare con batteri così potenti, che rimangono indifferenti agli antibiotici più efficaci, compresa la colistina.
Si tratta di un preparato farmacologico ottenuto dal Bacillus polymyxa. E' stato sintetizzato molti anni fa ed è un caduto in disuso per le gravi ripercussioni a livello renale; tuttavia rimane l'ultima spiaggia per cercare di debellare patologie incurabili con gli altri sistemi in commercio. Come quella provocata dallo Pseudomonas aeruginosa di cui non si sa molto, ma si è ben al corrente del fatto che, per esempio in Usa, causa annualmente molti decessi. Gli scienziati hanno individuato il gene della resistenza, battezzato mcr-1. E ora si pensa a come contrastarlo, anche in previsione di un'ipotetica epidemia; che potrebbe investire gli ospedali se non si riesce a capire al più presto le sue dinamiche biologiche. E' stato analizzato per la prima volta in Cina e anche in Italia gli scienziati lo conoscono, benché in rapporto a batteri meno pericolosi.
Da noi accade qualcosa di simile con la klebsiella, altro microrganismo che ha già dimostrato di poter resistere all'azione della colistina. Di pochi mesi fa la notizia secondo la quale diciannove persone decedute fra il 2013 e il 2014 in Puglia potrebbero essere state vittime di questo microbo. E' molto difficile da gestire, perché se da una parte sa convivere pacificamente con l'uomo, dall'altra, all'interno di un fisico già compromesso dalla vecchiaia o da qualche acciacco, può trasformarsi in un pericoloso assassino; invadendo aree anatomiche che di solito risparmia e innescando processi setticemici irreversibili. La situazione italiana, peraltro, parafrasa perfettamente quella americana, al punto che c'è chi pensa di essere tornati a una sorta di era pre-Fleming. In Inghilterra i casi d'infezione mortale negli anni Novanta erano un centinaio, dal 2005 si superano i duemila decessi. In tutta l'Europa si arriva a 40mila morti. Di questo passo nel 2015 ogni tre secondi ci sarà un decesso causato da un batterio ultraresistente. E c'è la preoccupazione che un domani anche interventi chirurgici di routine possano creare i presupposti per lo scoppio di un'invasione batterica. Lo dice anche la World Health Organization che addirittura parla di "apocalisse antibiotici". Di fatto la percentuale di batteri che se ne infischia di un numero sempre più alto di antibiotici sta crescendo di anno in anno. Soluzioni? Poche.Gli scienziati brancolano nel buio. Gli antibiotici hanno rivoluzionato il mondo, ma pensare che possa oggi esserci qualcosa che funzioni allo stesso modo, ma di tutt'altra natura, rischia di essere un'utopia. Per cui si continua sulla stessa strada. Come sta accadendo in America con il progetto 10 x 20. Lo scopo è arrivare a produrre entro il 2020, dieci sostanze di nuova generazione in grado di vincere anche il microbo più ostile. D'altra parte è anche colpa nostra se le cose vanno così. L'utilizzo spregiudicato degli antibiotici ha, infatti, portato molti batteri a farsi furbi e a riprodursi in modo strategico: così si formano colonie programmate geneticamente per sopravvivere a tutto. 

mercoledì 1 giugno 2016

La Nasa va a floppy disc


C'erano una volta i floppy disc che sembravano una rivoluzione: in un "foglietto" di plastica ci stavano un mucchio di dati che potevano essere trasferiti da un computer all'altro. Sono durati poco. Si è infatti passati ai cd, alle chiavette, e alle "nuvolette" online. Ma non tutto ciò che è passato è destinato all'oblio; perché, come insegnano tanti rimedi della nonna, spesso quel che ha aiutato a vivere meglio le passate generazioni torna di moda e miracolosamente restituisce all'uomo strategie impensate per affrontare con successo determinati compiti. Si torna, dunque, a parlare dei floppy disc perché quest'oggetto ritenuto obsoleto, all'insaputa di (quasi) tutti, è assolutamente indispensabile per l'utilizzo di strumenti bellici di ultima generazione: potentissimi missili via terra. Il riferimento è ai 450 missili intercontinentali americani (icbm) che riposano sottoterra pronti a volare nel caso in cui dovesse scoppiare una nuova guerra nucleare. Trasportano ordigni nucleari e sono in grado di raggiungere notevoli altezze.
Gli Atlas americani furono i primi. Siamo negli anni Sessanta. Gli scienziati che li hanno progettati sono reduci dal secondo conflitto mondiale; in prima linea ci sono figure come John von Neumann, fra i più grandi matematici di tutti i tempi. Da allora sono passati molti anni, ma al di là dei cambiamenti relativi soprattutto all'utilizzo dei combustibili (liquidi o solidi), quel che riguarda le informazioni necessarie a trasmettere i dati necessari all'avvio e al decollo dei razzi sono rimaste inalterate; e sono appunto conservate in autentici reperti dell'archeologia hitech: i floppy disc. E peraltro non si sta parlando di quelli di recente generazione, che chi ha più di vent'anni dovrebbe avere maneggiato almeno una volta, ma di quelli del passato, risalenti al 1967; floppy disc a otto pollici, forgiati dall'Ibm. Sono oggetti in grado di contenere 237 kilobyte, contro gli otto gigabyte da cui partono le chiavette usb tradizionali. La notizia è stata diramata in seguito al rapporto del Governnment Accountability Office (Gao), che affronta il Pentagono sostenendo che non ha senso spendere 61 miliardi di dollari all'anno per preservare tecnologie "preistoriche".Ma il quartier generale della Difesa americana si spiega dicendo che ancora oggi i missili balistici, ma anche alcuni bombardieri, basano le loro azioni sul funzionamento di computer risalenti agli anni Settanta; che leggono solo i floppy disc dell'epoca. Stando alle ultime dichiarazioni del Pentagono, l'impiego di questo "originale" sistema tecnologico proseguirà fino alla fine del 2017. L'anno successivo dovrebbero andare in pensione. Meno chiaro il destino dei pc collaudati quando al governo c'era Richard Nixon e si era in piena Guerra fredda. Per ora stanno al loro posto, per il museo c'è ancora tempo. Ma non è esclusa una strategia silente a opera della Difesa americana. Non va, infatti, trascurato che paradossalmente questi strumenti sono anche i più difficili da violare: gli hacker di oggi non saprebbero dove mettere le mani e dunque non c'è rischio di contaminazione o di fuga di informazioni. Ce ne sarebbe per una spy-story.