sabato 31 marzo 2018

Un'impronta di 700mila anni

In principio fu l’acqua, anche per gli uomini che per primi popolarono il pianeta. Potevano, infatti, bere senza limiti e cacciare con facilità: pesci, uccelli, mammiferi. Non a caso le più interessanti tracce lasciate dai nostri antenati sono state riscontrate in prossimità di uno specchio lacustre o di un fiume. L’ultima notizia giunge dall’Etiopia, dove un team di scienziati italiani ha riportato alla luce orme risalenti a 700mila anni fa. Siamo in pieno Acheuleano, industria litica del Paleolitico inferiore; dove gli uomini producevano manufatti come le amigdale, che consentivano di tagliare carni e pelli, offrendo maggiori comfort e quindi chance di sopravvivenza. L’Africa, e in particolare l’Etiopia, non erano quelle di oggi; ma l’uomo trovò qui uno dei posti ideali dove dimorare. Prima delle grandi migrazioni che avrebbero portato la nostra specie a conquistare il mondo intero. C’era l’Homo heidelbergensis, un tipo col naso schiacciato, e la mandibola molto sviluppata; e soprattutto un cervello pressoché simile a quello dell’uomo moderno. Ma le fattezze ricordavano soprattutto l’Uomo di Neanderthal (non ancora comparso); viveva di caccia e di raccolta e dette vita a un clan a una cinquantina di chilometri da dove oggi sorge Addis Abeba. Si può dunque presumere che un giorno qualsiasi alcune famiglie si trovarono a bighellonare intorno alla pozza preferita: gli uomini macellavano gli animali, le donne accudivano i piccoli e li aiutavano a muovere i primi passi. Probabilmente accesero un  fuoco (anche se la prima conferma di un focolare risale a 600mila anni fa), per ottenere piatti più appetibili, che però erano piuttosto poveri di zuccheri e contenuti vitaminici; circostanze che compromisero un brillante sviluppo cerebrale. Poi accadde qualcosa di inaspettato. Non lontano, il Monte Zuqualla, oggi inattivo e ricoperto da un lago, cominciò a scaldarsi. Gli antichi sapevano della sua instabilità e della sua attitudine a sparare in cielo dardi infuocati. La pioggia di piroclasti fece scappare i nostri antenati che si rifugiarono in qualche antro, e contemporaneamente sommerse le tante tracce lasciate lungo le rive dello stagno. Orme che, protette da uno strato di ceneri vulcaniche, si sono conservate e sono giunte fino a noi. Nonostante i tre grandi periodi glaciali - Mindel, Riss e Wurm - che sconvolsero il clima su tutta la Terra da 700mila anni fa a poco più di 10mila anni fa. Il luogo della scoperta sorge in corrispondenza di un’area già nota agli antropologi. Si trova infatti a ridosso di Melka Kunture, sito paleolitico dove si scava dagli anni Sessanta. I primi strati risalgono a quasi due milioni di anni fa, gli ultimi al periodo di transizione verso il mesolitico (200mila anni fa). E hanno restituito anche resti ossei appartenenti a Homo sapiens arcaico e Homo erectus. In questo caso, non sono stati rinvenuti scheletri, ma appunto tracce del cammino di alcuni nostri progenitori; e sono altrettanto importanti per capire le dinamiche evolutive della specie. La posizione delle orme, infatti, racconta il grado di socialità degli heidelbergensis, e spiega come piccoli e grandi vivessero in stretto rapporto, supportati dalla necessità di aiutarsi reciprocamente e di accudire la prole. Le cosiddette cure parentali raggiunsero in questa fase il loro culmine, sancendo, di fatto, le caratteristiche comportamentali che avrebbero di lì a poco giustificato amori e affetti di neandertaliani, denisoviani e cromagnonoidi (tre specie che coabitarono in Europa fino a 40mila anni fa). Le analisi riportano il movimento di bimbi di età compresa fra uno e tre anni. Non solo i piedini che tentano i primi passi, ma anche le manine con cui presumibilmente i piccoli si sforzarono di riacquistare l’equilibrio dopo una caduta. E con essi, sono stati riscontrati anche i segni lasciati dal passaggio di ippopotami e altri animali con cui l’uomo viveva in stretto contatto. Un Laetoli bis? Non proprio. Il riferimento alle più celebri orme primitive dell’uomo infatti, può essere valutato solo fino a un certo punto. Perché nei pressi della Gola di Olduvai (la culla del genere umano), le orme emerse negli anni Settanta riguardarono forme australopitecine vissute oltre tre milioni di anni fa, e ben diverse dalla realtà appannaggio del genere Homo. A Laetoli camminavano tre Australopitechus afarensis, a Melka Kunture, i membri di varie famiglie appartenenti a una specie molto più evoluta, con un cervello già in grado di pensare e formulare suoni che nel giro di qualche migliaio di anni avrebbero offerto le basi per lo sviluppo dei primi linguaggi. Anche in Tanzania, tuttavia, le tracce degli Australopithecus si sono preservate grazie alle bizze di un vulcano, il Sadiman, distante una ventina di chilometri dal luogo del rinvenimento. I piroclasti si trasformarono in tufo regalandoci a distanza di milioni di anni la prova di 50mila passi compiuti da antichi animali, affiancati da quelli di qualche parente di Lucy (l’Australopithecus afarensis più noto), la madre di tutti noi. 

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