sabato 30 settembre 2017

Ricognizioni autunnali


Continuano le ricognizioni per i campi agratesi, con lo scopo di dare vita nei prossimi tempi alla prima guida della flora del paese. Parrà banale ma è un lavoro mai compiuto meticolosamente e quanto mai di attualità, visti i repentini cambiamenti climatici che si stanno verificando.

29 settembre 17
Hot spot 1 (zona Burago)
Specie osservate:

- Cardo asinino
- Verbena comune
- Pentafillo
- Plantago major
- Artemisia vulgaris
- Salcerella
- Mycelis muralis
- Tarassaco
- Persicaria (con tipica macchia fogliare)
- Giavone comue

30 ottobre 17
Hot spot 2 (zona Colleoni)
Specie osservate:

- Amaranto comune
- Erba morella
- Ortica comune
- Euforbia prostrata 

venerdì 29 settembre 2017

La nascita del primo fiore

Risultati immagini per fiore

A un certo punto il mondo divenne colorato e profumato come non era mai stato prima. Le angiosperme, infatti, determinarono la comparsa di una delle più belle strategie evolutive della natura: il fiore. Prima di esse esistevano solo le gimnosperme (piante come i larici o gli abeti), anch’esse evolute, ma incapaci di dare vita a un fiore profumato e colorato; e dunque a una struttura in grado di trasformarsi in un frutto specializzato per proteggere nel migliore dei modi i semi. Quando andiamo in giro e osserviamo la vegetazione che ci circonda, abbiamo quasi sempre a che fare con le angiosperme; la stragrande maggioranza della flora moderna, a riprova di un successo evolutivo ineguagliato. Anche le erbette che crescono a bordo campo o strappando la vita a un ciglio stradale, che di solito non degniamo di uno sguardo, sono piante di questo tipo: altamente evolute e funzionali. Le scrutiamo da vicino e anche senza essere esperti riusciamo a capire che sono formate da più parti: una corolla, dei petali, dei sepali (le foglioline verdi che avvolgono il fiore formando il calice), uno stelo, delle foglie ben diverse da quelle pungenti dei pini. Dunque, fu un dilemma “abominevole” anche per Charles Darwin, il padre dell’evoluzione e della selezione naturale: quando e perché si sono originati i primi fiori?

L’occasione per affrontare un argomento che sollecita gli scienziati dalla notte dei tempi, arriva da un recente studio pubblicato da Nature Communication; e che si riferisce al lavoro di ricercatori che hanno messo in relazione i pochi fossili di fiori a disposizione con le caratteristiche di migliaia di prodotti floreali che ci circondano. Così è stato possibile “inventare” il primo fiore apparso sulla Terra; almeno 140 milioni di anni fa. Com’era fatto? Come nessun altro fiore presente oggi in natura; tuttavia potrebbe essere stato vagamente simile a un giglio; un fiore che conosciamo molto bene e che permette anche ai profani di comprendere la sua efficace attitudine a differenziare una parte femminile (gineceo) e una maschile (androceo) nello stesso vegetale; che incontrandosi permettono la fecondazione e la formazione di nuovi esemplari. Il primo fiore era quindi caratterizzato da petali bianchi e profumati, ampi, disposti a raggiera, in parte sovrapposti; con il centro contraddistinto da stami giallognoli, tipici di una moltitudine di piante, come le margherite, i crochi, gli anemoni. Accadde nel Cretaceo, che viene dopo il Giurassico e precede la nostra epoca, il Paleogene.

Fu un periodo di grande respiro; che permise al pianeta di intravedere il nuovo mondo che sarebbe arrivato di lì a poco, con la fine del Mesozoico e l’estinzione di tutti i dinosauri; contrassegnato dai continenti che oggi tutti conosciamo, dall’alternarsi delle stagioni, da un clima caldo e umido. Furono fiori perfettamente funzionali, ma ancora piuttosto primitivi. Riguardava soprattutto la tipologia del seme che nei milioni di anni successivi sarebbe andata perfezionandosi, offrendo la possibilità alla flora di riprodursi grazie al vento (fecondazione anemofila) o agli insetti (fecondazione entomofila). E dunque proprio gli insetti furono i primi a beneficiare di questa rivoluzione evolutiva. Esistevano già da più di duecento milioni di anni, ma fu grazie alla comparsa dei fiori che impennarono la loro biodiversità. Arrivando a occupare ogni angolo del mondo e differenziandosi anche dal punto di vista anatomico e fisiologico.

L’ultimo dibattito mira a comprendere da chi si originò questo giglio primordiale. Gli scienziati puntano a una classe di vegetali particolare, ancora riconducibile alle gimnosperme, tuttavia già in grado di riconoscersi per caratteristiche che il mondo floreale non aveva mai contemplato. Fu forse un arbusto che visse nelle pianure subtropicali del Kansas, negli Stati Uniti, contemporaneamente a molte specie di dinosauri. Una pianta diversa dalle altre, che per superare i lunghi periodi di siccità iniziò a perdere periodicamente le foglie. Gli scienziati focalizzano la loro attenzione sulla cosiddetta “doppia fecondazione”, prerogativa fondamentale delle angiosperme. Si verifica quando il granulo pollinico (rappresentato da tre nuclei spermatici) fecondano l’oosfera (la cellula femminile) che darà origine allo zigote (la nuova pianta), e il sacco embrionale, che originerà l’endosperma la cui funzione sarà quella di “alimentare” l’embrione in via di sviluppo. È qui che l’evoluzione porta a superare il deficit funzionale delle gimnosperme, definite non a caso piante a seme nudo. E un bell’esempio è fornito da una delle specie più ancestrali: la magnolia.

Oggi la riconosciamo perché alta fino a venti metri, con foglie coriacee e fiori molto appariscenti. Se ne occupò per primo Charles Plumier, botanico francese del Settecento, che non conosceva ancora la sua primitività, ma fu in grado di descriverne gli aspetti botanici salienti come il grande numero di stami e di carpelli, in antitesi alle caratteristiche più moderne delle angiosperme. Linneo, padre della tassonomia, disse qualcosa di più e indicò la specie “grandiflora”, la tipica magnolia dei nostri giardini, il cui fossile più antico risale a 95 milioni di anni fa.

I numeri delle angiosperme
Sono le piante più abbondanti sulla Terra, arrivando a contare fino a 300mila specie. Chiamate anche Magnoliophyte si dividono in due classi: monocotiledoni e dicotiledoni. Le prime si differenziano dalle seconde per la presenza di una sola foglia embrionale carnosa che fornisce nutrimento all’embrione. Alcuni studi asseriscono che la prima angiosperma sia comparsa nel Triassico superiore (215 milioni di anni fa). Alcune curiosità. Il fiore più grande della Terra appartiene alla specie Rafflesia arnoldii, con un diametro di 90 cm; il frutto, alla Cucurbita maxima (la zucca), che è arrivato a pesare 1054 kg. Una colonia di pioppi nello Utah, in Usa, riproducendosi solo per via vegetativa, forma un unico organismo formato da 40mila alberi; riconducibili a un primo seme germogliato 80mila anni fa. Se si guarda invece alla singola pianta, il record spetta all’Oliveira do Mouchao, un olivo portoghese di 3350 anni.

Fiori ambrati
I resti dei fiori si conservano raramente, perché sono composti da molecole che si degradano con facilità. Ma nell’ambra possono resistere per milioni di anni. È quel che hanno scoperto degli scienziati dell’Oregon State University College of Science, in Usa, in un frammento di resina risalente a cento milioni di anni fa; riconducibile a esemplari di Araucaria. Gli esperti hanno identificato una nuova specie, Tropidogyne pentaptera; simile al Tropidogyne pikei, un’angiosperma vissuta nel Cretaceo nei boschi australiani. Un fiorellino di cinque millimetri, e cinque petali, perfettamente in linea con le piante moderne. “Sono fiori conservati così bene che sembrano essere stati appena colti dal giardino”, esulta George Poinar Jr., fra gli scienziati che hanno effettuato la scoperta.

Alla conquista del West
L’adattamento dei vegetali non è solo appannaggio delle caratteristiche floreali, ma riguarda anche la capacità di “sentire” il clima e dirigere i propri semi e le proprie radici verso i terreni più propizi alla crescita. È quel che sta accadendo negli Stati Uniti dove un team di studiosi ha evidenziato un curioso fenomeno: una silenziosa e discreta marcia delle piante verso ovest. Significa che i vegetali stanno “decidendo” di abbandonare le coste atlantiche per muoversi verso quelle pacifiche. Lo sbigottimento dei ricercatori è palese, perché sarebbe più lecito aspettarsi una “migrazione” verso nord, in cerca di temperature più gradevoli. Dunque il vero motivo  di questa fuga non è dovuto all’innalzamento delle temperature, ma alla necessità di raggiungere le regioni dove le precipitazioni sono più abbondanti. 

martedì 26 settembre 2017

Il cammino dei Denisova


E' un mistero che potrà essere risolto nei prossimi anni, tuttavia la domanda che si pongono gli antropologi è oggettivamente intrigante: è possibile che gli aborigeni australiani siano figli dei denisoviani? Andiamo con ordine. Nel 2008 in Siberia venne scoperta una nuova specie umana. Non un "primitivo" come può essere un australpithecus o un erectus, ma una specie molto simile a noi e ai neandertaliani; una classe tassonomica pensante, in grado probabilmente di seppellire i suoi morti, e di osservare pratiche non dissimili da quelle dell'Homo sapiens agli albori del suo cammino evolutivo. L'Homo di Denisova abitò le caverne siberiane e venne senz'altro in contatto con la nostra specie e con i neandertaliani; ci furono degli accoppiamenti e oggi ne abbiamo la prova: l'Homo sapiens è infatti caratterizzato da percentuali variabili di Dna appartenuto ai denisoviani. Ma non in modo indifferenziato. 

Esistono, di fatto, popolazioni, dove la percentuale di Dna denisoviano risulta più abbondante. Si va dunque dalla minima percentuale dello 0,2% degli originali abitanti delle Americhe, al 4-6% degli aborigeni australiani. E da qui la riflessione fatta da Richard Bert Roberts, direttore del centro scientifico di archeologia dell'università di Wollongong: "Ci sono molti elementi per credere che i denisoviani abbiano compiuto un lungo cammino dalla Siberia all'Australia". Un viaggio di oltre 8mila chilometri. L'ipotesi è suggestiva. Ma del resto le specie umane discendenti dell'Homo eidelbergensis ci hanno offerto molti spunti per credere che fosse insita nel loro animo la spinta a muoversi verso territori vergini. Il cammino dei sapiens è noto: 200mila anni fa, Africa; 70mila anni fa, Asia; 60mila anni fa, Indonesia; 50mila anni fa, Australia; 45mila anni fa Europa. Meno quello dei denisova, che, appunto, potrebbero avere incrociato il tragitto dei sapiens diretti verso l'Oceania. C'è un punto, in ogni caso, che lascia perplessi gli scienziati: come hanno fatto i denisova a superare la linea di Wallace? 

E' una linea fittizia, che divide le caratteristiche naturalistiche dell'Asia da quelle dell'Oceania, sottolineando lo sviluppo di realtà tassonomiche completamente diverse fra loro (motivo per cui in Australia esistono animali unici nel loro genere). Si pensa che possa essersi verificata una conquista del tutto casuale, basata sulla capacità dei denisova di sfruttare particolari correnti e mezzi assolutamente rudimentali, per esempio delle zattere. Muovendosi a piccoli passi, saltando da un'isoletta all'altra, fra le tante che occupano i mari situati fra l'Oceano Pacifico e l'Indiano. Dove peraltro risiede Flores, l'isola della Sonda dove, nel 2004, venne rinvenuto un altro esemplare "moderno": l'Homo floresiensis (che però negli ultimi tempi si sospetta possano essere solo i resti di un sapiens colpito dalla sindrome di Down). 

Insomma, ce n'è per poter sviluppare un romanzo ambientato 50mila anni fa; se si pensa che in corrispondenza della linea di Wallace, a quei tempi, ci deve essere stato un gran traffico di specie che puntavano tutte nelle stessa direzione: l'Australia. Certamente, l'Homo sapiens ebbe la meglio su tutti gli altri, tuttavia è sempre più vicina la prova ufficiale che, dove un giorno sarebbero sorte Sidney e Brisbane, migliaia di anni fa sbarcò anche un nostro cugino.   

domenica 17 settembre 2017

L'estinzione dei mammiferi


Fra i mali che affliggono l'ambiente ce n'è uno che pare inesorabile e irreversibile: è la frammentazione dei territori. Un fenomeno che sta mettendo a dura prova molte specie animali; specialmente quelle di grossa taglia. E' stato recentemente compiuto un lungo lavoro che ha permesso di evidenziare le specie più a rischio fra i mammiferi. I test compiuti dagli scienziati della Colorado State University, in Usa, evidenziano uno stretto rapporto fra la frammentazione degli habitat e il collo di bottiglia. Con quest'ultimo termine si intende il livello minimo oltre il quale una popolazione non può scendere: indica il numero degli esemplari che la compongono e che sotto una certa soglia è indice di estinzione. Il colpevole? L'uomo. «Per la prima volta nella storia della Terra, una sola specie, la nostra, domina il globo», racconta Kevin Crooks, professore presso il Dapartement of Fish, Wildlife, and Conservation Biology. «Ma tanto più noi siamo connessi e uniti da infrastrutture, tanto maggiori sono i problemi arrecati alle altre specie».

Lo studio s'è concentrato sulle relazioni precise fra stato di frammentazione di un determinato territorio, e impatto specifico su una particolare specie. Così è stato possibile sviluppare il primo inventario che cataloga le specie in pericolo in relazione all'impoverimento dei territori; caratterizzato da mappe geografiche illustranti i punti precisi in cui l'impatto antropico è più difficile da gestire. Due le considerazioni principali: lo sviluppo urbano e la deforestazione. La crescita delle città è direttamente proporzionale al depauperamento genetico delle specie, e alla riduzione della biodiversità; e analogamente, la deforestazione, priva gli animali di corridoi sicuri attraverso i quali muoversi da un territorio all'altro. Crooks ha citato l'esempio dei leoni di montagna, nei primi del Novecento diffusi in tutti gli Stati Uniti, ma oggi molto più rari. La caccia indiscriminata li ha fortemente ridimensionati, e ora la frammentazione del territorio sta facendo il resto. Non si sa quanti ce ne siano (anche perché sono animali molto schivi, difficili da censire), tuttavia si è consci dell'impossibilità che hanno di muoversi liberamente per il continente, e dell'incremento del fenomeno di l'imbreeding (incrocio fra consanguinei); anticamera di sterilità e malattie genetiche.

Va poi tenuto conto di un altro aspetto, ossia la necessità delle specie di migrare da una latitudine all'altra. Il cambiamento climatico, infatti, ha portato molte specie a muoversi verso nord, ma la frammentazione dei territori risulta un ostacolo insormontabile; e l'animale che vive in un contesto climatico che non gli è congeniale, alla fine, può solo estinguersi. Soluzioni? «E' un problema che va affrontato su larga scala», dice Crooks, «prima che nuove specie scompaiano per sempre». Si parla dunque di connettività, auspicando interventi che possano, se non ripristinare gli ambienti del passato, almeno fornire dei "passaggi" per muoversi da una zona all'altra senza dover fare i conti con la firma dell'uomo. «I corridoi per la fauna selvatica», clonclude Crooks, «ne parliamo da tempo, ma ora è arrivato il momento di agire».

sabato 2 settembre 2017

Il primo cane



Si sa che il cane è il migliore amico dell'uomo e che il primo incontro fra i due sia avvenuto migliaia di anni fa. Più difficile capire dove si sia verificato. Ora, però, un nuovo studio pubblicato su Proceedings of the National Academy of Sciences, svela l'arcano mistero: il primo addomesticamento sarebbe avvenuto a cavallo fra Nepal e Mongolia 15mila anni fa. E' il risultato di una ricerca genetica condotta in Usa. Gli esperti hanno analizzato 185mila marcatori genetici prelevati da più di 5mila cani. Sono stati messi a confronto animali che vivono allo stato brado e mantengono un pool genetico facilmente riconducibile ai canidi pre addomesticamento, con quelli "ibridi", figli di incroci dipendenti dall'attività umana. In questo modo è stato possibile risalire al filone genetico più antico che si perde negli infiniti e perduti territori dell'Asia centrale. Secondo gli studiosi il cane moderno deriva dai lupi che per primi si avvicinarono agli accampamenti umani in cerca di cibo. 

Fu la conseguenza del progressivo e repentino cambiamento climatico legato alla fine dell'ultima glaciazione, quella wurmiana. Si concluse con l'inizio dell'Olocene su per giù 12mila anni fa. I ghiacci si ritirarono, la popolazione umana crebbe e così quella dei grandi predatori sempre più abituati a nutrirsi degli scarti lasciati indietro dall'Homo sapiens sapiens. A lungo andare il rapporto fra le due specie si fece sempre più stretto, il lupo perse un po’ della sua aggressività, creando i presupposti per una convivenza pacifica e "simbiotica" con l'uomo moderno. Prima di questo studio, il più importante in termini genetici, si pensava che l'addomesticamento del cane fosse avvenuto 16mila anni fa in Cina. Dopo il cane l'uomo addomesticò la capra (10.000 a.C.), la pecora (8.000 a.C.), e la mucca (8.000 a.C.); giungendo così all'alba di una nuova era che portò all'esplosione demografica dell'uomo e al consolidamento di due pratiche sconosciute a tutti i nostri antenati del Pleistocene: l'allevamento e la pastorizia.