martedì 28 febbraio 2017

Il vulcano alle porte di Roma


Ariccia, Nemi, Valle Marciana, Albano. È qui che il terreno si sta alzando di un paio di millimetri all'anno. Gli studiosi ritengono che il fenomeno possa essere dovuto all'accumulo di magma nelle profondità della terra. Di cosa si tratta? Di un'area geografica che, di solito, parlando di vulcani, non viene presa in considerazione. Si discute, infatti, di Etna, che ha ripreso a brontolare pochi giorni fa; Vesuvio, che tace dal 1944; e Stromboli, con un'attività esplosiva che, di tanto in tanto, torna a farsi sentire; ma non di un complesso di coni vulcanici situato a pochi chilometri da Roma. Eppure qualcosa di strano sta succedendo a sud-est della capitale, in corrispondenza dei Colli Albani, distretto vulcanico che ha emesso lava l'ultima volta 36mila anni fa. Una data che, associata ai "rigonfiamenti" dei terreni limitrofi, induce gli scienziati a interrogarsi su un'attività geologica che, pur non destando preoccupazione (imminente), sollecita una vaga inquietudine. Perché gli studi effettuati da un secolo a questa parte hanno permesso di evidenziare un ciclo eruttivo periodico e preciso: ogni 36mila anni, circa, il vulcano ricomincia a farsi sentire. Una storia che prosegue ininterrottamente da 600mila anni. E che induce, appunto, i geologi a credere che ci sarà presto o tardi una nuova eruzione. Quando? Impossibile dirlo, ma parrebbe inevitabile.

Le più antiche eruzioni nella zona risalgono a quasi un milione di anni fa; ma il motore magmatico dei Colli Albani si è ufficialmente acceso 600mila anni fa, con la cosiddetta fase del Tuscolano-Artemisio. Domina la cultura acheuleana, con reperti provenienti da Amiens, in Francia, che attestano la presenza dell'Homo heidelbergensis, antenato dell'Uomo di Neanderthal. Le eruzioni proiettano in aria quantità enormi di materiale piroclastico, che si accumula dove nel 753 a.C. nascerà la città eterna. Sono tufi e pozzolane di cui i romani si serviranno per costruire le loro dimore. Ogni 30-45mila anni tutto tace, per poi riprendere come se nulla fosse successo. Passano altri 57mila anni e si entra nella fase delle Faete. Va da 400mila a 200mila anni fa. I vulcani laziali sputano cenere e lapilli, imitando l'esplosività dello Stromboli. Cambiano i connotati del paesaggio. Si alternano periodi glaciali e interglaciali. I ghiacci dell'emisfero boreale arrivano a coprire mezza Europa: al posto delle future Berlino e Amsterdam ci sono centinaia di metri di ghiaccio. Scompare l'Homo erectus e si affermano i neandertaliani. Ma l'Europa del sud è in controtendenza e al gelo del settentrione risponde con temperature incandescenti. Una colata di lava arriva dove sorgeranno i confini di Roma e il cammino dell'Appia, che verrà costruita proprio sul tracciato disegnato dal magma. 200mila anni fa inizia a sputare fuoco il cratere di Ariccia; poi entrano in azione quello di Nemi (150mila anni fa), al centro dei Colli Albani, e della Valle Marciana (100mila anni fa).

Oggi, dunque, si sta rimettendo tutto in moto e gli scienziati si interrogano sulle bizzarrie geologiche di quest'area; che non è riconducibile ad altri fenomeni vulcanici registrati nei millenni nel centro Italia. Qui, infatti, agiscono forze "compressive" che in pratica cicatrizzano le fratture della roccia sottostante, soffocando l'energia sprigionata dalle faglie e il magma proveniente dal mantello; che a lungo andare, però, spinge contro la crosta terrestre provocando nuove rotture, che predisporrebbero all'uscita della lava. Un'"inversione di rotta" che, di fatto, confrontandoci con l'ultima fase dell'Olocene (la subatlantica), è già avvenuta, su per giù 2mila anni fa; è dunque del tutto plausibile che a pochi chilometri da Roma una camera magmatica si stia riempiendo di nuovo materiale rovente, pronto a brillare in un futuro non troppo lontano; forse fra decine o centinaia di anni, che in termini geologici sono comunque inezie. Si parla infatti di ere per definire raggruppamenti geocronologici che risalgono agli albori della Terra, e che presuppongono cambiamenti geologici che non possono essere minimamente paragonati all'esistenza media di un uomo.  

E' presumibile supporre che il problema riguarderà i nostri discendenti che, preparati all'evento, avranno tutto il tempo per correre ai ripari. Anche a loro, infatti, si penserà durante i lavori che permetteranno nei prossimi mesi di mettere ulteriormente in luce quel che sta succedendo nel sottosuolo a sud est della città eterna. Si vuole, infatti, valutare con precisione il motivo dei rigonfiamenti del terreno nei dintorni di Roma; per poi, eventualmente predisporre un monitoraggio costante che, a differenza di quel che accade in sismologia, ci permetterà di prevedere con anticipo il prossimo patatrac naturale.

Vulcani sottomarini
E c'è un altro vulcano che non viene mai menzionato: il Marsili. Anche perché nessuno lo può vedere. Il suo cratere, infatti, risiede quattrocento metri sotto la superficie del mar Tirreno. Ma anche in questo caso il riferimento è a un complesso vulcanico - il più grande d'Europa - che potrebbe riaccendersi. L'hanno dimostrato dei movimenti tellurici avvenuti in risposta ai recenti terremoti appenninici. Si sono, infatti, registrate scosse di magnitudo 3,2 a 4 chilometri di profondità. Non si prevedono eruzioni imminenti, tuttavia il vulcano viene tenuto sotto osservazione, perché un'eventuale fuoriuscita di magma, potrebbe provocare un potente tsunami che si abbatterebbe sulle coste dell'Italia sud occidentale.

Il vapore dell'Etna
Ben più noto è invece l'Etna che pochi giorni fa ha prodotto un insolito spettacolo: gli anelli di fumo, tecnicamente noti come "aureole di vapore". Il vapore viene espulso da piccole fenditure del vulcano, e inizia a vorticare muovendosi verso l'alto alla velocità di un chilometro all'ora. L'Etna erutta frequentemente e mostra un'attività costante da migliaia d'anni a questa parte. È caratterizzato da quattro crateri principali, tre dei quali si sono formati dal 1911 a oggi. Nel 1610 le eruzioni proseguirono imperterrite per dieci anni, con l'emissione di oltre un miliardo di metri cubi di lava. L'ultima grande eruzione risale al 14 dicembre 1991.

Sos Vesuvio

A fare più paura di tutti però rimane il Vesuvio. Recentemente l’Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia (Ingv) ha rivelato che se dovesse esplodere coinvolgerebbe con ceneri e lapilli un’ampia area del territorio campano. Si alzerebbe in cielo una colonna eruttiva di 15-20 chilometri che poi ricadrebbe al suolo impattando sulle infrastrutture, causando gravi difficoltà respiratorie e inquinamento delle acque. Altri danni sarebbero provocati dalle colate piroclastiche capaci di raggiungere i 100km/h e dalle colate di fango che si protrarrebbero anche dopo la fase eruttiva. C’è però già pronto un piano di evacuazione che riguarderebbe 25 comuni, per un totale di 672.514 abitanti. 

venerdì 24 febbraio 2017

Artisti al suono delle caverne


Nelle caverne si trovavano per mangiare, bere, dormire, insomma, per vivere le cose di tutti i giorni, ma presto l'istinto per l'arte ebbe il sopravvento e cominciarono anche a pitturare le pareti delle grotte. Così sono giunte a noi raffigurazioni rupestri di grandissimo pregio, che confermano l'intelligenza e l'eclettismo dei nostri antenati. Ciò di cui, però, non eravamo al corrente è che gli antri che gli dettero ospitalità, non furono scelti a caso per immortalare le proprie fantasie, ma servirono per realizzare le opere migliori, in relazione a contesti "spaziali" dalle caratteristiche uniche; dotati di parametri acustici peculiari, in grado di suscitare emozioni e stupore. Stando, infatti, alle ultime ricerche condotte presso l'Acoustical Society of America, gli echi delle caverne, i frastuoni provocati da urla, pianti, canti, fenomeni atmosferici, avrebbero ispirato i primi artisti della preistoria, sensibili a segnali acustici, che nessuno sapeva razionalmente spiegare: «Oggi sappiamo che esistono le onde sonore, in grado di replicare i rumori, di creare "boati" altrimenti ingiustificabili», spiega Steven Waller, a capo dello studio. 

«Ma mettiamoci nei panni dei nostri progenitori: ogni volta che ascoltavano il rimbombo di un colpo, di un movimento, della caduta di un masso, era come se percepissero qualcosa di incredibile e fantastico. Oggi pare impossibile comprendere il mondo della fisica subatomica, per loro, invece, il mistero era tutto questo». Grazie a questi "miracoli" dell'acustica, quindi, i primi uomini impararono a esprimersi al meglio, convinti che gli spiriti o altre entità soprannaturali cercassero di mettersi in contatto con loro, fornendogli i presupposti per creare i primi capolavori. Lo studioso fa degli esempi concreti, parlando di grotte esplorate "acusticamente" in Europa e in Asia, territori dove l'uomo moderno giunse 40mila anni fa. Ma si rifà anche a opere megalitiche come Stonehenge, dove le esperienze acustiche erano al centro della funzionalità del famoso tempio. All'Università di Salford hanno appurato che Stonehenge funzionava come una cattedrale, dove riverberi e vibrazioni creavano atmosfere straordinarie per gli uomini dell'epoca, giustificabili solo con interventi "dall'alto", e in grado di accompagnare perfettamente i riti religiosi. 

Qualcosa di simile accadeva in Perù, presso la civiltà di Chavin de Huantar, sviluppatesi nel 1500 a.C.. Qui un tempio e il suo labirinto hanno messo in luce aspetti di archeoacustica impensabili, concernenti prassi simboliche importanti, religiose e inevitabilmente connesse al mondo dell'arte. Concentrandosi, invece, sulle incisioni rupestri tradizionali europee, dove gli uomini hanno mostrato per la prima volta il loro talento, Waller è convinto del legame fra i soggetti scelti per le raffigurazioni e gli echi prodotti dal loro passaggio. Così si spiega il nesso fra i numerosi disegni riportanti bovidi o cervidi, il cui transito, nei pressi delle caverne, veniva fortemente amplificato, come per magia. I test hanno infine confermato che le caverne con i riverberi maggiori sono anche quelle caratterizzate dalle opere artistiche più belle e interessanti; comprese quelle più angoscianti, riportanti il calco di mani sanguinanti, un omaggio ai vecchi spiriti Memegwashi del Canada orientale.  

Il primo trapianto effettuato da un robot chirurgo


Sono fra gli organi più delicati del nostro corpo che, pur ammalandosi, spesso, non danno sintomi. Quando s'interviene, però, potrebbe essere troppo tardi e il rischio è quello di dover periodicamente purificare il sangue attraverso la dialisi. Il dolore, tuttavia, sa bene di averlo patito una 45enne torinese che, dopo avere subito un inutile intervento chirurgico, ha scelto la strada, anche per i medici, più adatta alla sua guarigione: l'espianto definitivo dell'organo. Solo così ha, infatti, potuto eliminare definitivamente il male. Un'operazione unica al mondo, perché per affrontarla gli specialisti hanno utilizzato un robot: «Non di quelli che siamo soliti immaginare, riproducenti le fattezze di un uomo», ci spiega Paolo Gontero, direttore dell'Urologia universitaria dell'Ospedale Molinette della Città della Salute di Torino, «ma un macchinario altamente tecnologico che ci ha consentito di lavorare in un'area anatomica molto sensibile, che i chirurghi avrebbero fatto fatica a gestire da soli». Insomma, senza il robot non sarebbe stato possibile portare a termine il tradizionale intervento di nefrectomia.

E il motivo risiede nella particolare anatomia della signora: «I reni, infatti, risiedono nella zona lombare, in corrispondenza della fine delle vertebre della schiena», continua Gontero, «ma la paziente ne aveva uno dei due a ridosso dell'utero, in una posizione che le provocava gravi e continui dolori». Un rene "diverso" non solo per la posizione, ma anche per l'anatomia; presentava infatti tre arterie che lo irroravano, mentre è un solo vaso afferente a entrare normalmente in gioco nella zona glomerulare (la parte più importante del rene dove vengono filtrate le sostanze da scartare). Tecnicamente in questi casi si parla di rene ectopico pelvico. Ma la storia non finisce qui. Perché il destino del rene espiantato, che ha finalmente ridato serenità a una 45enne torinese, era quello di finire gettato, come accade con tutti gli altri materiali biologici provenienti dalle analisi mediche o dalle operazioni chirurgiche. 

E invece è stato riutilizzato per restituire la salute a un uomo di 51 anni, da tempo afflitto da una nefropatia che lo costringeva alla dialisi. Dalla donna, quindi, il rene è finito su un tavolo della sala ospedaliera dove - anche grazie alla collaborazione di Luigi Biancone, direttore del reparto di Nefrologia e Maurizio Merlo, chirurgo vascolare - è stata appurata la sua perfetta funzionalità: «Sono passati pochissimi istanti fra l'espianto e il trapianto», ci dice Gontero, «e il rene era in ottimo stato; abbiamo chiuso le tre arterie per poi procedere con il classico intervento di trapianto renale, con l'introduzione del nuovo organo nella fossa iliaca del nefropatico». 

E' la zona dell'addome nella quale, secondo la prassi, vengono inseriti i reni trapiantati, in una sede diversa da quella naturale, ma ideale per ridare la possibilità a un organismo di depurarsi. Poi sono intervenuti altri medici per assicurare al rene trapiantato il corretto "dialogo" con gli ureteri e la vescica. Il futuro? Il robot tornerà presto a fare parlare di sé, essendo in dote all'ospedale torinese da qualche anno, e impiegato regolarmente per interventi urologici di varia natura, coinvolgendo non solo i reni ma anche la vescica e la prostata. Battezzato non a caso Da Vinci (in onore del genio scientifico di Leonardo), continuerà a lavorare grazie ai suoi quattro bracci hitech, tre dei quali perfettamente tarati per maneggiare bisturi, forbici e strumenti elettrochirurgici. Intanto l'equipe medica di Gontero si gode l'eccezionale traguardo raggiunto: due pazienti di mezza età che stanno riprendendo a vivere grazie al perfetto connubio fra uomo e tecnologia. 

martedì 14 febbraio 2017

Il dinosauro nell'ambra


Un frammento di ambra, e ciò che chiunque (ottimisticamente) si aspetterebbe al suo interno: un insetto o una piccola foglia. E invece questa volta la fortuna è andata oltre; e a un paleontologo cinese ha regalato un'inaspettata sorpresa: la piuma di un dinosauro vissuto quasi cento milioni di anni fa. Due i motivi di cui rallegrarsi: la prova che anche i dinosauri possedevano le piume e la consapevolezza che nei mercatini delle città possono nascondersi tesori inaspettati.

Così è, infatti, accaduto a Xing Lida, in Myanmar, nel 2015. Poi il paleontologo l'ha esibito al Museo di Storia naturale di Shangai, dove è emersa l'importanza del ritrovamento. Da qui al Museo reale del Saskatchewan, in Canada, per le analisi con uno scanner a tomografia computerizzata e con un microscopio, il passo è stato breve: «Rendendomi conto di quello che avevo fra le mani, sono esploso di contentezza», rivela Ryan McKellar, paleontologo del centro statunitense.

Si tratta di una sezione di coda, lunga quattro centimetri, appartenuta a un dinosauro di piccole dimensioni, riconducibile alle fattezze di un pollo. Un celurosauro, per la precisione. Abitava l'Asia nel Cretaceo superiore, poco meno di cento milioni di anni fa; ed era carnivoro, anche se incapace di volare. Un esemplare appartenente al mondo dei rettili e non a quello gli uccelli, com'è stato possibile appurare dallo studio dei resti di vertebre collegati alla piuma.

Un ultimo particolare riguarda il mistero che da sempre circonda l'universo dei dinosauri: il colore dei loro corpi. Si sono fatte molte ipotesi, ma dai test effettuati su questo incredibile reperto, possiamo accertare che, almeno una categoria di rettili preistorici, fosse contrassegnata da un rivestimento di piume che dal marroncino viravano al bianco. 

giovedì 9 febbraio 2017

Pianeti extrasolari: ecco dove potrebbe nascondersi la vita


Fino a metà degli anni Novanta non si conosceva neanche un pianeta extrasolare; si sospettava, ma nessuno poteva confermarlo. Poi giunse la notizia dall’Osservatorio di Ginevra: Michel Mayor e Didier Queloz fecero luce su un corpo celeste che ruotava intorno a 51 Pegasi, stella situata nella costellazione di Pegaso, a 47 anni luce dalla Terra. Intuizione che, in realtà, era già venuta a Alexander Wolszczan (e a ben vedere perfino a Isaac Newton molti secoli prima), un polacco che affidandosi al telescopio di Arecibo, nel 1992, disse di avere inquadrato due pianeti che giravano intorno a una pulsar; la notizia rimase in sordina, ma ancora oggi la paternità del primo pianeta extrasolare non è stata affidata.

Tuttavia dai pionieristici anni Novanta a oggi siamo arrivati a quota 3.560, dato confermato il 14 gennaio 2017. E lo spazio non ha smesso di sorprendere. Anche perché le tecniche per “scansionare” i pianeti extrasolari si stanno affinando sempre più. Il metodo del transito, per esempio, consente a un telescopio di puntare le antenne su una particolare stella, per poi aspettare che un corpo celeste ne oscuri una piccola parte; permettendoci di arrivare indirettamente a presumere l’esistenza di un pianeta. Ma è solo l’inizio della sfida. Perché l’identificazione di un corpo celeste ha davvero senso se è possibile paragonarlo alla Terra; da qui, infatti, si può arrivare a ipotizzare la presenza della vita. Cosa ci frena?

L’incapacità attuale di “diagnosticare” appropriatamente l’atmosfera dei pianeti extraterrestri e la loro natura geologica; l’ossigeno è prioritario, così come una superficie solida. Il problema è che al momento questi due parametri si possono solo presupporre, perché gli strumenti a disposizione non sono abbastanza potenti. Su Scientific Reports emerge che l’ossigeno dei pianeti extrasolari potrebbe non essere di origine biologica; mentre sulla Terra il fenomeno è palesemente associato alla fotosintesi clorofilliana, contemplata per la prima volta 3,5 miliardi di anni fa da strutture algali primordiali, grazie alle quali è iniziata la lunga avventura delle specie aerobiche. Altrove potrebbe derivare da reazioni coinvolgenti l’ossido di titanio, abbondante, per esempio, nei meteoriti e sulla luna.

È un primo passo per renderci conto che la vita sulla Terra potrebbe essere una peculiarità, non necessariamente assimilabile ad altri contesti spaziali. Ma il telescopio Hubble è riuscito a essere più preciso, indicando cinque pianeti con caratteristiche chimico-fisiche più vicine a quelle dei pianeti terrestri, rispetto ai giganti gassosi come Giove o Saturno. La prima suggestione riguarda il pianeta extrasolare a noi più vicino, scoperto l’estate scorsa. Orbita intorno a Proxima Centauri, astro che brilla ad “appena” 4,2 anni luce da noi. In termini astronomici è dietro l’angolo. Proxima Centauri b, come è stato battezzato, occupa la cosiddetta “habitable zone”; trovandosi a una distanza dalla stella che consentirebbe l’acqua allo stato liquido; presupposto fondamentale per la vita. I calcoli stimano che si potrebbe trattare di un oceano pianeta, vale a dire un corpo celeste di natura terrestre completamente ricoperto di acqua.

La missione Kepler ha fatto luce su Kepler-438-b, a 472 anni luce dal sistema solare. È il pianeta potenzialmente più simile alla Terra (ma anche a Venere). Simili le temperature in superficie e le dimensioni. Gliese 667 Cc è più lontano e gira intorno a una stella più piccola del sole, ma consente una temperatura media di 13°C. Ce ne sono altri, ma non si può andare oltre con le supposizioni e in ogni caso rimangono, per ora, distanze impercorribili. Le nuove speranze sono affidate al progetto Breakthrough Strashot, che punta a inviare una flotta di sonde in grado di viaggiare ad altissima velocità (al 20% della velocità della luce) per 41mila miliardi di chilometri. Potrebbero raggiungere le estremità del sistema solare in tre giorni. Direzione, Alpha Centauri, a due passi dal pianeta extrasolare Proxima Centauri b. Progetto appoggiato anche da Stephen Hawking e da Mark Zuckerberg e finanziato dal magnate russo Yuri Milner. Prevedibilmente potrà effettuarsi nel 2069. La vita?

Per la Nasa la troveremo entro il 2025; per il Seti (Ricerca di intelligenza extraterrestre) entro il 2040. Più prosaicamente potremo valutare dei parametri specifici e in base a ciò ipotizzare seriamente qualche attività organica. È stata approntata una formula matematica da Caleb Scharf del Columbia Astrophysics Laboratory di New York, e da Leroy Cronin dell’Università di Glasgow, in Inghilterra. Valuta di un pianeta il numero di composti chimici (comprese proteine, zuccheri e grassi) e la quantità di “mattoni elementari” necessari a consentire a un organismo di nutrirsi e riprodursi. E forse allora potremo davvero dare credito alla previsione dell’astrofisico Frank Drake, che nel 1961 espresse la sua opinione più ottimistica sulla possibilità di civiltà tecnologiche: 600mila mondi avanzati nella sola Via Lattea.

Pianeti impossibili
Bella la speranza di scoprire mondi abitabili, ma la stragrande maggioranza dei pianeti individuati fino a oggi, è del tutto inospitale. I pianeti PSR fanno parte di un sistema solare morto bombardato da continue radiazioni. Su HD 189733b spirano venti a 4.500 km/h, con temperature che sfiorano i 2mila gradi. WASP-18bc è talmente vicino alla sua stella che finirà presto inghiottito, con la sua velenosa atmosfera. Fa invece freddissimo su OGLE, il pianeta extrasolare con la temperatura più bassa: - 220 gradi centigradi. E ci sono infine situazioni in cui i pianeti extrasolari sono talmente giovani da non essere ancora completamente formati. Accade sul sistema RXJ1615, caratterizzato da una stella di circa due milioni di anni circondata da anelli detritici che un giorno diverranno corpi celesti. 

I pianeti di Guerre Stellari
Stars Wars - celebre saga di George Lucas - ci ha fatto sognare, con i suoi mondi inimmaginabili e fantastici. Ma arriva dalla Nasa una sorpresa: i pianeti considerati dal colossal cinematografico potrebbero essere reali. Kepler-16-b è un pianeta gigante simile a Saturno, posto a 200 anni luce dalla Terra: illuminato da due soli ricorda Tatooine, luogo natale della famiglia Skywalker (protagonista della saga); Ogle 2005-BLG-39OL, un corpo celeste completamente ghiacciato, è simile a Hoth, presente nel film "L'impero colpisce ancora". "L'attacco dei cloni" è invece evocato da Kamino, un pianeta dove piove sempre, e assimilabile a due lune del sistema solare: Europa e Encelado.

Vita su Marte
Guardiamo sempre più in là, ma senza dimenticare che anche nel sistema solare ci sono realtà che potrebbero ospitare la vita. Il primo della lista è Marte; e non è un caso che gran parte delle risorse in campo ingegneristico spaziale vengano indirizzate per missioni sul pianeta rosso. Il successo dei robottini Spirit e Opportunity ne dimostrano l'importanza. Pochi giorni fa la notizia diramata dal Cnr, secondo la quale Marte potrebbe ospitare forme di vita primordiali simili ai batteri terrestri. Gli scienziati sono giunti a queste conclusioni dopo avere analizzato numerose fotografie inviate dai rover marziani. Le rocce del pianeta rosso mostrano, infatti, stratificazioni sedimentarie analoghe a quelle riscontrabili sulla Terra, per via dell'azione di microrganismi. 

La coscienza? Ecco dove si nasconde


Siamo tormentati dai dubbi? E' un buon segno. Significa che possediamo una coscienza. Così pensava Cartesio. L'uomo, di fatto, è l'unica specie in grado di porsi degli interrogativi che vanno oltre la quotidianità. In questi termini s'indica la consapevolezza di sé. C'è solo un problema: nessuno ha idea di cosa sia esattamente la coscienza e dove risieda. Anche perché forse non va cercata dal punto di vista morfologico o anatomico, bensì da quello funzionale: la consapevolezza di sé non sarebbe, infatti, il risultato dell'azione di una particolare area cerebrale, ma della relazione fra i neuroni che si instaura fra diversi scompartimenti mentali. Quello che potrebbero avere messo in luce dei neurologi dell'Harvard Medical School e del Beth Israel Deaconess Medical Center. «Per la prima volta abbiamo individuato una connessione fra la regione del tronco cerebrale coinvolta nell'eccitazione e regioni che riguardano la consapevolezza, presupposti chiave per spiegare la coscienza», dice Michael Fox, professore di Neurologia presso il Beth Israel Deaconess Medical Center.

Il tronco encefalico è il centro di smistamento degli impulsi nervosi: da qui infatti passano le fibre che innervano il midollo spinale, il cervello e il cervelletto. Regola azioni fondamentali come la respirazione, il ritmo sonno-veglia, la circolazione sanguigna, la pressione nei vasi. E sarebbe strettamente connesso con il funzionamento della coscienza. Che si è sempre pensato risiedesse in un punto imprecisato della corteccia cerebrale, lo strato più esterno del cervello, legato al pensiero, alla parola e alla concentrazione. Il test più importante è stato effettuato su 36 pazienti con lesioni del tronco encefalico, 12 dei quali in coma; servendosi di una nuova tecnica di analisi del tessuto cerebrale, la Voxel-based Lesion-Symptom Mapping; incentrata sull'elaborazione dei voxel, corrispettivi tridimensionali dei pixel (comunemente usati nelle immagini). E' emerso che esiste una piccola porzione del tronco encefalico - il tegmento pontino dorso laterale rostrale - che influenza lo stato comatoso, e dunque la perdita di coscienza. Da qui, coinvolgendo altri malati, si è giunti a identificate con la risonanza magnetica l'insula anteriore e la corteccia cingolata anteriore pregenuale, entrambi "scritturati" dal tronco encefalico.

La prima risiede nella corteccia cerebrale ed esprime lo sviluppo cognitivo ed emozionale di un individuo; la seconda, frammento corticale situato fra i due emisferi, è fondamentale per l'elaborazione delle esperienze e dei pericoli: il caratteristico disturbo post-traumatico da stress che accorre, per esempio, ai superstiti dei terremoti, dipende dalla grandezza di quest'area. «Con questi risultati possiamo comprendere la connettività cerebrale, alla base della coscienza», racconta Fox, «e spiegare come una lesione localizzata influenza l'intero sistema neuronale». Non a caso s'è iniziato a parlare di "connettoma" per indicare la mappa delle connessioni fra tutti i neuroni del cervello. La tesi cavalcata anche da Stuart Hameroff, anestesista americano dell'Arizona University, da sempre in prima linea nello studio della coscienza; e dal matematico Roger Penrose, professore emerito a Oxford, amico di Stephen Hawking, e autore del famoso libro La mente nuova dell'imperatore. I due vanno oltre e parlano di "vibrazioni quantistiche" asserendo che molti anestetici agiscono su particolari strutture cellulari di natura proteica, i microtuboli. Risiedono nelle cellule nervose e spiegherebbero ritmi elettroencefalografici anomali; ma del tutto assimilabili a un flusso coscienzioso.

La coscienza, dunque, potrebbe non essere una prerogativa umana e annidarsi innatamente in microstrutture deputate al trasporto di sostanze e alla stabilità cellulare. Ne è convinto Penrose che così giustifica «il topo che elude una trappola e porta via una cioccolata»; ma anche l'ipotesi che, essendo un prodotto di natura quantistica, possa sopravvivere all'individuo. E qui si aprono teorie che sfiorano la fantascienza. Perché è possibile presupporre che, se la coscienza è svincolata dall'evoluzione delle specie, può essere una prerogativa dell'universo; che trascende completamente la nostra esistenza. Robert Lanza - per il New York Times il terzo più importante scienziato vivente, autore di Biocentrismo (Il Saggiatore, 2015), e professore della Wake Forest University School of Medicine - ne parla apertamente affidandosi all'estro di Bob Berman, un cosmologo. «La nostra coscienza ha un proprio senso nel mondo». Insomma si muore, ma in un certo senso esisteremo per sempre. E Lanza, certo, lo sa esprimere con più poesia: «Con la morte, la nostra vita diventa un fiore perenne che torna a vivere nel multiuniverso».

Sonno e coscienza
Anche il sonno, per molti versi, è un mistero; e si interfaccia al tema della coscienza, perché dormendo, di fatto, smettiamo di renderci conto di ciò che succede. L'impressione è che la connettività neuronale entri in una fase di quiescenza, adombrando i sensi e la consapevolezza del mondo che ci circonda. Ma è proprio così? Secondo uno studio condotto da esperti dell'Università del Wisconsin, in Usa, quando dormiamo le regioni che regolano la percezione, la riflessione e l'azione, entrano in stand-by e smettono di funzionare. Si è infatti visto che gli impulsi nervosi normalmente veicolati durante la veglia, con il sonno si arenano, impedendo l'attivazione di neuroni specifici. La cosiddetta "disconnessione cerebrale" è però uno stratagemma fondamentale adottato dall'organismo per far riposare gli organi, consentire il metabolismo e regolare la diffusione di ormoni.

La relazione con l'inconscio
Complessa è anche la relazione con l'inconscio, che indica le attività mentali escluse dalla coscienza di un individuo. Ci sono dunque pensieri, emozioni, tendenze comportamentali, che parafrasano l'inconscio e si antepongono alla coscienza. L'inconscio è una conoscenza latente delle cose, diceva Platone; poi ha preso una forma più specifica con gli studi di Freud e Jung. Quest'ultimo si rifà all'inconscio collettivo ereditato dai nostri antenati, e in qualche modo curiosamente riconducibile alla coscienza che sopravvivendo entra a far parte di un disegno metafisico globale. Tutto torna? Più o meno. Certamente si può parlare di sensibilità incosciente che dà modo al cervello di accumulare informazioni senza rendersene conto. E si può definitivamente scalzare il detto secondo il quale si utilizza solo una parte del cervello: gli ultimi studi rivelano che è esattamente il contrario.

La dichiarazione di Cambridge
Gli scienziati ritengono che molte specie animali nutrano consapevolezza di sé. Così si spiegherebbero le loro emozioni, talvolta assimilabili a quelle umane, e molti comportamenti giustificati solo da una coscienza della propria natura. Nel 2012 è stata stipulata la "Dichiarazione di Cambridge sulla coscienza" per ufficializzare quest'attitudine zoologica. Il fenomeno coinvolge soprattutto il mondo dei mammiferi e degli uccelli. Le scimmie vegliano i cadaveri dei propri familiari; i corvi aspettano che passi una macchina e che schiacci delle noci per poi mangiarle; i delfini giocano per ore; gli elefanti collaborano; le ghiandaie cambiano il nascondiglio del cibo se viste da propri simili. Il test dello specchio, in cui l'animale è invitato a specchiarsi e a reagire alla propria immagine, è un'ulteriore prova. Finora l'hanno passato varie scimmie, le orche, e gli elefanti. E gli uomini oltre il diciottesimo mese.