venerdì 28 ottobre 2016

Il rischio sismico: in Italia e nel mondo

Le placche continentali

Si potrebbe pensare alle macchinine degli autoscontri che scivolano sulla pista e di tanto in tanto collidono. E' così che funziona la Terra. Le automobili sono i continenti, e la pista è rappresentata dall'astenosfera, la parte più superficiale del mantello terrestre; uno strato caratterizzato da moti particolari - detti convettivi - che interferisce con quelli rocciosi soprastanti, determinando il tipico dinamismo delle terre emerse. Così sono nate le montagne, così si sono formati i continenti. Una storia che prosegue da oltre quattro miliardi di anni, e ha portato a numerosi cambiamenti nelle caratteristiche strutturali del pianeta.

Duecento milioni di anni fa esisteva un unico blocco continentale, la Pangea, che iniziò a frantumarsi 180 milioni di anni fa, dividendosi in Laurasia e Gondwana. Dalla Laurasia si formarono l'Europa (e quindi l'Italia), il Nord America e l'Asia nord occidentale; dal Gondwana, Africa, Sudamerica, India e Australia. Oggi i continenti stanno continuando a scappare l'uno dall'altro, e già si prevede quel che potrà accadere fra 250 milioni di anni: la formazione della Pangea Ultima. Ancora un supercontinente. Il risultato della collisione fra Europa e Africa e dell'incontro/scontro fra Africa e Nord America. O potrebbe formarsi l'Amasia, dal confronto fra Asia e Nord America. L'Italia non ci sarà più, ma rimarranno le sue tracce sedimentarie intrappolate da qualche parte. Fra trecento milioni di anni, comunque, si tornerà a una nuova frammentazione, ciclo che continuerà a ripetersi finché il sole non esaurirà tutta la sua energia, trasformandosi in una gigante rossa e disintegrando (quasi) tutti i pianeti che gli girano intorno.

E i terremoti? Sono il motore di questi movimenti; con l'attività vulcanica, cui sono strettamente legati. A seguito dell'interazione fra le placche, infatti, i continenti si avvicinano o si allontanano, dando luogo alle aree di subsidenza e alle dorsali oceaniche. E' il succo della cosiddetta tettonica a zolle, interpretata per la prima volta dallo studioso tedesco Alfred Wegener nel 1912.

La tettonica a zolle: dorsali e aree di subduzione


Le prime riguardano lo scontro fra placche: una zolla s'insinua sotto l'altra, causando forti terremoti e potenti eruzioni. Si verifica in varie parti del mondo, ma l'esempio più efficace riguarda il punto di incontro fra la zolla delle Filippine e quella del Pacifico. 

Qui sorge la fossa delle Marianne, il punto oceanico più profondo della Terra, circondato da numerosi vulcani sottomarini. La zolla pacifica è molto vasta, e dall'Oceania finisce per lambire i confini della placca nordamericana, altra zona fortemente sismica. La famosa faglia di Sant'Andrea è ricordata per avere ospitato alcuni fra i più potenti terremoti mai registrati dall'uomo. Scorre per oltre mille chilometri, attraversando la California, e toccando città popolose come Los Angeles e San Francisco. Da tempo si parla del pericoloso Big One, il famigerato terremoto che secondo alcuni esperti potrebbe addirittura staccare la California dal continente.


In corrispondenza delle dorsali oceaniche, invece, nuova crosta terrestre viene prodotta; e i continenti, anziché scontrarsi, si allontanano. Sono catene montuose sottomarine che arrivano a caratterizzare i fondali oceanici per una lunghezza complessiva che supera i 60mila chilometri. Vere e proprie faglie che riemergono, sputando fuoco. Le Azzorre sono un esempio. L'Islanda, un altro. Anche in questo caso i terremoti - più superficiali che altrove - sono all'ordine del giorno e giustificano ancora una volta il lento ma inarrestabile cammino dei continenti.



Il caso italiano



Nella classifica dei paesi più sensibili all'attività sismica, l'Italia occupa i primi posti. Anche da noi, infatti, ci sono aree di subduzione che determinano periodici movimenti tellurici. La prima si trova in corrispondenza dell'incontro fra la zolla adriatica e la placca europea. La pressione che esercita verso settentrione, ha portato alla nascita delle Alpi. Ancora oggi è in piena attività e comporta lo spostamento del limite occidentale verso est di 40 millimetri l'anno. A sua volta la placca africana scivola sotto quella adriatica nei mari meridionali del Belpaese. E c'è l'arco calabro-peloritano, zona altamente sismica, delimitata da confini ancestralmente riconducibili alla geologia della Sardegna e della Corsica.


Alla luce di ciò si comprende perché in Italia si verificano ogni giorno dei terremoti. 

Le statistiche indicano che dei 1.300 eventi tellurici più significativi avvenuti nel secondo millennio nell'area mediterranea, cinquecento hanno interessato lo Stivale. Fortunatamente molti episodi sono così leggeri da essere percepiti solo dai sismografi (o da persone particolarmente sensibili); tuttavia può capitare che l'energia accumulata in una faglia possa essere tanto elevata da sprigionarsi in un solo colpo, causando scosse di forte intensità che possono provocare gravi danni e mettere a repentaglio la vita delle persone.  Quali sono le zone italiane più a rischio?

Il rischio geologico in Italia


Sicuramente tutta la zona dell'Italia centrale, dove si sono verificati i più recenti fenomeni sismici. La zona dell'Aquila, in Abruzzo, dove è avvenuto il terremoto del 6 aprile 2009, con 309 vittime. La scossa ha interessato tutto il centro Italia. Qualcosa di simile accadde nel 1915, ad Avezzano, con 33mila morti. Amatrice, il 24 agosto di quest'anno; in corrispondenza di una zona litologica interessata da una progressiva distensione degli Appennini, dovuta all'Adriatico che si muove verso nord est, in contrapposizione al movimento appenninico che guarda verso il Lazio.

Poco più a sud c'è l'Irpinia, segnata da un disastroso terremoto nel 1980. I geologi stimarono il coinvolgimento di più faglie che provocarono una scossa che durò novanta interminabili secondi. In Campania ci furono terremoti altrettanto violenti nel 1910 (Calitri) e nel 1962 (Ariano Irpino). A sud, in Sicilia, nel 1908 si ebbe un catastrofico sisma con la decimazione di gran parte della popolazione di Messina e di Reggio Calabria. I sismologi riferiscono oggi di una struttura a "graben", indicando una depressione geologica sede di numerosi eventi tellurici che progressivamente hanno allontanato la Sicilia dal continente; un punto nevralgico della tettonica italiana denominato "siculo-calabrian rift zone".

L'arco calabro-peloritano
Altra zona fortemente sismica è quella in corrispondenza delle faglie che caratterizzano il cuore del Friuli Venezia Giulia. Il 6 maggio 1976 si ebbe una scossa di 6,4 gradi della scala Richter, con gravissimi danni alle città di Udine e Pordenone e l'estrazione di 989 corpi senza vita dalle macerie. Responsabile, la placca adriatica, che spingendo verso nord, con una velocità di due millimetri all'anno, provocò più rotture di faglia, con lo sviluppo di una fra le più potenti scosse sismiche mai registrate in nord Italia.

Nessuna area immune dai terremoti? Forse un paio, ma nessuno metterebbe la mano sul fuoco. Si può citare il territorio compreso fra la Lombardia occidentale e il Piemonte orientale, e l'estremità meridionale della Puglia. Entrambi appartengono alla zona 4, con un rischio sismico giudicato "minimo". 

Terremoto nelle Marche: l'intervista a Mario Tozzi


Nuova potente scossa di terremoto ieri sera, alle 19.11, in centro Italia. I sismografi hanno registrato una magnitudo di 5,4, e l'epicentro è stato localizzato in Val Nerina, fra le province di Macerata e Perugia. Castelsantangelo sul Nera è il paese più colpito: molta paura per i suoi abitanti, ma non ci sono state vittime né gravi danni (se si esclude la caduta di alcuni cornicioni e l'interruzione delle linee telefoniche). Altri centri colpiti sono stati Ussita, Preci, e Visso, in provincia di Macerata. Cosa sta succedendo?
Di nuovo il centro Italia, dove, ormai è ben noto, la terra è in costante movimento: le faglie sottostanti accumulano energia che periodicamente viene rilasciata creando disastri e rischi per la popolazione. Anche ad Amatrice, sede dell'ultimo grande evento sismico, avvenuto il 24 agosto, con magnitudo 6.0, è stata avvertita la scossa; con il crollo di strutture già precedentemente lese. «S'è oltrepassata la soglia di criticità, 4.0 magnitudo», dice Dimitri Dello Buono, direttore del laboratorio geoSDI del CNR, «significa che ci troviamo di fronte a un evento che va analizzato con attenzione»

Colpita anche Norcia, a una ventina di chilometri di distanza in linea d'aria da Amatrice. «Abbiamo notizia di danni alla chiesa di San Salvatore a Campi di Norcia, e della chiesa della Madonna delle Grazie di Norcia», ci rivela Francesco Spanicciati, geologo della località in provincia di Perugia. Un forte terremoto? «Non proprio», tranquillizza Mario Tozzi, geologo del CNR, «ricordiamo che abbiamo a che fare con una scala logaritmica, e dunque con un dato nettamente inferiore a quello registrato nel terremoto di Amatrice». Si ragiona, infatti, con un criterio di misurazione che obbedisce a una crescita esponenziale, diversa da una semplice successione numerica. Tuttavia permane il grande dubbio: perché l'Italia continua a tremare? 

«Al momento, con l'evento appena accaduto, non possiamo ancora dare delle risposte esaustive», prosegue Tozzi, «ma alcune ipotesi si possono avanzare e riguardano il movimento delle faglie. Occorre capire se l'ipocentro sia riferibile alla faglia legata al terremoto di agosto, oppure se è il risultato di una nuova realtà litologica che sta sprigionando energia». Si parla anche di "scosse di replica", per designare eventi sismici che si rincorrono, talvolta, purtroppo, con potenze sempre più elevate. «Ma il futuro non possiamo prevederlo», dice Tozzi, «tutto è possibile e adesso ci sono ancora molti dati da approfondire». 

Quel che è certo è che anche questo terremoto rientra in quella fase di "distensione" che sta interessando gli Appennini: «La catena appenninica si sta riaggiustando», spiega Tozzi, «e pertanto sta subendo un processo di allargamento che periodicamente si fa sentire con scosse sismiche». Risponde a un movimento ancora più lontano nel tempo, riguardante la genesi degli Appennini e delle Alpi, relativo alla spinta dell'Africa, che scivola sotto l'Europa. «E' un fenomeno conclamato», conclude Tozzi, «ma la fase di riaggiustamento degli Appennini viene dopo, e interessa direttamente gli eventi sismici registrati negli ultimi tempi in Italia». 

martedì 25 ottobre 2016

Effetto serra: i record del 2015


Un record di cui non andare fieri: il superamento della soglia di 400 parti per milione di CO2 nell'atmosfera. E' stato registrato nel 2015. Mai si era arrivati a tanto e ci vorranno generazioni prima che si ristabiliscano i livelli precedenti. «E' una nuova realtà climatica», dicono gli esperti dell'Organizzazione meteorologica mondiale (Omm). Ed è l'ultimo dato diffuso dall'Onu (che parafrasa il libro che Edinat ha appena terminato di scrivere per il Touring Club, a proposito del surriscaldamento globale). Cosa cambia rispetto agli anni precedenti?

I 400 ppm di CO2 erano stati già raggiunti in epoche passate, per alcuni mesi e in precisi punti del globo; ma mai si era giunti a questa cifra riferita a una media costante a livello globale. Significa che la concentrazione di anidride carbonica nell'aria su tutto il pianeta ha ormai superato una soglia giudicata critica, che non subirà ridimensionamenti negli anni a venire. Complice la corrente oceanica El Nino che come è noto giustifica le bizzarrie del clima a livello mondiale ogni volta che si instaura.

Il flusso correntizio si verifica fra le coste del Sudamerica e quelle australiane: l'upwelling, la risalita di acqua fredda dai fondali oceanici, si interrompe, determinando un innalzamento delle temperature marine superficiali che si ripercuotono in ogni regione. Ma le brutte notizie non finiscono qui. Stando infatti alle ultime analisi diffuse dall'Onu, l'ultimo anno è stato il più caldo della storia. La temperatura media è risultata più elevata di 0,89°C rispetto alla media del Novecento.

Il futuro non incoraggia, anche perché tutti i tentativi per ridimensionare il livello di diossido di carbonio nell'aria non sono andati a buon fine. Ma la questione è aperta. C'è infatti chi dice che l'uomo non c'entri nulla. E che periodicamente la temperatura cresce causando l'innalzamento del livello marino e lo scioglimento dei ghiacci. Ai posteri l'ardua sentenza.

giovedì 20 ottobre 2016

SOS Schiaparelli


E' andato tutto secondo i programmi, tranne l'ultimo appuntamento, quello fondamentale, con il segnale radio dalla superficie di Marte; che poteva ufficializzare la riuscita della missione ExoMars. Il lander Schiaparelli è sicuramente ammartato ma, al momento, non è in grado di comunicare con la Terra; e non si sa se sarà nelle condizioni di poterlo fare. Ci hanno creduto tutti fino a tarda sera, poi, però, l'incontrovertibile verità: a un minuto dall'ammartaggio il segnale di Schiaparelli è scomparso; e sul volto di scienziati e appassionati è calata la stessa espressione che vestì i volti dei tecnici che seguirono la missione del 2003 Mars Express. Ancora l'Europa, ancora l'Italia. Ma un misero fallimento. Quello del lander Beagle 2, che giunse su Marte ma non riuscì a mettere in moto i pannelli solari, e senza energia è lentamente spirato. Poi il suo profilo è stato scoperto più di dieci anni dopo, grazie alle fotografie della Nasa inviate da Mars Reconnaissance Orbiter. Oggi il timore è, dunque, quello di assistere a un epilogo analogo. Tutto bene fino a Marte, tutto bene per milioni di chilometri, poi, però, al momento clou, la beffa. Eppure è proprio su quest'aspetto che si sta lavorando: l'ammartaggio. Anzi, è proprio uno degli scopi fondamentali della missione ExoMars: capire quale sia la strategia più adatta per ammartare in massima sicurezza. Tutto da rifare? Non proprio. Il messaggio tanto atteso potrebbe arrivare, e in ogni caso è da giudicare un successo essere riusciti ancora una volta ad arrivare sul pianeta rosso.
Perché insistiamo? Perché è qui che l'esplorazione spaziale punterà gli occhi nei prossimi decenni. Scartato Venere per via delle impossibili condizioni della sua superficie (con temperature che superano i 400°C), è rimasto solo Marte, corpo celeste degno di essere definito un "gemello". La sua grandezza (simile alla Terra), la distanza dal sole, il passato contrassegnato dalla presenza di acqua allo stato liquido, sono tutti parametri che ci portano a credere che se proprio un giorno l'uomo dovrà conquistare un pianeta, il primo della lista sarà proprio questo. Qui potrebbe futuristicamente sorgere una base spaziale e l'uomo insediarsi in un posto dove potrà rimirare orizzonti sostanzialmente simili a quelli terrestri (certo ben differenti da quelli di cui potrebbe godere, per esempio, da una qualunque luna saturniana). Non è un caso che il presidente americano Barack Obama, pochi giorni fa, abbia comunicato di credere fermamente nella possibilità di spedire l'uomo sul quarto pianeta del sistema solare entro il 2030.

ExoMars rimane, dunque, la missione più importante dell'Esa. E anche se non si può ancora cantare vittoria, quel che è successo ieri è degno di essere consegnato agli annali dell'esplorazione spaziale. Pomeriggio, prima delle 17.00, è praticamente certo l'ammartaggio del lander Schiaparelli, orfano della sonda madre dal 16 ottobre; Tgo, Trace Gas Orbiter, continuerà a ruotare intorno al pianeta rosso fino al 2020, allo scopo di raccogliere materiale per comprendere la natura dell'atmosfera marziana e valutare la presenza di gas rari come il metano, legati a particolari fenomeni naturali. E altrettanto significativo è il lungo lavoro portato avanti da centinaia di persone.


Un miracolo dell'alta ingegneria spaziale, reso possibile dal contributo di 350 milioni di euro forniti dall'Agenzia Spaziale Italiana (Asi) e dal coinvolgimento di importanti realtà industriali come Finmeccanica e Thales Alenia Space (che hanno realizzato, per esempio, il Radar Doppler Altimeter, fondamentale per la fase di ammartaggio). Dopo il distacco dall'orbiter, Schiaparelli s'è mosso verso la superficie marziana affidandosi a un paracadute che ha ridotto la velocità del mezzo. I primi dati sono giunti a un radiotelescopio in India. In seguito il paracadute è stato espulso e si sono accesi i retrorazzi: la velocità è precipitata da 1700 a 250 chilometri all'ora. Poi la parte più delicata, i fatidici "sei minuti di terrore": lo spegnimento dei motori, a due metri dalla superficie, e la riduzione della velocità a 4 km/h, prima del contatto vero e proprio con il suolo del pianeta rosso. Punto di arrivo: Meridiani Planum. E' un'ampia pianura in corrispondenza dell'equatore, interessante dal punto di vista scientifico per la presenza di particolari minerali potenzialmente riconducibili a sorgenti termali. La stessa che ha accolto Spirit e Opportunity, leggendari rover della Nasa, che per vari anni hanno permesso di scandagliare il suolo di Marte e ora potranno fare compagnia al nuovo arrivato; che speriamo possa dar presto segnali di sé.  

martedì 18 ottobre 2016

2030, si vola su Marte


Un dato perlomeno è ufficiale. L'esplorazione spaziale sta tornando di moda. Come negli anni Sessanta, all'indomani delle dichiarazioni di JF Kennedy - era il 1962 - con le quali prometteva la conquista della Luna nel giro di pochissimi anni. Promessa mantenuta. Poi non si è più fatto nulla di così eclatante, ma non sono mancati traguardi eccezionali, come l'atterraggio su una cometa (la missione Rosetta) e la mappatura di Plutone, a opera della sonda New Horizons. E oggi? Lo racconta Barack Obama, presidente americano alla fine del suo doppio mandato, in un articolo apparso ieri sul sito della CNN: «Entro il 2030 arriveremo su Marte». Certo, Marte non è la Luna, è molto più lontano, e molto più misterioso, tuttavia sono passati quasi cinquant'anni dal primo allunaggio, ed è lecito presupporre che l'industria spaziale abbia fatto passi da gigante. Dunque, andare su Marte sarebbe anche possibile, ma il vero quesito è un altro: a che prezzo?

Obama parla della possibilità di poter reggere sulle sue spalle i nipotini, in attesa del ritorno di una nuova missione umana sul Pianeta rosso. E' una bellissima cornice, ma è probabile che si stiano trascurando fattori importanti, legati alla reale consapevolezza di ciò che significhi far compiere a un equipaggio un viaggio di andata e ritorno su Marte. Per il momento è ancora fantascienza. E benché la Nasa ci lavori da tempo, sono molti i quesiti da risolvere. Al punto che non è ancora tramontata l'ipotesi del viaggio di sola andata ideato da Mars One, progetto del ricercatore olandese Bas Lansdorp, previsto per il 2025. Come dire: fin là gli astronauti possiamo pure mandarceli, poi  però nessuno sa se e come potranno tornare indietro. In molti hanno aderito al progetto. Dei condannati a morte. Ci ha infatti ripensato il ventiseienne Pietro Aliprandi, l'unico candidato per l'Italia, che pochi giorni fa ha confermato di rinunciare alla partenza per amore di Elena, sua futura sposa. Due anni fa i tecnici del MIT di Boston furono fin troppo espliciti: alle condizioni dettate dal protocollo Mars One, la prima colonia di umani su Marte non vivrebbe più di 68 giorni. Punto a capo.

Obama verrebbe dunque cinque anni dopo la promessa di Lansdorp. Ma in un lasso di tempo così esiguo non si può pretendere che l'industria aerospaziale possa aver incrementato chissà quanto le sue potenzialità. In pratica se è azzardata l'idea di Lansdorp, potrebbe essere altrettanto ambigua la promessa di Obama. Il condizionale è d'obbligo, perché c'è una cosa su cui non ci sono dubbi: il futuro dell'esplorazione spaziale potrà avere luogo solo grazie alla collaborazione fra pubblico e privato. «Siamo già molto avanti sotto questo aspetto», rivela il capo della Casa Bianca, «e dunque l'arrivo su Marte richiederà la continua cooperazione fra il governo e gli innovatori privati». SpaceX di Elon Musk e la Boeing di Dennis Muilenberg stanno facendo sul serio. Da anni. Con due progetti in cantiere: Space Launch System, del primo, mira alla realizzazione di un vettore che possa trasportare tonnellate di materiale sul Pianeta rosso; Interplanetary Transport System, di Muilenberg, pensa a un servizio navetta Marte-Terra.

Il più grande interrogativo? I raggi cosmici, particelle di energia che arrivano dallo spazio. La bestia nera della conquista marziana. Si sa che fanno male, ma non si sa quanto e quali impedimenti potrebbero determinare. L'Università della California ha provato a stimare le conseguenze di una lunga esposizione a questo tipo di radiazione e i risultati sono sconfortanti. Topi bombardati con particelle di ossigeno e titanio ionizzati hanno confermato un rapido e inesorabile declino cognitivo. I neuroni non comunicano più come dovrebbero e si possono solo immaginare le gravi ripercussioni che potrebbero esserci a livello mentale: depressione, ansia, demenza, problemi alla vista e all'udito.

Insomma, un giorno, quasi sicuramente, l'uomo muoverà il primo passo sulla polvere rossa di Marte, ma siamo solo all'inizio. Come dice Matt Damon in "Sopravissuto", protagonista di un'odissea marziana: «Non mi rimane che una possibilità: usare tutte le mie conoscenze scientifiche per venirne fuori». 

domenica 2 ottobre 2016

L'UOMO DEI GHIACCI VIVE FRA NOI

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Fece a dir poco scalpore la sua scoperta nel lontano settembre del 1991, ai piedi del ghiacciaio del Similaun, al confine fra Italia e Austria. Ma le sorprese, in realtà, non sono ancora finite, perché non passa mese senza che qualche nuovo studio dia ulteriori informazioni sulle caratteristiche di Otzi, il cosiddetto "uomo venuto dal ghiaccio", vissuto in piena età del Rame, fra il 3.300 e il 3.100 a.C.. L'ultimo interessante ragguaglio in merito alla vicenda umana dell'antico abitatore della Val Venosta, giunge da un team di ricercatori austriaci, che ha evidenziato che esistono almeno 19 persone geneticamente riconducibili a Otzi. Gli esperti di medicina legale al lavoro presso la Innsbruck Medical University hanno analizzato il sangue proveniente da 3.700 donatori, verificando la curiosa analogia: «Abbiamo constatato che 19 persone hanno lo stesso antenato che aveva la mummia del Similaun», spiega Walther Parson, a capo dello studio. «Significa che da un ceppo antropologico risalente a 10mila anni fa, hanno avuto origine sia l'Uomo dei ghiacci che i pochi tirolesi che abbiamo selezionato».

Come è stato possibile giungere a questa conclusione? Grazie allo studio degli aplogruppi, (insieme di aplotipi, vale a dire combinazioni di varianti alleliche in un cromosoma) che permette di studiare le caratteristiche genetiche dei contemporanei e metterle in relazione con chi ci ha preceduto. L'aplogruppo H o T, per esempio, rimanda agli euroasiatici occidentali; l'A o il B, ai nativi americani. Per lo studio di Otzi, in particolare, ci si è avvalsi della trasmissione ereditaria "comandata" dal cromosoma Y, per giungere all'aplogruppo G, presente in antiche popolazioni provenienti dal medio-oriente, e identificato anche nei moderni "cugini" tirolesi. Non è la prima volta che gli studi di genetica offrono interessanti conclusioni sulla rocambolesca esistenza dell'Uomo venuto dai ghiacci. Di poche settimane fa è anche la scoperta della presenza di Dna non umano sulla mummia rinvenuta fra le Alpi Retiche. Si tratta del Dna di un batterio, il Treponema denticola.

E' stato isolato da scienziati dell'Eurac (Accademia Europea di Bolzano), in collaborazione con ricercatori dell'Università di Vienna, da un piccolissimo frammento recuperato dall'osso pelvico della mummia. Gli esperti hanno concluso che Otzi soffriva di paradentosi (un'infiammazione cronica delle gengive), confermando le supposizioni avanzate un anno fa, quando la tac mise in luce una condizione dentaria compromessa. Sicché è oggi possibile stilare un quadro complessivo dello stato di saluto della mummia, tutt'altro che ottimale. Otzi, infatti, soffriva di numerosi acciacchi, comprendenti artrite, intolleranza al lattosio, arteriosclerosi, borreliosi (malattia provocata da un batterio veicolato dalle zecche). Benché la sua fine non coincise con il peggioramento improvviso di uno di questi mali, ma con una punta di selce scagliata da qualche nemico, che si conficcò nella sua spalla sinistra, facendolo, in pochi minuti, morire dissanguato. 

La vespa del Kent

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Una nuova specie di vespa è stata scoperta in Inghilterra, nel giardino di una scuola primaria del Kent. L'ha individuata Andrew Polaszek, entomologo del Natural History Museum di Londra. «Sono andato a prendere mio figlio Timothy e fra i rami di un acero colonizzato da minuscole mosche bianche, ho scorto un insetto che non avevo mai visto», dice il ricercatore. In laboratorio, dopo numerosi test, è stato possibile rivelare l'identità dell'esapode: un imenottero mai classificato prima d'ora, lungo meno di un millimetro, che vive parassitando altre piccole specie d'insetti; depone, infatti, le sue uova sulle larve di altri animali, che poi muoiono divorate dalle vespe appena nate. "Encarsia harrisoni" è il nome della nuova specie, un tributo al professor David Harrison, collega novantenne di Polaszek (al quale in passato avevano già dedicato esemplari appena scoperti). Accade frequentemente, nel mondo, che vengano individuate nuove specie animali, soprattutto in ambito entomologico e microbiologico, tuttavia è molto raro che il fenomeno possa verificarsi alle porte di una delle più grandi città del pianeta. 
«All'inizio, con le prime occhiate al microscopio, ho supposto che potesse essere una specie proveniente dal nord Europa», spiega Polaszek, «poi però sono rimasto davvero meravigliato nel verificare che era un insetto autoctono. Se mi fossi trovato in una foresta pluviale del Borneo, sarebbe stato diverso». "Encarsia harrisoni" si aggiunge, dunque, alla lista di nuove specie scoperte negli ultimi mesi; non solo piccoli esapodi come "la vespa del Kent", ma anche animali di grossa taglia come l'affascinante olinguito, una specie di procione rinvenuto in Sudamerica.